Autorevolezza vs autoritarismo.

L'asino vola
17 min readOct 1, 2018

Lettera aperta a Ernesto Galli della Loggia

di Gigi Livio.

Che le parole siano importanti è una cosa che viene ripetuta spesso e altrettanto spesso è usata la locuzione “le parole sono pietre” che dobbiamo a Carlo Levi, dal titolo di un suo libro del 1955 ma che oggi è diventata cosa di tutti e, dunque, di nessuno. Le parole sono veramente pietre, ma pietre particolari: pesano, certo, e anche molto, ma, a differenza delle pietre, hanno una vita dentro e, pertanto, sono portatrici di storia. Il loro significato muta nel tempo e molto spesso termini, che intendono esprimere determinati concetti, accostate ad altre parole ovviamente, assumono significati diversi e qualche volta addirittura opposti.

Questa premessa perché le due parole che formano il titolo possono essere, come subito vedremo, facilmente equivocate e addirittura scambiate l’una per l’altra: le due parole, che intendo mettere in discussione in questi appunti, sono dunque “autoritarismo” e “autorevolezza”. Se non si è più in grado di distinguere tra autoritarismo e autorevolezza allora il problema è piuttosto serio e grave. Per chiarire cosa s’intenda per autoritarismo possiamo ricorrere con profitto a un lessico del tardo ottocento che così illustra il termine:

“È una voce coniata per indicare il rigore, la inflessibilità, la severità eccessiva, che si pone nell’amministrare la cosa pubblica [con il] fine di mantenere inalterato il principio d’autorità”.

Questa autorità si fonda su di un potere basato esclusivamente su questioni formali, e cioè sul fatto che una persona appartiene, in qualsiasi modo sia giunto ad appartenervi, ai gruppi dirigenti sia per censo e quindi necessariamente per potere economico, sia per regolare vittoria in determinati concorsi statali, sia ancora perché “democraticamente” eletta in più o meno libere elezioni. L’esercizio del potere, quando sia appunto declinato in senso autoritario, comporta di necessità che la persona che questo potere detiene intenda se stessa come qualcosa di non sottoposto a alcun controllo se non quello dettato dalla propria volontà e, di conseguenza, nell’esercitare la propria autorità, questa persona non potrà tollerare critica alcuna al suo operato e cercherà di reprimere ogni forma di dissenso in qualsiasi modo non escludendo l’uso della forza.

Veniamo ora a ciò che si intende invece per autorevolezza. Autorevolezza è termine che designa un’autorità acquistata grazie alla propria capacità di avere con gli altri, e al grado massimo con gli studenti, un rapporto di scambio improntato però soltanto a finalità etiche: da una parte, la persona in questione deve saper mostrare la propria capacità nel mestiere che pratica e, dall’altra, chi riceve questo insegnamento o anche semplicemente fruisce della capacità del primo (anche un falegname può essere più o meno autorevole) deve essere messo in grado di capire –senza alcuna imposizione- che questa persona è non soltanto “brava” ma che, anche grazie alla sua capacità di ascolto, è in grado di far fruire gli altri di quel suo valore. In una parola:

la persona autorevole non solo deve essere all’altezza del compito che svolge, ma deve anche riuscire a far capire agli altri perché ne è all’altezza.

Ernesto Galli Della Loggia nell’articolo che si intitola Cattedre più alte per i Prof e che ha come sopratitolo Lettera sulla scuola, uscito sul “Corriere della sera” il 5 giugno di quest’anno, intende parlare di scuola in generale; ma, essendo egli un professore di università, come io sono e sono stato per lungo tempo, parla di cose su cui mi sento in grado di esprimere il mio parere.

