Foto tratta dal film Il Seme Della Violenza, di Richard Brooks, 1955.

Bullismo, consumismo giovanile e degrado della scuola

L'asino vola
7 min readApr 30, 2018

di Guido Baldi

1. Violenza, scomparsa dell’autorità e controllo sociale

L’episodio delle violenze al professore nella scuola di Lucca mi ha fatto venire in mente un vecchio film, Il seme della violenza (Blackboard jungle, di Richard Brooks, 1955, tratto da un romanzo di Ed Mc Bain): un giovane professore liberal e idealista, impersonato da Glenn Ford, capita in una scuola superiore della periferia di New York, frequentata da ragazzi di ceti emarginati, in prevalenza immigrati e neri, e si scontra con atti di teppismo nei suoi confronti, viene costantemente sbeffeggiato sino a subire un violento pestaggio. Poi naturalmente, in nome della tipica ideologia statunitense, di cui Hollywood è fedele portavoce, il bene trionfa, il “cattivo”, lo studente che ha fomentato il teppismo della classe, viene isolato ed espulso dalla comunità scolastica, e gli altri diventano tutti agnellini. Un certo alone romantico di ribellione e di anticonformismo era creato intorno ai giovani dalla colonna sonora, uno dei primi grandi successi del neonato rock’n roll, Rock Around the Clock, cantato da Bill Haley and The Comets.

Quando vidi il film nel 1956, quattordicenne studente di quarta ginnasio, rimasi sbalordito: nella scuola superiore italiana, ancora sostanzialmente riservata a pochi, e in particolare nel liceo classico, scuola di élite fondata su una selezione feroce, dall’impostazione rigorosamente autoritaria, fenomeni del genere erano impensabili, inauditi. Ora si verificano sempre più di frequente anche da noi. Negli USA certi processi sociali, determinati dallo sviluppo capitalistico, erano in stadi più avanzati, e poi anno dopo anno si sono estesi anche ai paesi europei.

I fenomeni di violenza contro gli insegnanti, psicologica e fisica, da parte di giovani all’interno dell’istituzione scolastica sono il segnale che il principio di autorità si è indebolito. Tradizionalmente, era appunto la scuola, con il supporto della famiglia e delle Chiese, a imporlo; ma il capitalismo avanzato, a differenza del paleocapitalismo, non ha più bisogno dell’azione del principio di autorità, come strumento di controllo sociale: ormai possiede mezzi di controllo ben più sofisticati ed efficaci (il discorso non vale per l’esercito, naturalmente: negli anni Sessanta e Settanta gli USA erano impegnati nella guerra imperialistica in Vietnam, e continueranno a essere impegnati in guerre varie sino ai giorni nostri). Il fenomeno lo mettevano ben in evidenza già dagli anni Cinquanta e Sessanta psicologi sociali come Alexander Mitscherlich, Verso una società senza padre, 1963, e l’Istituto per Ricerca sociale di Francoforte. Quindi si è potuta allentare la morsa del controllo autoritario tradizionale, affidato a scuola, Chiesa e famiglia. Ne consegue che si è permesso che venisse alla superficie, senza più barriere di contenimento, tutta la carica di violenza che è l’essenza stessa del sistema capitalistico, fondato sul conflitto antagonistico (quella violenza che si manifesta anche nei film d’azione e nei videogiochi, che ai giovani piacciono tanto e che finiscono per imporre modelli di comportamento, riprodotti meccanicamente). Tanto gli atti di teppismo, per quanto suscitino l’indignazione dei benpensanti conservatori, non mettono mai realmente a repentaglio l’ordine, nelle sue strutture di fondo.

I giovani bulli, al di là delle apparenze, sono perfettamente integrati: anche se commettono bravate e violenze, non smettono mai di fare il loro dovere di bravi cittadini, cioè di consumare. È questo che conta.

Il resto si può perdonare, sanzionandolo con sospensioni, o bocciature, o punizioni varie che tendano alla rieducazione.

