Cauto omaggio a Edoardo Sanguineti (quarta parte)
di Gigi Livio
[Questa quarta parte è un ampliamento della terza che mi è sembrato necessario inserire per maggior chiarezza di ciò che sto cercando di dire. Chiedo scusa alla gentile lettrice e al simpatico lettore se questo “inserimento” può causare disagio. Ecco le istruzioni “tecniche” per procedere nella lettura: nella terza parte, in corrispondenza dell’aggiunta troverete il link a questo articolo così da proseguire la lettura agevolmente]
Il motivo di questo consuonare della poetica avanguardistica di Pound con quella di Flaubert è facilmente rintracciabile in quella fonte straordinaria di dichiarazioni d’intenti, e dunque di poetiche esplicite, che scaturisce dall’epistolario flaubertiano. E nemmeno attraverso una schedatura, ma anche soltanto secondo l’ordine dello sfogliare, troviamo in una lettera a Maxime du Camp del 1852, delle posizioni che possono già essere definite d’avanguardia nel senso in cui sto cercando di delineare in questo rapido percorso. Ecco dunque che, nella risposta all’amico in cui Flaubert riporta, commentandole, alcune parole scrittegli da du Camp:
“[…] la mia scelta è fatta da molto tempo. Ti dirò soltanto che tutte codeste parole: bisogna sbrigarsi, è il momento buono, è tempo, posto già occupato, affermarsi, fuori della legge, sono per me un vocabolario senza senso. È come se tu parlassi a un Indiano. Non ne capisco un’acca.”
La lettera prosegue poi confutando punto per punto le affermazioni del corrispondente:
Arrivare, a che cosa? Alla condizione dei signori Murger, Feuillet, Monselet, Arsène Houssaye, Taxille Delord, Hippolyte Lucas e altri settantadue insieme? Grazie tante.Esser conosciuto, non è la mia principale ambizione. Ciò sodisfa interamente soltanto le più mediocri vanità. […] la fama non vale a classificarci ai nostri propri occhi più dell’oscurità. Aspiro a qualcosa di meglio, a piacere a me stesso. […]Ho in testa una maniera di scrivere e un’eccellenza di linguaggio a cui voglio arrivare. Quando mi parrà di aver colto l’albicocca, non ricuserò di venderla, né di esser applaudito, se sarà buona. […]
Se allora il momento propizio sarà passato e nessuno più ne avrà voglia, pazienza!
Ma non basta. Lo scrittore intende spiegare a du Camp perché egli rifiuti di vivere a Parigi e preferisca il lavoro in un luogo ritirato che gli permetta di concentrarsi su quello e soltanto su quello; e, in questa spiegazione si rivela soprattutto il suo vero e proprio odio per l’arte conformistica, “ufficiale”:
Là spira il soffio della vita, mi dici parlandomi di Parigi. A me pare, invece, che sappia spesso di denti guasti, il tuo soffio di vita. Da quel Parnaso a cui m’inviti esalano, per me, più miasmi che vertigini. I lauri che vi si colgono sono un po’ sporchi di merda, conveniamone.[…]
Ti ho già detto che a Parigi andrò a stare solo quando avrò finito il mio libro, e che lo pubblicherò solo se ne sarò contento. Non ho mutato risoluzione. […] E credimi, amico mio, lascia correre l’acqua per la sua china. Che le diatribe letterarie rinascano o non, me ne frego. Che Augier abbia successo, me ne strafrego e che Vacquerie e Ponsard allarghino talmente le loro spalle da portarmi via il mio posto, me ne arcifrego, e mi guarderò bene dal disturbarli perché me lo restituiscano.
Come si vede questo programma di vita e di lavoro non poteva non interessare a Pound. Sarà però da notare che qui l’ineluttabile sprezzo dell’intelligenza e del talento superiore che si rende conto dell’abisso che separa l’Arte dall’arte commercializzata e industrializzata è però contesto, a differenza di ciò che succede nel brano joyciano che ho analizzato e da cui deriva questo spunto di approfondimento, di disprezzo vero e proprio. Si può cercare di spiegare il fenomeno col fatto che questa lettera di Flaubert è di quasi mezzo secolo precedente allo scritto di Joyce prima riportato e che dunque il dominio dell’industria culturale sull’arte è assai progredito –nel senso borghese positivistico di “progresso” ovviamente-; è pur vero però che a questa osservazione si potrebbe fare un’obiezione piuttosto rilevante e cioè che Le fleurs du mal sono del 1857 e, quindi, di fatto contemporanee allo scritto flaubertiano.