Ancora una brevissima premessa: all’università, per rimanere al campo specifico che conosciamo tanto io quanto Della Loggia, a differenza di quanto succede negli altri tipi di scuola, l’autorità dei professori non è riconosciuta dagli studenti nello stesso modo. Infatti e per esempio, nelle facoltà umanistiche in cui abbiamo insegnato sia io che Della Loggia, lo studente non è costretto a seguire le lezioni. Questo fa sì che i giovani discenti si sentano liberi di andare o non andare a lezione quali che siano i mezzi o mezzucci con cui certi insegnanti cercano di evitare la diaspora degli studenti, come per esempio lo stilare programmi diversi per i frequentanti e per i non frequentanti, ovviamente molto più pesanti e gravosi quelli per questi ultimi. Ma lo studente malgrado tutto si sente comunque libero di non frequentare le lezioni, potendo sostenere ugualmente l’esame e superarlo, se è bravo, studioso, eccetera e procedere nel suo curriculum studiorum. A questo punto è molto chiaro che almeno nei casi cui ho accennato, e cioè nelle facoltà umanistiche, è fondamentale che il professore sappia nettamente distinguere tra autoritarismo e autorevolezza e che sia ben cosciente che, soltanto se si presenterà agli studenti come persona autorevole e cioè, in una parola, persona che sia in grado di insegnare loro per i motivi che ho detto prima otterrà l’attenzione e la partecipazione alla lezioni dei propri discenti.

Ecco, per contro, quali rimedi Della Loggia propone debbano essere messi in opera per rendere migliore la scuola italiana di cui tutti constatiamo la decadenza. La prima cosa che chiede è la

“[r]eintroduzione in ogni aula scolastica della predella in modo che la cattedra dove siede l’insegnante sia di poche decine di centimetri sopra il livello al quale siedono gli alunni”.

Già fin da questo esordio spira fortissimo il concetto di autorità, mentre viene del tutto eluso quello, come ho già detto per me ben più importante, anzi fondamentale e dirimente, dell’autorevolezza. Ma cosa importa se le cattedre sono più o meno alte, più o meno basse, allo stesso livello degli studenti o no: non ha alcuna importanza quando il professore si rivela come autorevole perché, in questo caso, gli studenti lo staranno a sentire, gli faranno domande, prenderanno appunti e faranno, insomma, tutte quelle cose che dovrebbero essere normali e che normali forse non sono più tanto. Galli della Loggia spiega perché fa questa richiesta:

“Ciò avrebbe il significato di indicare con la limpida chiarezza del simbolo che il rapporto pedagogico […] non può essere costruito che su una differenza strutturale e non può implicare alcuna forma di eguaglianza tra docente e allievo”.

Ora che non ci sia eguaglianza tra docente e allievo è detto dai termini stessi che ne indicano le funzioni: docente è colui che insegna, discente è colui che sta a sentire ciò che dice il docente per imparare: l’eguaglianza non c’entra nulla. Tranne che non si intenda eguaglianza in un senso corrivo e cioè quello che si condensa nelle formule tipo “siamo tutti uguali”, “siamo tutti figli di Dio”, “vogliamoci bene”, eccetera: pura ideologia, cioè falsa coscienza e dunque parole vuote che nascondono la realtà dei fatti: il mondo, quello attuale ovviamente, è fatto di oppressori e di oppressi. E perché questo rapporto oppressivo non si instauri anche tra professori e allievi è necessario che i primi rinuncino decisamente all’autoritarismo.

La conclusione di questo primo punto, però, è ancora più inquietante:

“La sede propria della democrazia non sono le aule scolastiche”;

e qui, lo stile e il tono perentori sono l’uomo e cioè, detto in termini più chiari, lo rivelano per ciò che è, come giustamente recita l’affermazione dell’antico, ma sempreverde, motto di Buffon. Da collega, certamente meno illustre di Galli Della Loggia, posso affermare contro questa sua dichiarazione così perentoria e decisa che democrazia, comunque la si intenda, per prima cosa non ha nulla a che fare con l’uguaglianza (tranne che questa non sia intesa come uguaglianza di diritti e di doveri, eccetera) e, per seconda, che le aule scolastiche devono essere sede di democrazia nel senso che ho specificato prima e cioè in quello di saper ascoltare gli allievi per rivolgersi loro cercando di rispondere alle loro necessità; e la prima di queste, non l’unica, sarà quella di avere un insegnamento il più efficace e coinvolgente possibile.