Anche i bulli di Lucca sicuramente non fanno eccezione. Innanzitutto hanno gli smartphone da 800 euro, con cui filmano le loro imprese mettendole poi in rete, e grazie a cui possono consumare i prodotti dei social media, Facebook, Twitter, Youtube, WhattsApp e via dicendo. Questi nuovi media, come è noto, guadagnano con la pubblicità: quindi i bulli più sono connessi e più contribuiscono al funzionamento del sistema, proprio nelle sue strutture economiche; e poi concupiscono motorini, tablet, videogiochi, scarpe, felpe, magliette delle marche “giuste”. Tutto secondo le regole previste dal sistema consumistico, che ha negli adolescenti un target fondamentale, tutto a posto. È il sistema in sé che è autoritario, al di là della sua superficiale permissività, perché ottunde l’originalità dell’individuo, impone scelte obbligate, coartando ogni libertà di scelta personale, ogni orientamento che nasca da un’autenticità originaria. È una forma più subdola, dissimulata di totalitarismo, che si maschera dietro l’apparenza della “libertà” garantita dal liberalismo e dal liberismo economico. Ci ricordiamo tutti delle analisi di Pasolini, che parlava di «nuovo fascismo», a proposito della società consumistica.

Dinanzi all’episodio di Lucca da più parti si sono sottolineate anche le colpe dell’insegnante, accusato di essere un inetto, non all’altezza dei suoi compiti, privo di autorevolezza, incapace di imporre la disciplina. Ora pronunciare condanne senza conoscere a fondo la persona in questione e la situazione della classe è scorretto. Ma quelle accuse offrono l’occasione per un discorso più generale. Facciamo l’ipotesi che una classe si trovi di fronte a un insegnante che non funziona, per incompetenza o per inettitudine didattica, o per eccessi di autoritarismo dispotico, o per tutti questi motivi insieme: in tal caso gli allievi non solo hanno la facoltà, ma hanno il dovere di contestarlo, per difendere il loro diritto a ricevere dalla scuola un servizio soddisfacente. Ma l’importante è il modo: non certo con gesti provocatori, violenti, sopraffattori e umilianti del tipo di quelli compiuti dagli studenti di Lucca, che oltre a essere inaccettabili sono anche sterili e inefficaci, anzi controproducenti perché mettono chi li compie dalla parte del torto anche quando ha ragione. La contestazione deve avvenire mediante una corretta dialettica interpersonale, attraverso critiche puntuali e specifiche, argomentate con rigore, che inchiodino il cattivo professore alle sue responsabilità. Questo all’interno del lavoro collettivo di classe, ma poi anche ricorrendo a mezzi istituzionali, i consigli di classe, l’intervento del preside ed eventualmente di un ispettore.

2. Il degrado della scuola

Intanto gli atti di bullismo si aggiungono ai tanti motivi per cui la scuola pubblica si degrada, perde sempre più prestigio sociale e capacità di incidere nella formazione non solo culturale ma civile del cittadino. E d’altronde i giovani, anche quelli che bulli non sono, non riescono più ad avere rispetto o stima dell’istituzione perché sanno, o sentono oscuramente, che tanto in larga percentuale, quando ne usciranno, resteranno disoccupati. E i professori, proletarizzati da stipendi miseri, perdono anch’essi sempre più prestigio sociale e autorevolezza, e di conseguenza sentono sempre meno anche il gusto di svolgere al meglio il loro compito, che dovrebbe avere un’imprescindibile funzione nella società. Ma se la scuola si degrada, produce individui sempre più ignoranti e sprovveduti di senso critico, che di quanto avviene sulla scena politica ed economica non hanno gli strumenti per capire alcunché: cioè invece che cittadini consapevoli sono ridotti a essere sudditi sempre più facilmente manipolabili.