Di datazione incerta, ma probabilmente precedente il ’57, è Je n’ai pas pour maîtresse une lionne illustre, che non trovò posto nella raccolta, dove però ha un riscontro nella XXXII poesia Une nuit que j’étais près d’une affreuse Juive: qui Baudelaire mostra in tutta chiarezza il suo stato d’animo di poeta cosciente di vivere in un mondo e in una temperie artistica tremendi: questa consapevolezza lo porta però a rivolgere il suo disprezzo soltanto su se stesso mostrando, al contrario, comprensione per gli altri:
Je n’ai pas pour maîtresse une lionne illustre.
La guese, de mon âme, emprunte tout son lustre.
Insensible aux regards de l’univers moqueur,
Sa beauté ne fleurit que dans mon triste coeur.
Pour avoir des souliers, elle a vendu son âme;
Mais le bon Dieu rirait si, près de cette infâme,
Je tranchais du tartufe et singeais la hauteur,
Moi qui vends ma pensée et qui veux être auteur.
[“Io non ho per amante una dama del gran mondo. La mendicante trae tutto il suo lustro dalla mia anima. Insensibile agli sguardi dell’universo beffeggiatore, la sua bellezza non fiorisce che nel mio cuore triste. Per avere delle scarpe, lei ha venduto la sua anima; ma il buon Dio riderebbe se, vicino a questa infame, assumessi le arie di un moralista ipocrita e la guardassi con alterigia, io che vendo il mio pensiero e che pretendo di essere un autore”.]
Questa posizione baudelairiana è segnalata da Benjamin là dove scrive che a Baudelaire non “mancava una lucida visione della reale condizione del letterato. Era solito confrontarla — e confrontare se stesso, in primo luogo — con la prostituta. Ne parla il sonetto a La muse vénale. Il grande poema introduttivo Au lecteur ritrae il poeta nell’atteggiamento inopportuno di chi riceve moneta sonante per le sue confessioni.”
A questo punto Benjamin riporta la seconda delle quartine della poesia che ho appena trascritta; la conclusione su questo punto della sua esegesi è netta:
Baudelaire sapeva qual era in verità la condizione del letterato: questi si reca sul mercato come flâneur; secondo lui per guardarsi attorno, ma in realtà già per trovare un acquirente.
Ma l’interpretazione benjaminiana non può fermarsi qui. Deve, infatti, intervenire il momento dialettico per portare alla luce tutto il valore dell’opera baudelairiana:
Se egli soccombe alla violenza con cui [la folla] lo attira a sé e ne fa, come flâneur, uno dei suoi, la sensazione della natura inumana della folla non lo ha mai abbandonato. Egli diviene suo complice e se ne separa quasi nel medesimo istante. Si mescola a lungo con essa per scagliarla all’improvviso nel nulla con uno sguardo di disprezzo. Questa ambivalenza ha qualcosa di soggiogante, quando con ritrosia la ammette. Potrebbe anche dipendere da essa l’incomprensibile charme del suo Crépuscule du soir.