Veniamo adesso al secondo punto dell’articolo:

“Sempre a questo principio [che la sede della democrazia non sono le aule scolastiche] deve ispirarsi la reintroduzione dell’obbligo per ogni classe di ogni ordine e grado, di alzarsi in piedi in segno di rispetto (e di buona educazione) all’ingresso nell’aula del docente.”

Vorrei far notare, più a chi mi legge che all’articolista, che questo ulteriore aggravio di autoritarismo, dove la forma è, come sempre, sostanza, serve semmai a instillare nei giovani un ulteriore motivo di antipatia per l’istituzione scolastica e non certo a risolvere i problemi della stessa.

Nel terzo punto il tono da perentorio diventa addirittura normativo: “Divieto deciso” da opporre alle occupazioni, alle autogestioni, eccetera. Su queste cose anch’io, e non sono il solo –non per ciò che riguarda le occupazioni che a volte possono essere sacrosante-, ho forti dubbi: l’autogestione infatti non ha ormai purtroppo il significato che dovrebbe avere e che probabilmente non è mai, tranne casi eccezionali, riuscita ad avere. Il motivo del divieto è così spiegato da Della Loggia:

“Per la semplicissima ragione che esse non servono a nulla se non, assai banalmente, a non studiare. Bisogna cominciare a dire le cose come stanno”.

Vorrei far notare al professor Della Loggia, per cominciare a dire veramente le cose come stanno, che siamo stati in tanti a fare questo tipo di osservazioni e, ovviamente, non siamo stati ascoltati; ovviamente perché questa faccenda delle autogestioni e di tante altre iniziative, che alla fine risultano soltanto perdite di tempo per cui i professori delle medie inferiori e superiori non riescono mai a concludere il programma, sono in qualche modo entrate nel “politicamente corretto”. A questo proposito, però, non si può non sottolineare il fatto che il politicamente corretto e, in genere, tutto ciò che è “corretto” per questa società è basato sul common sense, e che il giornale su cui scrive l’esimio collega è certamente uno degli alfieri più prestigiosi di questo “buon senso” e, dunque, del conformismo politico, di quello didattico, eccetera. Io però, non condividendo le impostazioni donmilanesche e in genere sessantottine che sono alla base di queste posizioni solo apparentemente anticonformistiche, non riesco a trovare iniziative del genere utili ad alcunché. Ma qui questo ragionamento, o un altro di diverso tenore o anche solamente qualcosa di simile a un’argomentazione, non riesco proprio a trovarlo.

Il quarto punto riguarda la

“[c]ancellazione di ogni misura legislativa o regolamentare che preveda un qualsiasi ruolo delle famiglie o delle loro rappresentanze nell’istituzione scolastica”.

Anche su questo problema bisogna articolare il discorso. Non posso parlare direttamente dei cosiddetti “decreti delegati” perché questi son entrati in vigore l’anno stesso in cui sono passato all’università. So però da amici, che hanno continuato a insegnare nelle medie inferiori o superiori, che queste iniziative ministeriali, grazie alle quali era previsto l’ingresso dei genitori negli organi di gestione della scuola con poteri decisionali, non hanno dato buoni frutti. Di per sé la questione potrebbe essere interessante se correttamente impostata e applicata, perché le famiglie ricoprono un ruolo fondamentale nell’educazione di quelli che noi poi ci ritroviamo come allievi e quindi sarebbe del tutto giusto avere con questi educatori primi, almeno in senso cronologico, un dialogo proficuo così come potrebbe essere utile lavorare insieme per migliorare sempre di più il rapporto didattico. Ma questo non avviene, non avviene assolutamente, perché la società autoritaria in cui viviamo in realtà spinge all’individualismo esasperato e cioè a badare solamente al proprio interesse e i genitori partecipano a questi incontri soltanto per porre ciascuno i propri problemi personali ovvero quelli dei loro figli: questo solipsismo esasperato non può in alcun modo, soprattutto quando si pensi agli organi di gestione, migliorare la scuola stessa. Bisogna anche tenere conto che i professori sono naturalmente esperti di scuola e i genitori no: le loro proposte gestionali spesso tendono a nuocere all’istituzione anziché metterla in grado di comprendere sempre più e sempre meglio i problemi dei giovani. Quindi un principio che di per sé è sembrato allora, e potrebbe parere anche oggi, giusto e sano diventa sbagliato e insano. Ma per tutto questo bisognerebbe andare al fondo del problema, e qui si aprirebbe un altro discorso, quello sul perché noi viviamo, come scrivevo prima, tutti involtolati ciascuno nella propria monade senza accorgerci delle altre che ci girano intorno e a cosa dobbiamo questo solipsismo disperato che esclude ogni forma di socialità. Ma si tratta di un tipo di ragionamento che non interessa affatto al nostro articolista la cui argomentazione è decisamente ridicola: egli scrive infatti:

