Cauto omaggio a Edoardo Sanguineti

L'asino vola
10 min readFeb 26, 2018

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A proposito di due libri che lo riguardano

I due libri di cui nel sottotitolo di questo scritto sono: Edoardo Sanguineti, Un poeta al cinema, a cura di Franco Prono e di Clara Allasia e Clara Allasia, “La testa in tempesta”. Edoardo Sanguineti e le distrazioni di un chierico. Intendo scrivere di questi libri, che ovviamente riguardano l’avanguardia. Ma parlare di avanguardia oggi, come forse di qualsiasi altra cosa, richiede premesse illustrative di un metodo, oltre che dell’oggetto in questione, a evitare equivoci, sempre che sia possibile, e incomprensioni. Per questo, essendo Sanguineti l’esponente più alto della Neoavanguardia italiana degli anni cinquanta e sessanta, è necessaria, prima di tutto, una premessa sull’avanguardia stessa.

Per affrontare il problema dell’avanguardia nel suo aspetto generale (e, spero proprio, non generico) i punti di partenza sono probabilmente infiniti. Mi pare però che uno di questi, che a me sembra fortemente emblematico, sia rappresentato dagli scritti critici di Baudelaire. Nel 1857 il poeta delle Fleurs du Mal pubblica, come prefazione alla sua traduzione delle Nouvelles Histoires extraordinaires di Edgar A. Poe, le Notes nouvelles sur Edgar Poe, il terzo suo articolo su questo autore. Ecco un punto particolarmente interessante:

[Poe] resta ciò che fu e sarà sempre il vero poeta: una verità acconciata in maniera bizzarra, un paradosso apparente, che non vuole stare gomito a gomito con la folla, e che corre all’estremo oriente quando il fuoco d’artificio si accende dove tramonta il sole.

Qui Baudelaire, che in questo scritto è ormai giunto a una totale identificazione del proprio pensiero e del proprio percorso di scrittore con quello di Poe, mette in luce, nel suo linguaggio straordinariamente preciso proprio in quanto ‘poetico’ -nel senso in cui egli intende Poesia e non certo nel significato oggi corrente e corrivo-, l’essenza profonda di ciò che ritiene essere “il vero poeta” e cioè un artista che non può non sentirsi e essere “straniero al mondo e ai suoi culti”. Queste parole emblematiche sono contenute in una lettera alla madre, del giugno 1863. Subito dopo Baidelaire precisa meglio il suo pensiero: “Rivolgerò contro la Francia intera il mio reale talento per l’insolenza. Ho bisogno di vendetta come un uomo stanco ha bisogno di un bagno”. Risulta molto chiaro il pensiero del poeta che qui pratica e sviluppa il concetto fondamentale di contraddizione. E sempre coll’intento di non generare equivoci, con il termine di contraddizione, intendo quel modo di agire in poesia, e di riflesso nella vita, in cui due visioni dell’arte, e di conseguenza del mondo, si scontrano frontalmente senza ammettere nessun tipo di intermediazione. Questo non esclude affatto la dialettica che è quella che “il vero poeta” instaura con l’arte del suo tempo, di quel determinato tempo e non di uno diverso, e con la classe dominante la società che quel tipo di arte gradisce determinandone così il successo. Baudelaire ha ben chiaro questo movimento dialettico che lo porta, nello scritto su Poe di cui ci stiamo occupando, a sfogare tutto il suo odio nei confronti dell’americanismo e cioè di quella situazione economica, storica e sociale che egli sta vivendo in Francia e che là, oltreoceano, assume connotati più diretti e brutali di cui Poe fu vittima:

[…] confesso senza vergogna che preferisco di gran lunga il culto di Teutatè a quello di Mammona; e il sacerdote che offre al crudele predone di ostie umane vittime che muoiono onorevolmente, vittime che vogliono morire, mi appare un essere davvero dolce e umano, paragonato al capitalista che immola i popoli unicamente per il suo interesse. […] Un simile ambiente […] non è fatto per i poeti. […] Per qualsiasi intelligenza del vecchio mondo, uno Stato politico ha un centro di movimento che è il suo cervello e il suo sole, memorie antiche e gloriose, lunghi annali poetici e militari, una aristocrazia a cui la povertà, figlia delle rivoluzioni, non può che aggiungere un lustro paradossale; ma Questo! Questa calca di venditori e compratori, questo senza nome, questo mostro senza testa, deportato d’oltreoceano, uno Stato!