È subito da sottolineare quel corsivo con cui Benjamin intende mettere in evidenza che lo “sguardo di disprezzo” si rivolta sul poeta stesso -mi pare che questo debba essere il significato da attribuire a quell’ “uno” evidenziato dal corsivo- perché a sé riserva il “disprezzo”. In secondo luogo questo passo mirabile mette assai bene in evidenza la dialettica di Baudelaire che si nasconde nell’“ambivalenza” di essere complice della folla e contemporaneamente nel separarsene con uno sguardo di disprezzo per sé che ne è divenuto, appunto, complice. Per meglio chiarire questa ambivalenza possiamo dire che il poeta, malgrado la criticasse, non poteva non appartenere alla modernità. E moderna è certamente, non la prostituta, ma il modo in cui la prostituta si presenta agli occhi di Baudelaire; e parte dell’ “incomprensibile charme” del Crepuscolo della sera è anche nell’equiparazioni insistita tra quest’ultima e il poeta che senza dubbio partecipa di questa ambiguità: la prostituta, così come si presenta nell’epoca moderna, ha certamente la funzione, almeno per Baudelaire, di separare il piacere sessuale dall’amore, inteso come congiungimento d’animi che porta con sé il congiungimento dei corpi, ed è questa sua almeno apparente schiettezza, dove la merce si presenta per ciò che è, a attirare il poeta e a permettergli di comprendere come lui e il suo lavoro siano la medesima faccia della stessa medaglia: colui che sa di non poter sfuggire alla mercificazione della propria arte e che, sempre contemporaneamente, intende svelare la lotta costante tra chi è ben conscio, come egli è, di ciò che sta facendo e chi, al contrario, continua a negare la verità di quell’arte falsa che, nel mondo della falsità generalizzata, rispecchia invece e, proprio, la vita falsa:
“Nell’epoca in cui gli accadde di vivere, nulla fu tanto vicino al compito dell’eroe antico, alle ‘fatiche’ di Ercole, di quello toccato a lui stesso: dar forma alla modernità”
come, ancora una volta, scrive Benjamin. E la prostituta prende forma dalla modernità e il poeta, assimilandosi a lei, si degrada e si umilia, ma, ancora contemporaneamente, combatte contro la degradazione del mondo moderno dominato dalla borghesia, dai suoi falsi ideali e dai suoi falsi valori. Beffardamente sardonico aveva scritto, in un articolo intitolato La scuola pagana e pubblicato nel ’52:
“Bevete voi brodi di ambrosia? mangiate cotolette di Paro? Quanto prestano su una cetra al Monte di Pietà?”:
e qui il sarcasmo è ricco appunto di quella sprezzatura, tipica del dandy, di cui abbiamo detto. L’antipatia di Baudelaire per i poeti neopagani e per quelli che praticano l’art pour l’art, in quanto falsari dell’arte e della vita, è qui esplicita come ancora più lo era stata in altro scritto di pochi mesi precedenti, I drammi e i romanzi onesti:
È bene notare di passata il parallelismo della stupidità, il fatto che le stesse eccentricità di linguaggio si ritrovano nelle scuole estremiste. Così c’è una calca di poeti abbrutiti dalla voluttà pagana, che impiegano senza tregua le parole santo, santa, estasi, preghiera, ecc., per qualificare cose ed esseri che non hanno niente di santo e di estatico, al contrario, e spingono così l’adorazione della donna fino all’empietà più nauseante. […]
A fianco della scuola del buon senso e dei suoi tipi di borghesi corretti e vanitosi, si è ingrandito e pullula un popolo malsano di sartine sentimentali che, anche loro, mescolano Dio ai loro affari, di Lisettes che fanno perdonare tutto con la gaiezza francese, di puttane che hanno conservato non so dove una purezza angelica, ecc. Altro genere di ipocrisia.
Ma il poeta non vuole essere certamente ipocrita e sceglie la puttana vera, quella che mostra a lui e al mondo la sua vera immagine:
Vice beaucoup plus grave, elle porte perruque.
Tous ses beaux cheveux noirs ont fui sa blanque nuque
[Il suo difetto più grave è che porta una parrucca. Tutti i suoi bei capelli neri sono fuggiti dalla sua bianca nuca].
E, malgrado ciò, anzi proprio grazie a ciò, il poeta è attratto da questa donna miserabile, che non nasconde di esserlo, e fa l’amore con lei con grande trasporto che non impiegherebbe certo con una “lionne illustre”, una dama del gran mondo:
Ce qui n’empêche pas les baissers amoureux
De pleuvoir sur son front plus pelé qu’un lépreux.
[Questo non impedisce ai miei baci amorosi di piovere sulla sua testa più pelata di quella di un lebbroso].
E il suo fervore erotico non si ferma certo qui; infatti:
Je la léche en silence avec plus de ferveur
Que Madeleine en feu les deux pied du Saveur.
[Io la lecco in silenzio con più fervore della Maddalena ardente i due piedi del Salvatore.]
