Matt Dillon nel film “La Casa di Jack”

Alcuni appunti, del tutto provvisori, su La Casa di Jack

L'asino vola
16 min readMar 30, 2019

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di Gigi Livio

Chi pensa e dice che l’avanguardia è morta è semplicemente un ignorante, e non altro intendo, perché ignora le radici stesse di quel modo di fare arte che affonda le proprie radici nel momento in cui prima nasce e poi diventa egemone il mercato borghese che è, per sua natura, onnifago in cui, pertanto, anche l’arte diviene un “bene culturale” e cioè un bene di consumo. E, poiché questo mercato che applica a ogni cosa il cartellino del prezzo, è più che mai imperante oggi come allora e più oggi che allora l’avanguardia non solo è viva ma lo sarà finché esisterà un solo artista che intende strappare quel terribile cartellino per cercare di realizzare opere che abbiano come motore primo, non il solo è chiaro, proprio il rifiuto dell’arte mercificata e cioè dell’arte ufficiale della borghesia.

Accenno soltanto di passata a un problema decisamente complesso che riguarda l’aspetto etico di ciò che ho appena affermato e cioè il fatto che questa ignoranza, estremamente colpevole in chi in qualche modo fa parte di quel gruppo sociale che si suole definire come quello degli intellettuali, lo è invece poi assai meno, o proprio per nulla, in chi invece deve la propria ignoranza al silenzio, silenzio che vuol dire consentimento con l’arte dominante notoriamente espressione della classe dominante, di coloro che appartengono al ceto di cui sopra. Ovviamente qui si affaccia in modo prepotente il solito problema della scuola, il luogo materiale e ideale dove i cittadini dovrebbero mettere le basi per la propria cultura come strumento privilegiato per comprendere il mondo e il posto che loro occupano nella società; ma questo è argomento che pretenderebbe ben più articolato discorso e quindi mi pare basti, in questa sede, di averlo segnalato.

Ma questi miei appunti sull’ultimo film di von Trier sono, come recita il titolo, del tutto provvisori, perché per dire qualcosa di filologicamente fondato sarebbero necessari almeno tre elementi che ora mancano a me come a tutti coloro che hanno visto il film in Italia: 1) la possibilità di rivedere la pellicola in dvd per articolare un discorso, che basandosi sulla semplice visione non può che essere legato a un’impressione e, dunque, risultare impressionistico e non sufficientemente approfondito, 2) la versione in lingua originale per cercare di cogliere, tra l’altro, nelle intonazioni degli attori (farò presto un esempio concreto) le intenzioni del regista filtrate dalla personalità dell’attore e, 3) la possibilità di vedere la pellicola nella sua versione integrale e cioè quella voluta dal regista dal momento che, anche in questo caso come già in Ninphomaniac, compare la scritta:

“Questa è la versione ridotta e censurata del film di Lars von Trier. Lars von Trier l’ha autorizzata, ma non ha partecipato alla realizzazione”.

Mi pare chiaro che quest’ultimo punto non sia per ora superabile e, pertanto, bisognerà tener conto che ciò che vediamo è un’opera mutila anche se la mutilazione è stata “autorizzata”. Non è chiaro cosa questo voglia dire anche se chiaramente von Trier sembra con quella scritta voler dire che ha dovuto cedere alla logica del cinema come industria, pena non avere i mezzi per realizzare la sua opera, anche se obtorto collo dal momento che si tratta di un lavoro che intende proprio negare il cinema come parte estremamente rilevante dell’industria culturale.

