All’università qualcosa si muove
di Gigi Livio e Ariela Stingi
Quattro professori universitari (Valeria Pinto, Davide Borrelli, Maria Chiara Pievatolo, Federico Bertoni) hanno redatto un documento di denuncia e programmatico, Disintossichiamoci — Sapere per il futuro- dove con estremo nitore affrontano il problema, divenuto ormai esiziale, della burocratizzazione dell’insegnamento universitario teso soltanto al profitto e non più, appunto, al “sapere”, alla conoscenza, al cercare di tramettere agli studenti lo spirito critico. Infatti, nel momento in cui proprio questo modo di vedere le cose per potere e sapere affrontare la realtà e non necessariamente soltanto subirla, ha cessato di costituire un senso comune diffuso molti docenti, nient’altro che mosche cocchiere, pensando di guidare una trasformazione mentre sono decisamente guidati, e costituendo un’ampia maggioranza, contribuiscono a instaurare un nuovo senso comune diffuso basato sull’accettazione, spesso entusiastica, di quelle novità o per ignoranza o, molto più spesso, perché spinti da interessi personali. Come è già successo ai tempi della Pantera (1989–1990) assai giustamente ricordati da Roberto Ciccarelli nell’articolo che proponiamo ai nostri lettori. Tutto inizia dall’autonomia, voluta dal ministro Ruberti, craxiano e allora rettore della Sapienza, che la stragrande maggioranza dei docenti accolse con grande entusiasmo per la possibilità che loro si prospettò di avere dei fondi per iniziative varie che molto spesso si rivelarono non solo scarse di valore, tranne quello economico naturalmente, ma contrarie agli interessi reali, e cioè proprio quello di poter recepire informazioni sostanziate di pensiero critico, degli studenti. In compenso immediatamente aumentarono le tasse per gli studenti stessi come gli appartenenti al movimento avevano previsto e contro cui si batterono.
L’articolo qui sotto riassume con grande chiarezza i problemi principali dell’insegnamento universitario oggi messi in luce dal “manifesto” dei quattro docenti che l’hanno concepito e diffuso (Roars.it) e che mostra il suo punto di forza, di grande e concreta forza, nel denunciare che
“Ricerca e insegnamento — è un fatto, eppure sembra un tabù esplicitarlo — da tempo non sono più liberi”.
(Ammesso che, lo scriviamo in forma parentetica come cosa forse non così importante come a noi invece sembra, lo siano mai stati, se pure in modi diversi, nel mondo dominato dai valori borghesi). Ed è proprio la breve frase che i compilatori dello scritto hanno posto tra due lineette, in forma parentetica dunque anche questa volta, che sembra incitare, nel momento in cui l’idiota irenismo postmoderno sta mostrando la corda sotto i colpi di maglio della durissima realtà, alla lotta per mostrare la reazionarietà, implicita o esplicita di caso in caso, della maggioranza dei docenti che invece il fatto che studio e didattica non siano, da tempo, più liberi mostrano di non saperlo o di non volerlo sapere o di accettarlo passivamente (non a caso “esplicitarlo sembra un tabù”) o per paura o per interessata acquiescenza ideologica.
Ci piace concludere con la citazione di un breve brano di un altro articolo di Ciccarelli che, uscito mentre scriviamo, oggi 21 febbraio, in cui, nel presentare con il solito acume critico, che rivela oltre tutto un notevole retroterra di studio, tre nuovi libri che esplorano questa volta la situazione della scuola, ci sembra utile a mettere in luce come nel mondo dominato dal capitalismo tutto si tenga, scuola e università in questo caso:
Inflazionata parola baule [l’autonomia], allude a una libertà coniugata con l’uguaglianza. Questi testi [i tre di cui dicevamo] dimostrano come il principio sia stato rovesciato nel suo opposto, portando alla perdita di senso critico, di linguaggio e indipendenza. L’autonomia è servitù: questo è il contenuto della rivoluzione conservatrice di cui siamo ostaggi.
«Contro l’università tossica, liberiamo i saperi e la ricerca»
Stritolata dalla mancanza di fondi, consumata dagli spietati meccanismi concorrenziali azionati dal sistema della valutazione, l’università italiana agonizza mentre la ricerca non è più libera. È un prodotto sul mercato accademico, ostaggio della logica «pubblica o muori». È il frutto di una «neolingua» orwelliana dove «miglioramento della qualità», «eccellenza», «competenza», «trasparenza» significano il contrario: verticalizzazione del potere; riduzione di didattica e ricerca a quantità misurabili e a performance produttive; concorrenza su risorse calanti e distribuite in modo da penalizzare e discriminare gli atenei del Sud a favore di un pugno di centri del Nord. La tanto decantata liberalizzazione, ammantata di oggettività dieci anni fa al tempo della cosiddetta «riforma» Gelmini, si è rovesciata in una burocratizzazione kafkiana.