L’espressione blasfema, che porta al climax ultimo l’accostamento poeta-prostituta nella allegorica notte d’amore che sprofonda fino in fondo nel grottesco, è solo apparentemente tale. Qui Baudelaire denuncia con ferocia, grazie all’allegoria appunto, la degradazione del sacro nel mondo moderno: è proprio con l’accostamento tra sé che lecca la prostituta, brutta e ripugnante (“Elle n’a que vingt ans; la gorge, déjà basse,/ Pend de chaque côté comme un calebasse […]” [Ha soltanto vent’anni; il suo seno, già cascante, pende da ogni lato come una zucca […]) e la Maddalena, anch’ella, secondo una tradizione popolare, una “peccatrice”, ma redenta mentre per lui e la sua amante non è prevista in questa società redenzione alcuna, che lecca i piedi di Cristo il Salvatore, umiliandosi come egli si umilia di fronte alla sua Salvatrice, che però non salva nessuno, che egli intende svelare, in allegoria ovviamente, attraverso la ripugnanza fisica dell’amante la realtà dell’arte e della vita dell’epoca in cui non per virtù ma per fortuna gli è toccato in sorte vivere e fare arte: ed è qui che il suo cuore mostra ancora un residuo di sacralità nell’amore per tutto ciò che è estraneo alla società moderna, questa sì veramente ripugnante e fuor d’allegoria. Perché della miserabile degradazione di questa donna ha colpa soltanto una società spietata basata esclusivamente sull’utile:
Messieurs, ne crachez pas de jurons ni d’ordure
Au visage fardé de cette pauvre impure
Que déesse Famine a, par un soir d’hiver,
Contraint à relever ses jupons en plein air.
[Signori, non sputate ingiurie e sconcezze sul viso imbellettato di questa povera donna impura che, in una sera d’inverno, la dea della Fame ha costretto a alzare la gonna all’aria aperta.]
La conclusione del componimento è, almeno per ciò che riguarda il contenuto, prevedibile ma non per questo meno aspra e dura:
Cette bohème-là, c’est mon tout, ma richesse
Ma perle, mon bijou, ma reine, ma duchesse,
Celle qui m’a bercé sur son giron vainqueur,
Et qui dans ses deux mains a réchauffé mon coeur.
[Questa zingara è il mio tutto, la mia ricchezza, la mia perla, il mio gioiello, la mia regina, la mia duchessa, colei che mi ha cullato sul suo grembo vittorioso e che nelle sue due mani ha riscaldato il mio cuore.]
Ma, se il rimanente di questi versi è ormai facile da comprendere, perché mai il grembo, il sesso, di questa allegorica prostituta che ha “trop ouvert son coeur à tous venants” [“troppo aperto il suo cuore a tutti quelli che venivano”], come è detto al verso trentunesimo della poesia, è vainqueur? Vittorioso di cosa e su cosa? E forse qui si svela il senso profondo dell’allegoria se si dà a questo aggettivo un valore oppositivo all’ipocrisia dei “poeti abbrutiti dalla voluttà pagana” che spingono “l’adorazione della donna fino all’empietà più nauseante”, come abbiamo appena letto: con questo aggettivo sembra proprio che Baudelaire intenda svelare fino in fondo la falsità che circonda l’amore in un’epoca di reificazione generale in cui anche i sentimenti sono sottoposti alla legge della domanda e dell’offerta.
“Tutto questo è tanto più ridicolo, poiché le amanti di questi poeti sono delle vili baldracche tra cui le meno cattive sono quelle che preparano da mangiare e non si pagano un altro amante”.
E, abbiamo sempre già letto, che “la scuola del buon senso” non è da meno perché i testi scritti dagli autori che si rifanno a questa “scuola” pullulano “di puttane che hanno conservato non so dove una purezza angelica, ecc. Altro genere di ipocrisia”. Traluce qui, anche per un suggestivo ideale riscontro con il cranio calvo della prostituta, quel “teschio di un morto” di cui parla Benjamin in un passo molto noto del Dramma barocco tedesco -il cui titolo originale è Ursprung des deutschen Trauerspiels e cioè Le origini del dramma tedesco dove però Trauenspiel significa letteralmente “rappresentazione luttuosa”- a proposito dell’allegoria. Citiamo più distesamente:
“Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità si manifesta fugacemente il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, l’allegoria mostra agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito paesaggio originario. La storia in tutto ciò che essa ha fin dall’inizio di immaturo, di sofferente, di mancato, si imprime in un volto, anzi: nel teschio di un morto”.