Un’altra osservazione di passata riguarda il primo punto. Vorrei fosse ben chiaro che i dvd non sostituiscono affatto la visione sul grande schermo, semplicemente servono a rammemorarla. La visione di un film sul grande schermo è indispensabile per comprendere le intenzioni del regista e degli attori che hanno pensato, appunto, la proiezione in quelle dimensioni. È facilissimo fare due esempi: per me che ho avuto la fortuna, per pure ragioni anagrafiche, di vedere la Terra trema al tempo in cui è stata pensata e realizzata da Visconti rimane ancora vivo il ricordo di quei bianchi e neri, di quelle sfumature intermedie su cui il regista con la collaborazione del direttore della fotografia, il grande G.R. Aldo, ha cercato di rendere un’atmosfera ricchissima di significati vari e variati. A questo proposito, e procedendo sempre per esempi il che è ben lontano dal fare un discorso compiuto naturalmente, un tentativo di analizzare il famoso populismo, uso qui la parola in senso strettamente “scientifico” e non come si intende oggi in senso talmente allargato da non significare più nulla, di Visconti può essere sviluppato soltanto tenendo conto dell’espressione formale che il regista avrebbe dato a questo suo sentimento; e l’espressione formale è comprensibile e analizzabile esclusivamente alla proiezione sullo spazio e sulle condizioni di proiezione che il regista aveva in mente mentre realizzava la sua opera cambiate le quali ci troviamo dinnanzi a un traduzione vera e propria con tutto ciò che questo comporta. Non mi pare sia il caso di soffermarsi sul fatto che molte sciocchezze possono essere state scritte su questo argomento soltanto perché sedicenti studiosi analizzano i film vedendoli su un piccolo schermo quale che sia questo schermo. È chiaro che quanto detto esclude i telefilm che, al contrario, vengono concepiti proprio per il piccolo schermo.

Un secondo esempio riguarda l’attore. Questi, nel momento in cui viene ripreso dalla mdp, ha in mente anch’egli il tipo di proiezione cui sta prestando il suo corpo, il suo volto e tutta la sua azione attorale: è chiaro, per esempio nei primi e primissimi piani, che quando si tratti di un film da proiettare sul grande schermo, egli lavorerà decisamente sui micromovimenti del volto. Anche qui un esempio: Bogart, nella ben nota scena dell’Ammutinamento del Caine in cui viene interrogato dal tribunale militare che deve stabilire se il suo è stato un atto di vigliaccheria oppure no, è a lungo ripreso in piani americani e primi piani alternati, dove il volto è ben evidenziato, e lì brilla la bravura attorica dell’attore perché in quella scena, grazie ai micromovimenti del volto stesso e agli altrettanto leggerissimi movimenti dell’intensità e della luce dello sguardo, lo spettatore può recepire angoscia insieme a paura mista a una vena di pazzia che è propria di quel personaggio. Tutto ciò sul piccolo o piccolissimo schermo in parte viene perduto. Anche qui è diversa la questione per ciò che riguarda i film prodotti per la televisione o, addirittura come ora succede, per i tablet e gli smartphone e la scarsa espressività di certi attori, non tutti ovviamente, di questo tipo di film è proprio legata a ciò che riguarda le attese dello spettatore che, nella maggioranza dei casi, nemmeno si accorgerà della differenza tra un attore da film e uno da telefilm e si accontenterà, come di solito succede, di una trama che lo coinvolga.

A proposito della Casa di Jack, si può iniziare proprio dalla trama che, in realtà, è volutamente quasi inesistente e riassumibile in poche parole: un uomo medio tipicamente americano, non a caso l’attore che lo impersona è Matt Dillon, è un assassino ripetitivo, trascina i corpi delle assassinate (ma, a un certo punto dice di aver ucciso anche uomini) in un suo magazzino dove li congela; ogni assassinio è intercalato da riflessioni del regista sull’arte e sulla sua funzione nel mondo contemporaneo.

Bruno Ganz e Matt Dillon

La non-vicenda mette in luce fin dall’inizio il suo impianto allegorico e si conclude con una sequenza, su cui tornerò, in cui Virgilio, un meraviglioso Bruno Ganz alla sua penultima ma probabilmente ultima esibizione attorica in un film di valore artistico, conduce il protagonista che col semplice espediente di tirar su un cappuccio di un accappatoio rosso si trasforma in Dante, alla dannazione definitiva e senza possibilità di riscatto poiché, e qui l’allegoria intende farsi manifesta e persino didattica –à la Brecht, per intenderci- non riesce a raggiungere la scala che lo porterebbe a riveder le stelle e, al contrario, nel tentativo di raggiungere detta scala precipita in un abisso di lava infuocata come Virgilio, pur indicandogli la via impervia, aveva preconizzato.

Ho appena scritto che il protagonista del film è il classico uomo medio americano ma il termine geografico può tranquillamente essere ampliato, pur tenendo conto delle caratterizzazioni nazionali che von Trier attribuisce al suo personaggio, al borghese medio di qualsiasi paese occidentale e, infine, a tutte le persone che di questo mondo e di questa società fanno parte. E, da questo punto di vista, uno dei risultati insieme più sorprendenti e profondi della pellicola è l’abolizione, o la riduzione al minimo possibile, della psicologia che muove le azioni dell’assassino. Anche in questo caso si apre un problema enorme cui qui potrò appena accennare.