E poi, dopo l’invettiva, l’ironia beffarda:

È bene richiamare senza sosta lo sguardo su queste meraviglie di brutalità, in un tempo in cui l’americomania è diventata quasi una passione alla moda, al punto che un arcivescovo ha potuto prometterci senza ridere che presto la Provvidenza ci chiamerà a godere di questo ideale transatlantico.

Ma non basta. Edgar A. Poe fu anche un critico di vaglia, come ben si sa. Ora Baudelaire sfiora forse il determinismo sociologico nell’affermare senza mediazioni che: “Un simile ambiente sociale ingenera necessariamente errori letterari corrispondenti”. In questo caso però il critico-poeta, che è anche un teorico dell’arte non solo letteraria, sta parlando della critica conformistica, di quel tipo di critica che intende rispondere direttamente, seguendo una logica strettamente mercantile, alla domanda del fruitore che è, in questo caso, il borghese statunitense; e così, non si tratterà tanto di determinismo sociologico quanto di perseguire l’intento di svelare la logica mercantile di cui ho appena detto. Ecco, infatti:

In un paese dove l’idea di utilità, la più ostile del mondo all’idea di bellezza, primeggia e domina su ogni cosa, il critico perfetto sarà il più moderato, vale a dire colui le cui tendenze e i cui desideri si avvicinano di più alle tendenze e ai desideri del suo pubblico, — colui che, confondendo le facoltà e i generi della produzione, assegnerà a tutte un unico fine, — colui che cercherà in un libro di poesia i mezzi per perfezionare la coscienza.

Le citazioni baudelairiane che ho riportate finora contengono tutti gli elementi utili a avviare un discorso sull’artista e sul critico che noi oggi definiamo d’avanguardia, termine quest’ultimo, mediato dal linguaggio militare, che Baudelaire non usa perché la trasposizione metaforica nell’arte è tutta novecentesca.

Il primo punto, quindi, che permetta di rubricare un testo come appartenente alla vasta, ma non vastissima, categoria dell’avanguardia è quello costituito dall’opposizione alla mercificazione dell’opera d’arte perseguita dal mercato borghese e la rivendicazione della libertà dell’artista, libertà che per questo tipo di artefice costituisce la base sostanziale da cui partire per aspirare all’arte. Ne consegue un’opposizione decisa al mercato dell’arte e al mercato tout court. Seguendo la prospettiva baudelairiana, l’artista, dunque, che, al contrario, scrive o dipinge o compone musica per il suddetto mercato rinuncia alla propria libertà perché deve cercare di soddisfare i gusti del pubblico cui si rivolge; e più riuscirà in questa impresa più avrà successo e di conseguenza denaro, onori e via dicendo. E, naturalmente, ciò che vale per l’artista vale anche per il critico come mette in luce Baudelaire a proposito di Poe, critico d’eccezione.

Un’aporia dell’avanguardia?

Ma le cose non sono così semplici come a un primo approccio potrebbero apparire: da una parte l’artista e il critico prezzolati e dall’altra l’artista e il critico d’avanguardia puri e esenti da qualsiasi compromesso col mercato. E questo non solo per evidenti motivi di sopravvivenza per gli artisti e i critici che non hanno beni di fortuna, come si suole dire, ma per un motivo ben più profondo che riguarda l’essenza dell’operazione artistica di questo tipo. Infatti ogni artista e ogni critico che si oppongono alla reificazione dell’arte dovuta al mercato onnivoro e, di conseguenza, onnicomprensivo –il fatto che l’arte possa essere al di sopra del mercato in quanto arte è un’ipotesi estetica priva di senso e certamente dettata dalla “coscienza sporca” — pretende di far sentire la propria voce il più forte possibile e ciò, in una economia di mercato vuol dire tenere necessariamente conto del mercato stesso; in modo critico il va sans dire.