“non ci sono rappresentanti dei pazienti nelle strutture ospedaliere”

e continua elencando con l’assenza di automobilisti negli uffici della motorizzazione o dei contribuenti nelle agenzie delle entrate. Questa enumerazione, ammettendo che risponda alla realtà delle cose, non spiega assolutamente nulla e mette soltanto in luce un netto rifiuto, da parte dell’articolista, a voler discutere i propri metodi didattici con chiarezza.

Mi soffermo velocemente sul punto quinto solo per far notare che viene qui usato un neologismo pesante e brutto “riunionificio”, che, benché abbia una sua spiegazione etimologica molto chiara, sarebbe meglio venisse evitato da un educatore, che deve educare, appunto, anche alla lingua e al linguaggio, soprattutto qualora agisca all’interno di una facoltà umanistica. Certo il termine potrebbe essere qui usato in senso ironico proprio per mettere in risalto l’abbondare oggi di neologismi che abbruttiscono e volgarizzano la nostra povera lingua già sufficientemente rovinata dall’anglofilia e dalla conseguente anglofonia (mi si dice di una presentatrice televisiva che avrebbe pronunciato iter anglizzandolo in aiter e di altre amenità del genere che non sono affatto amene). Prendiamo però per buona l’ipotesi ironica anche se ci sarebbe piaciuto poterla desumere con maggior sicurezza dal tono dell’articolo tutto.

Sul punto sei c’è qualcosa da dire che a me sembra ancora più rilevante dal punto di vista ideologico. La proposta di Della Loggia è di affidare la

“pulizia interna e del decoro esterno degli edifici scolastici agli studenti della scuola stessa”.

Subito dopo compare anche una locuzione vietante e autoritaria (e, se anche solo accennando vogliamo ricorrere per un momento alla psicologia del profondo, nettamente punitiva nei confronti dei giovani, ritenuti gli unici colpevoli del fatto “criminale”): “non si imbrattano i muri!” Implicito è il richiamo, anche qui, al semplice buon senso o senso comune (noto di passata che nel linguaggio e nella ideologia correnti le due locuzioni non si distinguono più l’una dall’altra, con buona pace di Manzoni). Ma vediamo ora, o cerchiamo di vedere, cosa si nasconda invece sotto questa affermazione perentoria dettata dal common sense. Per meglio chiarire ciò che intendo si può ricorrere alla didattica familiare elementare che regola il rapporto educativo con i bambini: quando un bambino ci chiede “Papà, perché il cavallo è diverso dall’asino?” se noi rispondiamo “Perché è così”, la nostra risposta è non solo sbagliata, ma anche antieducativa perché se il bambino riceve costantemente questo tipo di spiegazione non capirà mai che a qualsiasi domanda, anche a quelle assurde o strane, c’è sempre una risposta che mette in causa la nostra capacità di approfondimento dei problemi. Altro che buon senso:

un’imposizione, quale che sia, deve sempre essere seguita, o preceduta naturalmente, dalla spiegazione del motivo, della ragione, per cui la si avanza altrimenti rimane pura parola vuota, priva di senso buono o cattivo o altro che sia.