Quando Marinetti, nel manifesto Il Teatro di Varietà, che è del 1913, scrive

Mentre il Teatro attuale esalta la vita interna, la meditazione professorale, la biblioteca, il museo, le lotte monotone della coscienza, le analisi stupide dei sentimenti insomma (cosa e parola immonde) la psicologia, il Teatro di Varietà esalta l’azione, l’eroismo, la vita all’aria aperta, la destrezza, l’autorità dell’istinto e dell’intuizione

chiarisce, pur nell’ambiguità solita dovuta al non volere o sapere affrontare i problemi in modo articolato -vizio fondamentale di quello che verrà definito “marinettismo” da Palazzeschi quando continuerà a definirsi futurista, ma non seguace del fondatore del movimento- molto nettamente quella che non può non essere una caratteristica fondante dell’avanguardia e cioè, appunto, l’antipsicologismo dal momento che l’arte naturalistica contro cui insorgono gli artisti che si definiscono d’avanguardia, appunto, è proprio tutta intrisa di psicologismo dove la psicologia serve quasi sempre a giustificare le azioni dei personaggi. Farò un esempio su un recente telefilm, la terza serie di True detective. Non si tratta di una serie qualsiasi: qui assistiamo a un tentativo di innalzare il livello medio degli altri telefilm: gli attori sono migliori del solito, la sceneggiatura più accurata e giocata su tre piani temporali, la collocazione dell’azione avviene in luoghi non banali e stereotipati, eccetera. Ma lo psicologismo regna sovrano: il protagonista è tormentatissimo dall’aver compiuto, insieme al suo compagno, un vero e proprio assassinio di un possibile colpevole dell’uccisione di un bambino, e della sparizione della sorellina, nel tentativo di farlo parlare; lo spettatore verrà a conoscere il fatto soltanto in una delle ultime puntate: espediente tipico di chi si basa sulla trama per tener desta l’attenzione dello spettatore cui interessa soltanto sapere come finirà la storia.

Nulla di tutto questo nella Casa di Jack. Alla trama ho già accennato e al non psicologismo anche. Ma, a questo punto, mi sembra il caso di chiarire che l’abolizione della psicologia, da parte di qualsiasi artista d’avanguardia, non vuole assolutamente dire abolizione della psicologia del profondo, anzi è corretto chiarire che ciò che viene dal nostro profondo e che è a noi sconosciuto, o al massimo appena intravisto, è proprio il contrario dello psicologismo così come l’intende l’arte tradizionale:

l’inconscio non giustifica nulla, l’inconscio ci costringe a operare in un determinato modo, quando siano aboliti i freni inibitori ovviamente, senza darci spiegazione alcuna di questi impulsi sulla base di cui noi agiamo:

e ciò che fa il Jack di von Trier è un’allegoria, come già ho detto prima, di ciò che tutti i maschi dell’attuale mondo occidentale, esemplati dal regista sul maschio medio statunitense, qualora saltassero del tutto, come in parte già sono saltati nella società dominata dal luccichio dell’oro e del potere che ne consegue in chi lo possiede, i succitati freni inibitori potrebbero desiderare di fare, almeno secondo l’autore, spinti dal proprio inconscio.

[O a fare tutto ciò in metafora come conviene a una società che si proclama a gran voce democratica. Mentre do l’ultima mano a questo scrittarello è in piena preparazione il Convegno di Verona: il punto fondante, e qualcuno se n’è accorto, di quel convegno, che meglio sarebbe rubricare come “Processo di Verona” in ricordo di quando i fascisti repubblicani regolarono i conti col fascismo storico, è in effetti un processo al piacere: per non farla lunga lì si intende conculcare il diritto della donna al piacere relegandola a procreatrice, madre e custode del nido domestico e così facendo, questo mi pare sia stato meno messo in evidenza, si processa anche il piacere maschile, strettamente legato a quello femminile. E una società che nega il piacere, qualsiasi tipo di piacere, ritenendo che sottragga energie e tempo al lavoro, è una società autoritaria quant’altre mai che pretende le persone, meglio se maschi, siano totalmente sottomessi alla legge della produzione di “beni” e del loro consumo.]