E difatti ciò si vede dall’esito delle ultime elezioni. Anche chi ha redditi da fame ha votato in massa per chi prometteva la flat tax: che invece, come è evidente, avvantaggia solo un’ élite privilegiata dai redditi molto alti. Basta fare due conti di aritmetica elementare: con le attuali aliquote progressive chi guadagna ad esempio un milione l’anno, oltre i 150.000 euro, cioè su 850.000 euro, paga (se paga) il 43%; con un’aliquota unica, poniamo al 20%, è facile calcolare quanto ci guadagnerebbe. Se poi si aggiungono gli scaglioni inferiori al 39% e al 34% il regalo appare ancora più consistente. Mentre chi già aveva redditi bassi e aliquote basse non guadagnerebbe niente o quasi: ma siccome la flat tax creerebbe buchi spaventosi nei conti pubblici (60 o 70 miliardi, quanto tre leggi finanziarie), a subirne le conseguenze sarebbero proprio loro, che verrebbero torchiati per ripianare il disavanzo, o patirebbero i terribili effetti di una bancarotta dello Stato. Come si sa, i soldi si prendono ai poveri, perché hanno poco, ma sono tanti. E comunque, se per compensare i buchi, si eliminassero le detrazioni, come si è preventivato, a essere colpiti sarebbero sempre coloro che hanno redditi bassi, non certo i ricchi. Quindi chi ha redditi bassi dalla flat tax non ricava nessun vantaggio e tutti gli svantaggi: che senso allora ha votare per chi la propone? E la teoria di Laffer, secondo cui la diminuzione del carico fiscale aumenta gli introiti dello Stato perché stimola la crescita economica e allarga la base imponibile, è sempre stata smentita dai fatti, sin dai tempi di Reagan, quando il taglio delle tasse (ai ricchi, è ovvio) incrementò enormemente il debito pubblico degli USA. Quindi perché la destra in campagna elettorale ha ripetuto questa balla? Perché la “gente” ci crede, non sa, non capisce, non ricorda. Quelli appena fatti sulla flat tax sono ragionamenti elementari, a cui potrebbe arrivare un bambino. Ma milioni di elettori, contro i loro stessi interessi, non ci arrivano, perché sono privati degli strumenti per capire (quanti sapranno anche solo che cosa vuol dire flat tax?): e gli strumenti è la scuola in prima istanza che dovrebbe offrirli.

Oppure la massa vota per chi promette lauti “redditi di cittadinanza”: che da un lato sono puro assistenzialismo, mentre è bene ricordare ciò che diceva Mao, che

non bisogna regalare pesci ai poveri, ma distribuire loro lenze e insegnare a pescare;

dall’altro lato questi redditi aprirebbero anch’essi buchi paurosi nel bilancio statale, perché la copertura finanziaria sarebbe del tutto improbabile, se non impossibile. Quindi si tratta di una promessa inconsistente, a meno di voler mandare in bancarotta lo Stato. Ma intanto chi l’ha fatta ha “vinto” le elezioni (secondo la vulgata: più correttamente, ha avuto un netto incremento di voti, anche se fortunatamente non la maggioranza assoluta). Siamo ai limiti della circonvenzione di incapaci. Anche qui solo la scuola potrebbe fornire il senso critico per capire che certe promesse sono puri inganni.

Quindi a chi giova che la scuola non funzioni?

Se la scuola pubblica si degrada, si avvantaggia la scuola privata: dove vanno, pagando alte rette, quelli destinati a ricoprire i posti di comando. E nella scuola privata l’ordine è perfetto: disciplina rigorosa, niente scioperi, occupazioni, autogestioni. Magari la qualità dell’insegnamento non sarà sempre eccelsa, ma ciò che importa è che gli studenti siano bene inquadrati, preparati ad assolvere i loro futuri compiti. Anche qui stiamo seguendo, a distanza di anni, il modello statunitense. Può essere istruttivo accostare la scuola del Seme della violenza a quella rappresentata in un film come L’attimo fuggente (Dead Poets Society), che è ambientato negli stessi anni Cinquanta: da un lato la scuola degradata per gli emarginati della società, dall’altro il collegio rigidissimo, dal perfetto funzionamento, dove si seleziona e si forgia chi è destinato a costituire la classe dirigente, manager e professionisti di prestigio e dagli altissimi redditi.

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