Dobbiamo a Benjamin una stupenda esegesi dell’opera di Baudelaire che sarebbe riduttivo classificare come un’opera di sociologia della letteratura, forse anche per come questa disciplina è stata elaborata nel nostro paese. Diviene però molto chiaro che cosa intendessero i filosofi appartenenti alla Scuola di Francoforte per sociologia dell’arte se si ricorre alle parole di Adorno, che nel 1957, prefacendo il suo Dissonanze, già fin alla prima pagina, scrive:

I saggi raccolti in questo volume costituiscono un tutto unitario, perché trattano le condizioni della musica nel mondo amministrato, in un inquadramento pianificatore e organizzato che sottrae alla libertà e alla spontaneità artistiche la base sociale. Il tipo di analisi impiegato è insieme estetico e sociologico: da un lato i fenomeni di involuzione artistica discussi sono causati dalla tendenza degli uomini all’inquadramento, ma dall’altro il destino sociale della musica […] può essere decifrato solo nella sua particolare conformazione e nelle deformazioni a cui essa va continuamente soggetta.

Al termine della prefazione, per altro assai breve, compare un altro pensiero che può illuminare ancor meglio ciò che l’autore intende per “critica sociale”:

I sintomi alla cui radice l’autore intende risalire in questi saggi sono profondamente radicati nel processo sociale […]. Non sarà [dunque] vana la riflessione che nasce quando il pensiero si pone senza riguardi e senza timore di fronte a tutto ciò che lo sgomenta.

Poco prima Adorno, autocitandosi da uno scritto di tre anni precedente, aveva già affrontato quest’ultimo problema:

“La forza non si manifesta nella ripulsa automatica, ma nella capacità di avvicinarsi con serietà a tutto ciò che è sconcertante”.

Come si vede chiaramente questo nodo problematico, posto in questi termini, si presenta soprattutto come un problema etico. E negli scritti di Adorno l’eticità del fare critica, dello sviluppare il “pensiero critico” che contraddistingue i francofortesi, è sempre presente in modo squillante. Horkheimer, nel delineare ciò che per lui è stata ed è oggi la teoria critica, così accomuna a sé Adorno: “Una volta scrissi che il «senso grande e necessario del pensiero è di rendersi superfluo». Ma in cosa corrisponde all’ottimismo che condivido con Adorno, il mio amico scomparso? Nella convinzione che, nonostante tutto, si deve cercare di fare e realizzare ciò che si ritiene vero e buono. Era questo il nostro principio: pessimisti in teoria e ottimisti nella pratica!”; massima, quest’ultima, che bene consuona con quella di Gramsci: “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà”.

Nel 2005 Enrico Donaggio cura un’antologia degli autori della Scuola di Francoforte cui premette un’Introduzione; ed è proprio in questa sede che, in apertura di discorso, illustra in modo assai suggestivo la situazione dell’intellettuale, diviso tra contrapposizione all’esistente e subalternità al potere che lo governa. Per adombrare, se pure a grandi linee, la figura del primo tipo di intellettuale lo studioso ricorre a Foucault che “rintraccia il luogo di nascita della critica sociale nell’antica pratica della parresia, del «dire la verità»”. Ma leggiamo ancora:

Ai suoi albori la figura del critico coinciderebbe dunque con quella di un individuo che si aggira per la polis parlando in modo franco e schietto, sbottando senza troppi riguardi in faccia a chiunque tutto quel che ritiene essere vero. Senza riserbo né misura, esponendosi a un rischio mortale.

E qui si affaccia la spinta etica che determina le parole e gli atti di chi non può sopportare gli slings and arrows che alla sua morale scaglia contro l’esistente e i potenti che ne determinano il canovaccio di base (e forse l’outrageous fortune di cui parla Amleto significa proprio questo) su cui, nel piano superstrutturale, nasce e si afferma l’ideologia dominante condensata poi nel senso comune che alcuni definiscono “spirito del tempo” e, nelle arti, “canone”:

L’autentico parresiasta ha infatti il coraggio di agire in una situazione di fondamentale asimmetria: pronunciando verità sgradite a chi lo sovrasta in potere e ricchezza, poiché la critica è un dovere, in essa “vi è qualcosa che si associa alla virtù”.

Ciò che spinge chi si contrappone al potere dominante in economia, in politica e nell’ideologia è pertanto una forza etica “radica[ta] in sentimenti morali come lo sdegno e l’umiliazione della dignità; in esperienze di lesione delle aspettative di una vita ben riuscita, e nel bisogno di porvi rimedio”: e, se questo è vero, come è vero, sarà dunque una moralità risentita a indirizzare il pensatore, il politico, il critico e l’artista di contraddizione a operare come operano quale che sia il contrappasso a lui riservato dalla società amministrata: non si tratterà forse più, come per il parresiasta nell’antica Grecia, di correre il rischio della morte -almeno in determinati paesi quali quello in cui viviamo-, ma certamente quello dell’emarginazione che, in alcuni casi, può assumere le sembianze e la realtà di una morte civile.