Poche righe prima del passo riportato Benjamin, attraverso una citazione da lui tratta da Johann Görres, afferma con decisione:
“I due [il concetto di simbolo e quello dell’allegoria] stanno, l’uno rispetto all’altro, come la muta, grande, poderosa natura dei monti e delle piante e la storia umana vivente e progressiva”.
È chiaro che qui non c’è più spazio per l’interpretazione tradizionale di Baudelaire come poeta simbolista: nel riscattarlo dal simbolistico assegnando la sua arte all’allegorico Benjamin rivela lo splendore della sua stella della stella della poesia di Baudelaire in tutto il fulgore nel mostrare ciò che costituisce il sostrato profondo del valore della sua arte: il radicamento nel realismo.
Tornando ora a Le crépuscule du soir , anche se soltanto per accenni, lì la prostituzione, scritta però con l’iniziale maiuscola, porta il suo significato allegorico a una valenza ancora più ampia di quella dell’accostamento del poeta a una prostituta se pure eletta a emblema; la Prostituzione infatti diviene allegoria di tutto il mondo in cui il poeta vive, della “cité de fange” in cui trascina la sua esistenza. Scende la sera, desiderata da chi può dire a se stesso: oggi ho lavorato, che
“soulage/ Les esprits que dévore une douleur sauvage,/ Les savant obstiné dont le front s’alourdit,/ Et l’ouvrier courbé qui regagne son lit”
[“porta sollievo agli spiriti divorati da un dolore selvaggio, al sapiente ostinato la cui fronte si appesantisce, all’operaio curvo che torna al suo letto”].
Ma il sonno non dà sollievo né al sapiente né all’operaio perché
“des démons malsains dans l’atmosphère/ S’éveillent lourdement, comme des gens d’affaire,/ Et cognent en volant les volets et l’auvent”
[“nell’atmosfera si svegliano dei demoni malsani, pesantemente, quasi fossero uomini d’affari, e sbattono sulle imposte e sulle tettoie”].
Torna qui, e non è certo l’unica volta negli scritti di Baudelaire, la polemica nei confronti degli “uomini d’affari”, dei capitalisti “che immola[no] i popoli esclusivamente per il [loro] interesse” come abbiamo già letto nel saggio su Poe; e questa volta sono lourde, pesanti, opprimenti. Il concetto ben si lega con i versi che immediatamente seguono:
“A travers les lueurs que tourmente le vent/ La Prostitution s’allume dans les rues;/ Comme une fourmilière elle ouvre ses issues;/ Partout elle se fraye un occulte chemin,/ Ainsi que l’ennemi qui tente un coup de main;/ Elle remue au sein de la cité de fange/ Comme un ver qui dérobe à l’Homme ce qu’il mange.”
[ “Attraverso le fioche luci che il vento tormenta la Prostituzione torna a vivere nelle strade e schiude le sue uscite come un formicaio, dappertutto si apre una strada nascosta come un nemico che tenta una sorpresa, si trascina nel seno della città di fango come un verme che ruba all’Uomo ciò che mangia”].
Qui l’allegoria diventa piuttosto trasparente: la Prostituzione generalizzata viene assimilata a un formicaio che si apre nella notte e, nemica dell’Uomo, tenta molte strade per aggredirlo, come un verme, una tenia, che gli ruba ciò che mangia. Accostata agli uomini di affari, ai capitalisti opprimenti, questa allegorica prostituzione si rivela, appunto, come ciò che sottrae il nutrimento, che è certamente, e soprattutto, quello spirituale, all’Uomo: anche in questo caso la maiuscola ha una sua decisa importanza nel meccanismo allegorico e congiunge strettamente l’Uomo, forse colui che resiste o soltanto capisce, alla Prostituzione cui la modernità costringe lo spirito e il corpo delle persone.
È al solito decisamente suggestiva, e stimolante, l’analisi che Benjamin dedica a questi versi: il critico-filosofo prende le mosse da una famosa, e anche ironicamente sferzante, affermazione di Marx a proposito dello “spirito” della merce:
È evidente che, attraverso la proprio attività, l’uomo modifica in un modo a sé utile le forme delle materie naturali. La forma del legno viene modificata, per esempio, se di esso si fa un tavolo. Ciò nondimeno, il tavolo rimane legno, una cosa ordinaria, sensibile. Ma non appena compare come merce, esso si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Sta ritto reggendosi non solo sui piedi, ma, di fronte a tutte le altre merci, mettendosi sulla testa; e, in quella sua testa di legno, iniziano a saltargli svariati grilli, in modo ancor più strabiliante che se cominciasse a ballare da solo.