Ma il punto d’arrivo della proposta sembrerebbe essere quello che maggiormente interessa a Della Loggia: questo far pulire la scuola agli studenti servirebbe a “instillare negli studenti stessi il sentimento di appartenenza alla propria scuola”. E qui casca il solito, vecchio, asino perché sotto questa affermazione si nasconde in filigrana un’impostazione nazionalistica e proprietaria, due termini, questi ultimi, che non sono sinonimi grammaticalmente, ma lo sono, eccome, politicamente. Anche qui il discorso sarebbe lunghissimo, ma si può cercare di sintetizzarlo in poche parole. Il nazionalismo, che è alla base dell’imperialismo e cioè dell’oppressione da parte di una nazione su altri popoli, come sta avvenendo oggi in Italia, a imitazione, guarda caso, di ciò che sta facendo Trump (anche se i suoi predecessori, magari in modo meno sgarbato, si sono comportati nello stesso modo) negli Stati Uniti e in mezzo mondo, nasce proprio dal piccolo. Si incomincia a idolatrare la propria casa, poi la propria città, paese o paesino in cui si è nati vedendoli e credendoli il centro del mondo. Da questo provincialismo, terribile tabe che impedisce la realizzazione della vera libertà, il passaggio alla supervalutazione della nazione in cui del tutto casualmente si è nati, e si vive, il passo è ineluttabile. E qui mi fermo rendendomi conto che questa estremissima sintesi può ingenerare equivoci.

Il settimo punto riguarda il

“divieto assoluto agli studenti (pena il sequestro) di portare non solo in classe ma pure all’interno della scuola lo smartphone”.

Anche in questo caso il problema appare complesso. Dal punto di vista del solito buon senso è chiaro che si potrebbe, almeno in linea di massima, essere d’accordo con Galli Della Loggia. Ma se ci soffermiamo un momento a pensare non possiamo non accorgerci che in questi discorsi, che potremmo anche definire paternalistici e comunque pronunciati nel grande ambito, oggi certamente dominante, del filisteismo, c’è sotto sempre qualcosa che si può definire rimosso, il rimosso della storia. Certamente i telefonini in aula disturbano. Ma il problema è un altro: perché gli allievi sono continuamente attirati dai telefonini? La colpa è degli allievi stessi? Forse la questione merita un rapido approfondimento. Con una nota a margine, però, che chiarisca che qualsiasi professore autorevole ottiene con estrema facilità lo spegnimento degli smartphone durante la lezione; come si vede, anche in questo caso il problema è sempre legato all’autorevolezza del docente. Riprendiamo il filo del discorso: tutti, ma proprio tutti sanno che il telefonino è un prodotto tipico della società capitalistica avanzata: se si è d’accordo con questa bisogna essere anche d’accordo con un uso smodato del telefonino, una delle mille forme del consumo ovviamente. In secondo luogo la ‘passione’ per il telefonino è indotta molto chiaramente da chi ritiene che attraverso l’uso di questi sistemi di comunicazione di massa si possano diffondere messaggi politici più o meno occulti. I telefonini, come peraltro internet e la televisione, tendono all’inganno costante cioè all’ideologia nel senso marx-engelsiano del termine; alla falsa coscienza di chi sa di diffondere messaggi che distorcono totalmente la verità ma continua a diffonderli, anzi studia proprio come meglio diffonderli, per ottenere determinati scopi e cioè, come dicevo prima, il consenso alla propria linea politica.

A questo proposito devio un momento dal filo del discorso per notare come con facilità si possano avere conferme mentre sto scrivendo a ciò che vengo appuntando. Infatti il 26 agosto 2018 compare sull’“Espresso” un articolo di Emiliano Fittipaldi che si intitola Il ministero della propaganda in cui il giornalista porta in luce l’azione di un “ministero” occulto, ma estremamente importante e determinante l’obnubilamento delle coscienze, e cioè quello della propaganda della Lega e del Movimento 5 Stelle strettamente e costantemente sintonizzati fra loro. Trovo in questo articolo una dichiarazione di un appartenente a questo “ministero”, o, fuori di metafora, organizzazione, che suona così:

“al tempo della post-verità e dei fatti alternativi (copyright Donald Trump, ndr) il principio di realtà è un paradigma sopravvalutato. La realtà è una «percezione» un racconto «benfatto». Oggi noi e quelli della Casaleggio siamo quelli che costruiscono le realtà più credibili”.