C’è un punto, l’unico in cui il protagonista mostra di avere anch’egli una psicologia, che chiarisce meglio ciò che sto dicendo. Ed è quando, mentre sta appressandosi a torturare e uccidere una ragazza, Jack, ripreso dal regista in primo piano, mostra tutto il suo livore contro le donne perché, dice, queste vengono sempre compatite, perché si parla sempre di loro e dei maltrattamenti che subiscono e non si concede mai nulla all’uomo. Questo breve monologo andrà analizzato, per così dire filologicamente, quando il dvd permetterà di farlo; ora, di primo acchito, si possono però avanzare due ipotesi esegetiche di cui la prima è data dal fatto che sarebbe sbagliato pensare che lì von Trier, che è autore globale della pellicola visto che è tale anche del soggetto e della sceneggiatura, esprima un proprio modo di sentire mentre, al contrario, e questa è la seconda ipotesi, quello è un sentimento che l’autore attribuisce al suo personaggio che agisce in base a questo impulso proprio del maschio nella società che, eleggendo anche la donna a soggetto dell’onnifago consumo, ha spodestato lo stesso del proprio scettro di unico artefice dell’andamento dell’economia privata e di quella generale. Il risvolto sessuale di questo sostrato economico è ben noto e produrrà, tra le altre cose, nell’epoca romantico-decadente il mitologema della femme fatale che è poi il modo in cui la donna reagisce alla propria reificazione mercantile distruggendo l’uomo che vorrebbe, inconsciamente fin che si vuole non è questo che conta, distruggerla a sua volta proprio perché detronizzato. Naturalmente il passaggio dall’inconscio al conscio, quando avviene, è devastante ed ecco che abbiamo Jack, il tipo Jack, il tipico -nel senso prima hegeliano e poi, via Engels, lukacsiano- Jack.

Anche in questo caso il discorso sarebbe molto lungo e il senso ne resterebbe comunque non del tutto risolto. Mi accontenterò allora di fare un breve accenno al Divino Marchese, antesignano, ma già in epoca borghese o preborghese, di posizioni che più tardi l’avanguardia farà proprie, lasciando non certo per caso la parola a chi sull’argomento ne sa tanto più di me e di tanti, Luis Buñuel:

Leggendo [Le centoventi giornate di Sodoma] mi sentivo profondamente stupito. All’università, a Madrid, in teoria non mi avevano nascosto nessuno dei grandi capolavori della letteratura universale. […] Come potevo quindi ignorare l’esistenza di questo libro straordinario, che esaminava la società sotto tutti i punti di vista, magistralmente, sistematicamente, e che per di più proponeva una tabula rasa culturale? Lo choc fu molto forte. L’università mi aveva mentito.

Siamo qui di fronte a una di quelle illuminazioni improvvisamente balenanti nell’universo buñueliano così evidenti in tante sequenze e microsequenze dei suoi film e non solo in quelle. Ma, per ciò che interessa al nostro mutilo discorso, il punto focale di queste righe è in quel notare che il romanzo sadiano propone una tabula rasa culturale e cioè intende svelare la falsità dei miti e dei riti di una società marcescente già fin alla propria origine.

E qui l’autore di Un chien andalou, ci pone di fronte a un’osservazione, concentrata in poche parole, che fotografa perfettamente quello che è il punto motore di tutta l’avanguardia, il sentimento da cui partono tutti quegli artisti che da Baudelaire (o, addirittura, da Poe; ma ci sono pure dei precursori precedenti anche a Sade) intendono contrapporsi alla cultura dominante che è la cultura della classe dominante e cioè della borghesia e pertanto fare, in prima istanza, tabula rasa di quella cultura e di quell’arte il che coincide con il fare, o almeno tentare di fare, tabula rasa del mercato dell’arte.