La duplice valenza della merce, insieme sensibile e sovrasensibile, “che sta oltre i sensi” (übersinnlich), attribuitale da Marx permette a Benjamin di affermare che quest’“anima” “sarebbe la più empatica che sia mai esistita nel regno delle anime. Poiché dovrebbe vedere in ognuno il cliente nelle cui mani e nella cui casa vuole adagiarsi”. La straordinaria capacità di Benjamin, nell’ultimo periodo della sua vita e cioè in quello marxista, di saper cogliere il senso profondo di certe espressioni di Marx, permette al critico (e filosofo e sociologo e tante altre cose insieme) di poter estendere per analogia questo concetto interpretativo alla prostituzione e alle prostitute:
E la “santa prostituzione dell’anima” rispetto alla quale “ciò che gli uomini chiamano amore” deve essere “assai piccolo, assai limitato e assai debole” altro non sarà […] che la prostituzione dell’anima della merce. “Questa santa prostituzione dell’anima che si dona tutta intera, poesia e carità, all’imprevisto che appare, all’ignoto che passa”, scrive Baudelaire. È proprio questa poésie, proprio questa charité che le prostitute rivendicano per sé. Esse avevano sperimentato i segreti del libero mercato; qui la merce non aveva su di loro nessun vantaggio. Alcune delle loro attrattive si fondavano sul mercato, e divennero altrettanti mezzi di potere. Come tali, Baudelaire li registra nel Crépuscule du Soir […].
A questo punto Benjamin riporta gli ultimi versi che ho citati e così li postilla:
Solo la massa degli abitanti permette alla prostituzione di diffondersi in vaste zone della città. E solo la massa consente all’oggetto sessuale di inebriarsi delle centinaia di effetti stimolanti che esso nel medesimo tempo esercita.
Ecco dunque che la fantasmagoria delle merci, termine marxiano assai caro a Benjamin, mostra tutti i suoi poteri attraverso la prostituta, che diventa emblema proprio della fantasmagoria della merce nel suo ridurre la donna che si offre in vendita (l’etimo di prostituta è: colei che “mette davanti, espone in vendita”) a merce fantasmagorica che colpisce l’immaginazione promettendo chimere, e la prima parte dell’etimo del termine è proprio “fantasma”, che induce l’acquirente a quel feticismo delle merci, sempre termine di Marx, che si rivela come “arcano”, ancora Marx, se non viene spiegato da un ragionamento basato sul lavoro umano, correttamente inteso:
“[…] questo carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal peculiare carattere sociale del lavoro che produce merci”.
La prostituta, nell’interpretazione benjaminiana, è dunque un feticcio e cioè un “oggetto fatturato, un sortilegio”, questo l’etimo (d’altre parte, come si sa, il feticismo è anche, come perversione sessuale, l’adorazione di un elemento del corpo della persona amata o del suo abbigliamento, soprattutto di quello intimo), che si presenta qui come metonimia fantasmagorica -completiamo ora la seconda parte dell’etimo in cui si incrociano “fantasma” e “allegoria”- e come allegoria, appunto, dell’amore nell’epoca capitalistica del grande mercato borghese in cui tutto è merce e quindi, ineluttabilmente, anche l’amore.