Questo tipo di dichiarazione ci fa capire perché la “cultura” oggi sia tutta impegnata a cercare di spingere la “gente” e cioè le persone, giovani non solo compresi ma sopra tutti, a usufruire il più possibile dei mezzi elettronici, di internet e di tutto il resto mitizzandoli nei modi che sappiamo (la “democrazia diretta” docet). Il motivo, a questo punto è scontato dirlo ma tanto vale sottolinearlo, è appunto quello di trasmettere una determinata ideologia, sempre nel senso marxiano, cioè impregnare le menti dei fruitori di falsa coscienza, talmente falsa da far credere loro che la realtà, oggi, sia soltanto quella virtuale che i soliti padroni del vapore (si dicono diversi ma sono più soliti dei soliti) vogliono che sia per loro la realtà. Ma questo stato di cose, questo totale obnubilamento della cultura, quella vera e senza virgolette, è stato preparato; e dunque: non siamo proprio noi settanta-ottantenni che abbiamo elaborato -e i pochi che non erano d’accordo hanno comunque permesso che questa metamorfosi del senso divenisse concreta- un mondo tale per cui si è arrivati al punto di pensare che l’unica realtà possibile è la così detta realtà virtuale? Infatti la dichiarazione che abbiamo letto non fa nient’altro che parafrasare posizioni tipiche del post-moderno. A questo punto prendersela con i giovani diventa addirittura ridicolo. E per non farla lunga, voglio soltanto ricordare che il post moderno in Italia ha avuto un pontifex maximus che è stato Gianni Vattimo il quale, come me, è nato nel 1936. E mi pare che tanto, e cioè dati reali e non virtuali, basti.

Al punto ottavo troviamo, anziché un divieto, un “obbligo”. Ecco:

“Obbligo per tutti gli istituti scolastici di organizzare e tenere aperta ogni giorno per l’intero pomeriggio una biblioteca e cineteca con regolari cicli di proiezione utilizzando se necessario anche studenti di buona volontà”.

Lasciamo stare l’uso del verbo “utilizzare” applicato a studenti come fossero cose (il contadino utilizza l’aratro, Della Loggia e io il computer, eccetera) e passiamo a una rapida analisi del dettato dellaloggiano. Per ciò che riguarda la biblioteca va benissimo perché il professore durante la lezione può avere accennato a qualche libro, articolo, documento scritto, o quello che volete, che gli studenti possono, e in certi casi debbono, andare a leggere in biblioteca al pomeriggio. Sulla cineteca mi pare che le cose siano più complesse. Infatti, proiettare film, o altro, senza nessun commento da parte dei docenti non significa nulla o quasi nulla, perché il momento della fruizione è un momento fondamentale della comprensione dell’opera tanto più se questa viene proposta all’attenzione di allievi e dunque a scopi didattici. Se ciò è vero, come è vero, diventa necessaria la presenza di un professore, o eventualmente, ma solo come extrema ratio, di un esperto, altrimenti anche questo è soltanto tempo perso. E i professori (o gli esperti) chi li paga? Ecco la soluzione di Della Loggia:

“Ai fondi necessari si può provvedere almeno parzialmente dimezzando l’assegnazione di 500 euro agli insegnanti che utilizzano tale somma non per acquistare libri”.

Questa proposta parla da sola e non richiede alcun commento.