A DARE VOCE alla critica affilata di un processo che ha portato a una situazione intollerabile è l’appello «Disintossichiamoci: sapere per il futuro» pubblicato ieri sul sito Roars.it. Promosso dai docenti Davide Borrelli, Federico Bertoni, Maria Chiara Pievatolo e Valeria Pinto, ha visto tra i primi firmatari tra i primi duecento, tra gli altri, anche Tomaso Montanari, Marco Belpoliti, Alessandro Dal Lago e Marco Revelli. In poche ore, ieri in serata, le adesioni si erano avvicinate a cinquecento tra i docenti universitari. Colpisce la forte presenza di discipline scientifiche e tecniche, a dimostrazione che la critica della valutazione non è appannaggio di un arroccamento nostalgico degli umanisti. E sono arrivate anche le prime adesioni di ricercatori italiani attivi all’estero.
L’APPELLO attesta l’esistenza di una larghissima consapevolezza tra i docenti, non solo universitari, della contraddizione di un’educazione e di una ricerca trasformate nell’impresa del «capitale umano». È un segno culturalmente importante che dimostra, anche in Italia, l’esistenza di una corrente di pensiero, fino ad oggi sotterranea, che non si rassegna alla parola d’ordine del capitalismo neoliberale: «Bisogna adattarsi», questa è l’unica realtà possibile. Esistono invece ancora spiriti indocili che non si rassegnano al governo di cui sono sia vittime, sia protagonisti. «La burocratizzazione della ricerca e la managerializzazione dell’istruzione superiore — si legge nel testo — rischiano di diventare la Chernobyl del nostro modello di organizzazione sociale». Per uscire dal regime «tossico» di una valutazione che distrugge la libertà di pensiero e la cooperazione necessaria alla creazione del nuovo i promotori intendono organizzare a Roma, nel mese di giugno, un controvertice rispetto alla conferenza che vedrà i ministri dell’università fare il punto sul «processo di Bologna», lì dove tutto è iniziato, nel 1999. Dieci anni prima il movimento studentesco della Pantera occupò gli atenei per tre mesi e denunciò l’inizio del processo. Fu quella un’anticipazione di massa del conflitto in cui tutta la società, non solo la scuola e l’università, è oggi sprofondata. Lo stesso obiettivo guidò il movimento dell’Onda tra il 2008 e il 2010 contro l’approvazione della «riforma» Gelmini. Questa è la genealogia delle lotte che trova oggi una nuova attualità in un testo espressione di un vasto dibattito critico che trova un’eco anche in Francia dove in queste settimane è in corso una mobilitazione contro una nuova riforma che precarizza la ricerca.
LA «VALUTAZIONE» è una procedura chiamata «valutazione della qualità della ricerca» (Vqr), gestita dall’agenzia Anvur, giunta alla sua terza edizione. Il suo scopo è assegnare voti agli atenei e ai dipartimenti universitari. Su questa base determina la ripartizione della cosiddetta «quota premiale» del fondo di finanziamento dell’università. Nel 2019, sono stati distribuiti 1,35 miliardi, in base a una classifica che ha selezionato 180 dipartimenti di «eccellenza», l’87% dei fondi sono andati al Centro-Nord. Questi voti sono elaborati da algoritmi controversi e non verificabili, all’interno di un sistema che si sta trasformando in un mercato. Lo denuncia un’inchiesta apparsa su Roars.it secondo la quale il Politecnico di Milano sarebbe intenzionato ad attribuire ai docenti che ricopriranno un ruolo di «esperto valutatore» nell’attuale «Vqr» la metà del costo di una borsa di dottorato per un triennio pari a 30 mila euro.
I FIRMATARI dell’appello non chiedono solo un rifinanziamento del sistema, ma un cambio di rotta radicale del suo governo: «Sono in molti ormai a ritenere che questo modello di gestione della conoscenza sia tossico e insostenibile a lungo termine per la democrazia e i saperi».
Roberto Ciccarelli , il Manifesto, 18.02.2020
***Per adesioni: sapereperilfuturo@gmail.com