E la Prostituzione, che sottrae all’Uomo il suo nutrimento insieme materiale e spirituale, prospera nella cité de fange perché lì trova il suo terreno privilegiato di coltura; ma già abbiamo visto che Baudelaire sa comprendere chi si dedica a questo mestiere e giustificarlo: sprezzo e comprensione, charité, rivolgendo il disprezzo solamente su se stesso. Questo modo di sentire il mondo e l’arte del proprio tempo, sembra insieme vicino e lontano dal disprezzo che, invece, Flaubert nutre per Parigi e per il suo “merdoso” Parnaso, anche se è strettamente intessuto, come ho già scritto, dell’ineluttabile sprezzo di chi si rifiuta al mercato nei confronti di chi invece lo accetta e così contribuisce a rafforzarlo. È proprio questo disprezzo che può servirci per comprendere quella evidente sfasatura tra il comportamento baudelairiano nei confronti della città vertice della modernità, che però, proprio in quanto tale il poeta intende vivere fino in fondo, e il disprezzo aggiunto allo sprezzo, appunto, di chi, isolandosi nella sua casa di campagna, si sottrae alla mischia pur continuando nel suo lavoro di dura opposizione all’arte ufficiale, come subito vedremo, distinguendo così, per quanto sia possibile naturalmente, l’arte dalla vita che Baudelaire, invece, congiunge strettamente appuntando sulla seconda, la vita, l’eccezionale critica del suo pensiero. Aggiungerò però per chiarezza, prima di inoltrarmi nel discorso sul narratore francese, che qui non sto affatto proponendo un paragone tra l’arte di Baudelaire e quella di Flaubert, che sarebbe cosa per più motivi ridicola e comunque al di fuori della linea di queste mie note, ma un paragone tra le poetiche esplicite dei due scrittori nella prospettiva dell’avanguardia; che poi sia pre- o proto- non mi pare abbia importanza.
Ma Pound, probabilmente, è attento a altri aspetti della poetica di Flaubert come si può evincere, sempre casualmente e non metodicamente spogliando, da testi che, in quanto lettere, sono però, anche se non destinati alla pubblicazione, solo apparentemente d’occasione. A incominciare da questo attacco deciso nei confronti dell’estetica ufficiale e della bêtise del lettore comune, prono a questa ufficialità, contenuto in una lettera a Maupassant del 1880:
“Credo, più che mai, all’odio incosciente contro lo stile. Quando si scrive bene, si hanno contro di sé due nemici: 1° il pubblico, perché lo si costringe a pensare, lo si obbliga a un lavoro; 2° il governo, perché sente in noi una forza, e il potere non ama un altro potere./ I governi possono cambiare: monarchia, impero o repubblica, poco importa! L’estetica ufficiale non cambia. In virtù della loro condizione, i funzionari — amministratori e magistrati — hanno il monopolio del gusto […]. Essi sanno come si deve scrivere, la loro retorica è infallibile, e posseggono i mezzi per convincerci.”
In queste poche righe l’autore mette a punto una chiara poetica di contraddizione nei confronti dell’arte gradita al potere e accettata dal pubblico dei lettori; concludendo:
“La Terra ha dei limiti, ma la stupidità umana è infinita.”
E, altra cosa che non poteva non destare l’interesse di Pound è quella costituita dal fatto che nell’arte ufficiale Flaubert comprendesse l’arte che noi oggi definiremmo “di propaganda”. In una lettera del 30 settembre 1855 intende spiegare a Louis Bouilhet il motivo per cui la “Revue de Paris” ha rifiutato una commedia dell’amico:
“Alla “revue” ti hanno rifiutato Le coeur à droite perché non vi hanno scorto nessun’idea morale. […] Se la chiusa fosse consolante, saresti un grand’uomo. Ma siccome è amaramente scettica, non sei altro che un uomo che ha grilli per il capo. Abbasso i sognatori! Al lavoro! fabbrichiamo la rigenerazione sociale! lo scrittore ha cura d’anime, ecc.”.
Ed ecco la spiegazione di Flaubert per questo odio per la fantasia e per il sogno:
“In tutto ciò c’è un calcolo abile. Quando non ci si può trascinare dietro la società, ci si mette al suo rimorchio, come i cavalli del birocciaio, quando devono scendere un pendio; allora la macchina in movimento ci trascina, e anche questo è un modo di andare avanti. […] È questo i segreto dei grandi successi e anche di quelli meschini.”
E, dopo aver portato vari esempi di scrittori che assecondano lo spirito del tempo, conclude incitando l’amico alla lotta, una lotta dura e senza quartiere contro la meschinità dell’artista arreso allo spirito in questione:
“Ma noi non mettiamo a profitto nulla. Siamo soli. Soli come il Beduino nel deserto. Dobbiamo coprirci la faccia, avvolgerci nel mantello e gettarci a testa bassa nell’uragano sempre senza posa, sino all’ultima goccia di sangue, sino all’ultimo battito del cuore.”