A proposito però dell’osservazione di poco sopra dove ho detto che il breve monologo “giustificazionista” di Jack è del personaggio e non dell’autore vorrei soffermarmi ancora un momento sul problema che pone questa questione. Oggi si tende molto a voler vedere l’artista nell’opera e si propende, così, verso un certo autobiografismo. Anche qui toccando appena il problema senza approfondirlo sarà il caso di notare due cose: nel caso specifico abbiamo tutti letto che Jack è von Trier che, a sua volta, è pazzo, sempre stralunato, imbottito di alcol, droghe e farmaci vari. Torna la solita leggenda basso romantica dell’artista maledetto che nulla, o ben poco, ha a che fare con Verlaine e la sua nota antologia di poeti maudit. Come poi un uomo di questo genere possa prima ideare, poi sceneggiare e infine dirigere un film di questa fatta, e gli altri da lui realizzati in precedenza, è cosa che lascio spiegare a chi dice queste cose. Il problema però si amplia nel momento in cui si passa a constatare come l’autobiografismo oggi imperi sovrano per cui la poetica artistica degli uffici marketing delle grandi case di produzione cinematografiche sono riusciti a imporre la loro visione del fatto artistico come nient’altro che la trasposizione delle esperienze vissute dagli autori.

Perché tutto ciò giovi all’industria culturale è piuttosto chiaro dal momento che questa è terrorizzata dal nuovo che sia autenticamente tale. E qui intendo dire non del nuovo come leggero rinnovamento del già dato, del ritornante sempre uguale, che è invece utilissimo all’industria e al commercio non solo dell’arte ma di qualsiasi altro tipo. Il nuovo vero e proprio tende, al contrario, a sconvolgere il mercato perché i clienti dello stesso non sono adusi né alle tematiche trattate né al linguaggio con cui vengono esposte. Mentre, nell’altro caso e cioè quello dell’industria culturale, il “nuovo” che non intacca la sostanza e che non inquieta i compratori, nel nostro caso chi compra i biglietti, serve a rafforzare il già dato. Ecco allora, per non fare che uno dei tanti possibili esempi: in questi tempi di tardo naturalismo l’industria cinematografica hollywoodiana ha inventato un nuovo modo per attirare l’attenzione sulle sue produzioni: alcuni attori o attrici ingrassano o dimagriscono a seconda dei personaggi che debbono interpretare; per ciò che ne so, ha iniziato De Niro ingrassando a dismisura per la seconda parte del film su Jack La Motta incentrato sulla vecchiaia del pugile e altri e altre hanno seguito questa strada. Lo spettatore, aduso al linguaggio naturalistico per cui l’arte deve imitare la vita “proprio così com’è”, attribuisce un grande valore artistico alle lasagne alla bolognese di cui De Niro si è imbottito per rispondere alle sue aspettative e, di conseguenza, a quelle del botteghino e cioè dei vari finanziatori del film. Ma c’è di più: così operando l’industria cinematografica pigia sul pedale dell’autobiografismo strettamente legando l’attore, il suo corpo, al personaggio che deve recitare e potenziando in questo modo l’identificazione attore-divo unendo due elementi assolutamente estranei l’uno all’altro poiché l’attore usa modi, genericamente parlando naturalmente, dell’arte, dell’arte attorica e il divo strumenti della commercializzazione della propria figura umana a scopi puramente propagandistici trasformando così se e il proprio corpo in un prodotto vero e proprio.

È ora però di chiudere questi appunti. E, allora, il lettore mi conceda lo spazio per rapidamente dire del finale della pellicola. Qui von Trier, di cui ho già messo in rilievo la tendenza a un certo didatticismo, questione non necessariamente negativa, intende, per quello che ho capito a una prima lettura, chiarire fino in fondo cosa si nasconde sotto il velame del suo lavoro, insomma il significato dell’allegoria. Finalmente Jack ha la sua casa che non è quella che cercava di costruire in riva a un lago, senza riuscirci, ma una casa fatta dei cadaveri surgelati di tutte le sue vittime: entra e questa casa ha un buco al centro: Jack precipita, i suoi piedi sono in una pozzetta d’acqua. Qui sembra essere sottolineato l’edipo che permea di sé tutto il mondo di Jack; ma anche questa possibile interpretazione pretende una analisi più profonda che quella che sia possibile anche soltanto tentare sulla base della sola memoria. Subito dopo Jack incontra Bruno Ganz, gli chiede chi sia ed egli risponde “Chiamami Virgilio” e, poiché nel frattempo egli si è coperta la testa con il cappuccio della vestaglia che indossa, si trasforma in un Dante, Dante personaggio sia ben chiaro e non certo Dante scrittore, dimidiato e svilito. Come Dante anche Jack cerca la via di salvezza ma, nell’inferno decisamente kitsch di von Trier (qualsiasi ricostruzione storica o fantastica, sembra voler dire il regista, non può che essere kitsch), questa via è interrotta e raggiungere la scala che condurrebbe all’uscita dall’inferno e cioè alla salvazione sembra ormai impossibile da seguire. Malgrado questo e, come ho già detto nonostante l’ammonimento di Virgilio, Jack tenta quella strada e cade nello sprofondo del tristo buco infernale.