Ma non basta perché, a chiusura di questo ottavo punto, sempre imperativamente, l’illustre collega scrive:

“Il motto della scuola diventi: «Il buon cinema e la lettura della pagina scritta innanzi tutto! »”

Sì, va bene (o va male, è la stessa cosa), ma, quando io o lui o chiunque altro diciamo “buon cinema” cosa vogliamo dire? Chi spiega agli studenti cos’è il “buon cinema” e perché è “buono”? La “pagina scritta”, soltanto perché è scritta e, s’intende, stampata, non è certo di per sé garanzia di qualità; questa affermazione si coniuga certo strettamente bene con quel “buon cinema” così generico. Ci sono pagine scritte che fanno orripilare, che sono profondamente diseducative e che vengono esaltate, soltanto perché sono scritte e stampate, da critici e docenti che hanno un’idea assai approssimativa di ciò che sia letteratura e, più in generale, cultura. (Tornerò forse su questo argomento perché “la Repubblica” del 16 luglio pubblica un articolo di Massimo Recalcati che consuona, non stranamente certo, con la posizione di Della Loggia sulla questione).

Il nazionalismo si fa strada nuovamente al nono punto. Per le gite scolastiche il professor Della Loggia vorrebbe venissero scelte solo località italiane; e scrive:

“Che senso ha per un giovane italiano conoscere Berlino o Barcellona e non aver mai messo piede a Lucca o a Matera?”

Da un punto di vista generico quest’altra affermazione, ancora una volta dettata dal solito common sense, potrebbe non sembrare così campata in aria. Ma se ci sforzassimo di leggere in filigrana queste righe per cercare di capire cosa veramente si cela sotto parole, apparentemente, assennate ci si accorgerebbe che si tratta del solito nazionalismo che si basa su un preciso sostrato economico: in questo caso lo stare “a casa propria” (“L’Europa comincia a casa propria”) favorisce certamente l’industria, l’artigianato e il commercio italiani nei confronti di quelli stranieri. Infatti è noto, e anche ovvio, che quando lo studente va in gita dovrà pure mangiare, bere, dormire, dovrà perciò consumare, ed ecco dunque che il nostro studente-consumatore (noto di passata che qui, nuovamente anche se il concetto è elaborato da un punto di vista più alto, quello filosofico, i ragazzi vengono reificati e cioè diventano cose) consumerà, appunto, prodotti italiani e non stranieri.

Siamo, infine, al decimo punto, dove troviamo un’altra espressione imperativa:

“Istituti e «plessi scolastici», devono essere intitolati al nome di una personalità illustre e devono essere designati in tutte le circostanze e in tutti i documenti con tale nome, non già […] con un semplice numero o l’indicazione di una via.”

Ma qui vorrei sapere cosa intenda Galli Della Loggia per personalità “illustre”, perché le personalità illustri per lui, vista l’ideologia che chiaramente traspare da questo suo articolo e da altri suoi scritti, certamente non coincidono con quelle che io e tanti altri siamo soliti ritenere per illustri personalità. Mi pare che il fatto di non tenere conto in alcun modo della relatività dei punti di vista denunci ulteriormente, se ancora ce ne fosse bisogno, l’autoritarismo che spira da tutto questo articolo, stile compreso e magari innanzitutto.

Terminati i dieci punti –dieci come i comandamenti: mi sembra il caso di sottolinearlo- Galli Della Loggia si rivolge al ministro e, fatto notare che questo nuovo governo si autodefinisce come il governo del cambiamento, conclude:

“E allora coraggio, cambi! Cambi subito almeno qualche piccola cosa: che poi, dia retta, piccola non sarebbe per nulla”.

E infatti è tutt’altro che piccolo il cambiamento che propone l’articolista poiché si tratta, al contrario, e come spero questo mio abbozzo di ragionamento sia riuscito a (o almeno abbia tentato di) mettere in luce, di una proposta assai importante che è poi quella di elevare il senso comune a ideologia positiva utile a risolvere i problemi con una sempre più vigorosa affermazione dell’autorità degli insegnanti a totale scapito dell’autorevolezza.

Aggiungerei in conclusione che chi la pensa così è fra i primi responsabili -non l’unico certo, perché, al contrario, dove li metteremmo tutti i vari ministri della Pubblica istruzione e dell’Università che dal 1990 sembrano fare a gara a chi sa distruggere meglio e di più l’istituzione scolastica?- della degradazione della scuola e dell’università che oggi siamo costretti, impotenti se non a parole, a dover constatare.

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Written by L'asino vola

scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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