Chiarito questo punto, possiamo ora tornare al titolo di questo secondo paragrafo e cioè a una supposta aporia dell’avanguardia. Benjamin, appunto, con quello straordinario acume dell’intelligenza che gli è proprio, precisa in che termini il problema del mercato dell’arte è stato affrontato da Baudelaire:

Molto presto [Baudelaire] ha considerato il mercato senza alcuna illusione.

Infatti, continua Benjamin,

Nel 1846 [Baudelaire] scrive: “Per bella che sia una casa, essa è innanzi tutto –prima che la sua bellezza sia dimostrata, — un tanti metri d’altezza su tanti di larghezza. — Lo stesso la letteratura, che è la materia più invalutabile, -è prima di tutto un riempire colonne; e l’architetto letterario, il cui nome da solo non è una possibilità di guadagno, deve vendere ad ogni costo”. Malgrado questa coscienza così lucida Baudelaire però, è ancora Benjamin, “[s]ino alla fine non trovò un posto per sé sul mercato letterario. Si è stimato che con tutta la sua opera abbia guadagnato non più di 15.000 franchi”.

Si tratta, dunque, di un punto fondamentale del pensiero baudelairiano che ora qui prendo a esempio, esempio molto alto, dell’artista che più tardi verrà definito d’avanguardia. Ma come avrebbero potuto stare le cose in modo diverso? Odiatore della borghesia e del senso comune, il poeta delle Fleures du mal, si oppone con estrema determinatezza e durezza oltre che alla morale e alla visione del mondo in generale anche e soprattutto all’arte gradita a quella classe sociale da cui egli stesso proveniva non solo per censo ma, specificatamente nel caso di un poeta, per raffinatezza di cultura e ciò gli aveva permesso di conquistarsi almeno una parte della fama che meritava. Ma erano proprio i borghesi e soltanto loro che, all’epoca, possedevano gli strumenti culturali per capire la sua poesia e la sua critica e, proprio per questo, si resero immediatamente conto del fatto che questo poeta era diverso e opposto a tutti i “loro” poeti poiché il primo appariva loro appunto come un traditore della propria classe di origine e, volente o nolente, di appartenenza. Non stupisce quindi che Dumas guadagnasse 63.000 franchi l’anno e che Sue abbia ottenuto un anticipo di 100.000 franchi per i Mystères de Paris e, ancora, che Lamartine, nel periodo tra il 1838 il 1851, abbia incassato 5.000.000 di franchi. Il traditore della propria classe, come si sarebbe definito più tardi Brecht, non viene perdonato dagli appartenenti alla classe stessa che e mette al lavoro i suoi intellettuali per dissuadere gli altri borghesi a comprare il libro: ecco infatti il “filosofo cristianeggiante” Jean Wallon che, sfruttando abilmente, ma nemmeno poi tanto, le sfumature socialisteggianti del libro , lo attacca fin dal titolo, poi cambiato, che Baudelaire appose alla pubblicazione delle prime undici poesie della raccolta nel 1848, Les Limbes; e scrive senza mezzi termini: “Si tratta senza dubbio di versi socialisti, e di conseguenza di cattivi versi”.

In conclusione di questa parte di discorso, se conclusione è possibile abbia a esserci, potremmo notare che l’aporia di cui sopra è insita, ineluttabilmente, nell’animo dell’artista di avanguardia che è teso a conquistare il mercato mentre, contemporaneamente, disprezza e combatte il mercato stesso. Ovviamente questa contraddizione apparente dev’essere in qualche modo spiegabile, pur tenendo conto delle molteplici diversità in cui detto artista opera, sempre che non si voglia scadere nel moralismo piccolo borghese e filisteo che, autoassolvendosi dal suo collaborazionismo col potere, pretende di leggere la realtà come il luogo dell’impossibilità della contraddizione: insomma, anche un artista, qualsiasi tipo di artista, dice il filisteo in questione, deve pure mangiare, come tutti gli altri uomini.

(L’articolo prosegue nel prossimo numero della rivista.)

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