Per il maschio medio del mondo occidentale, oggi, non c’è scampo possibile dall’inferno del presente: questo sembrerebbe essere il significato ultimo dell’allegoria del film di von Trier.

Di passata un’ultima notazione tutta ancora da articolare: il fatto che nel finale si manifesti in questo film la presenza di Dante non è certo casuale: von Trier intende qui alludere al suo volersi riallacciare alla grande avanguardia del primo novecento (il termine “avanguardia storica” quasi quelle che seguono non fossero altrettanto storiche è una stupidaggine) quella di cui sono protagonisti Pound, Eliot, Joyce eccetera, che vede in Dante un tesoro ideologico e stilistico da reimmettere nella critica all’arte e al mondo contemporaneo.

Quanto alle inserzioni ‘saggistiche’, mi pare abbiano una doppia valenza: la prima è quella ovvia di cercare di chiarire la propria poetica artistica e la seconda, forse ancora più importante dal punto di vista formale, quella di interrompere, spezzare la narrazione a evitare che lo spettatore si identifichi in un personaggio e nella storia: qui sì c’è veramente l’insegnamento di Brecht e non nei cartelli, che peraltro non ha inventato il drammaturgo di Augusta anche se li ha usati in modo sapiente nel suo teatro epico, che mi pare si colorino, al contrario, di una certa ironia.

Chiudo con una osservazione sul fatto che il film viene rubricato come una pellicola “horror”. Ora si capisce bene come l’industria distributiva abbia bisogno di apporre una qualifica al prodotto e i vari uffici marketing avranno deciso che un film di tal fatta potesse attirare almeno un po’ di spettatori sulla base di quell’etichetta. La cosa fa sorridere, da una parte, e, dall’altra, proprio per niente. Fa sorridere perché se si paragona questo lavoro, almeno nella versione mutila di quattro minuti che ho potuto vedere, a certe serie televisive manco a dire americane dove si vedono cadaveri squarciati e dove agli spettatori non è risparmiato nessun effetto autenticamente orrorifico, questo film, dicevo, è assai blandamente da ascrivere al genere horror. Certo, ogni prodotto ha bisogno di essere specificato per favorirne il consumo: se vado al mercato trovo, per esempio, mele e pere, ben separate le une dalle altre e con prezzi diversi e posso comprare l’una e l’altra, o un po’ dell’una e un po’ dell’altra, sapendo bene cosa compro. Ma se poi, tornando al film di cui sto parlando, si cerca di approfondire la questione ci si accorge che questo, al di là delle classificazioni puramente mercantili, è veramente un film orrorifico e orripilante non per le scene di ammazzamento che si vedono dove nessuna tortura è presente se non quella soltanto accennata della ragazza bionda cui Jack si appresta a tagliare i seni, scena che però non si vede dal momento che, almeno nella versione rivista e corretta, si sente soltanto l’urlo della donna in questione prima del buio, ma perché questo film scuote le coscienze degli spettatori sempre che questi, uomini e donne, abbiano ancora coscienza di avere una coscienza. Chiudo su questo argomento, e su tutto questo assolutamente provvisorio discorso, citando un’affermazione che Jordan Peele, regista di Get Out e, ora, di Us, fa in un’intervista che si legge proprio oggi, mentre sto terminando di stendere questi appunti, 23 marzo 2019, su “Alias” mettendo in corsivo le frasi che mi sembrano di maggior rilievo:

L’horror è il mio genere preferito perché trovo che la paura sia una delle emozioni più forti oltre che la maggiore causa di soprusi nel mondo, dato che ti porta ad ignorare e sopprimere le cose che non capisci, a trasferire la colpa.

Siamo programmati per evitare la paura a tutti i costi e specificamente la paura di noi stessi.

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scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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