Altri temi, legati a una sensibilità che si inserisce nel clima anticipatorio dell’avanguardia, troveremmo nell’epistolario flaubertiano. Ma ora è venuto il momento di tornare a Pound, lettore e critico di Joyce, e dell’impiego che egli fa dell’autore di Madame Bovary per interpretare il lavoro dell’amico. È dunque già recensendo The portrait of the Artist as a Young Man, uscito in volume nel ’17, che Pound si rifà a Flaubert a proposito del romanzo joyciano. Ma è un anno dopo con Ulysses, ancora incompleto, che il ricollegarsi al narratore francese diventa essenziale per la sua esegesi:
Joyce ha fatto ciò che Flaubert si mise a fare in Bouvard e Pécuchet, l’ha fatto meglio, più succintamente. Un’epitome.
Pound, infatti, predilige tra le opere di Flaubert proprio Bouvard et Pécuchet per la sua modernità di struttura e perché tratta un tema fondamentale, per una poetica di avanguardia che si oppone al common sense e, di conseguenza, alla bêtise contemporanea. Nel saggio su Joyce e l’Ulysses, che scrive in francese per il “Mercure de France” nel ’22, egli cita le opere più importanti di Flaubert, opere che ritiene di notevole valore, per arrivare però alla novità, che più lo coinvolge, di Bouvard et Pécuchet:
Bouvard et Pécuchet continua il pensiero e l’arte flaubertiana, ma non continua questa [delle opere precedenti] tradizione del romanzo o del racconto. Si può vedere “l’Enciclopédie en farce” che ha per sottotitolo: “Sconfitta del metodo scientifico”, come l’inaugurazione d’una forma nuova, una forma che non ha alcun precedente. Né Gargantua, né Don Quijote, né Tristam Shandy di Sterne ne avevano costituito l’archetipo.
Bouvard et Pécuchet è un romanzo non concluso per la morte dell’autore, avvenuta nel 1880, e pubblicato postumo l’anno dopo. Per gli stessi motivi per cui piace a Pound non fu altrettanto gradito alla critica contemporanea che, anzi, tese a limitarne decisamente il valore in rapporto alle altre opere flaubertiane. Ne possiamo avere un riscontro autorevole nell’importante Histoire de la littérature française di Gustave Lanson edita la prima volta nel 1885 e più volte ristampata e rivista. Il metodo di Lanson, che segnò un’epoca della critica letteraria francese la cui influenza durerà fino agli anni cinquanta/sessanta del novecento, aspira a una certa modernità di impostazione cercando di coniugare il positivismo di Taine a un’attenzione alla singolarità dei vari autori, sottratti in questo modo al determinismo storico-sociologico. D’altro canto è egli stesso a dichiarare il “conformismo” su cui si basa il suo gusto nella Prefazione datata 1884:
“[…] io non sono affatto preoccupato di essere nuovo né di fare delle scoperte; e, al contrario, non desidero niente più vivamente che di avere in generale riscontrato le idee che la maggioranza dei miei contemporanei possono avere alla lettura delle stesse opere”:
e il romanzo di Flaubert si basa proprio sulle idee correnti che lo scrittore critica mettendole in ridicolo. Ecco, dunque, il giudizio di Lanson:
Queste esperienze incessantemente rinnovate della imbecillità [bêtise] borghese diventano presto fastidiose e faticose. L’accumulazione di piccoli fatti, ciascuno isolatamente verisimili o veri, ha qualcosa di artificiale, di meccanico: questi buon’uomini sono caricature seccanti e tristi. È lì soprattutto che l’ironia si appesantisce fino alla crudeltà: precisamente perché Flaubert parte dal suo pregiudizio personale, è là che c’è la minor parte di verità oggettiva, e, sotto la piattezza realistica del dettaglio, c’è più fantasia arbitraria: questo studio non è che un vecchio paradosso romantico trattato col procedimento naturalistico.
È qui evidente come, in nome del sociologismo positivistico e della sua interpretazione di cosa sia la “verità oggettiva”, le idee correnti si vendicano del ridicolo banalmente conformistico di cui sono intrise e che Flaubert intende svelare. D’altro canto lo scrittore aveva ben chiaro quale sarebbe stato il destino dell’opera cui stava lavorando. È proprio dell’anno della morte, il 1880, una sua lettera a un’amica in cui, a proposito del romanzo cui sta lavorando e che non può sapere di non poter finire, scrive:
[Nel mio romanzo] la voluttà tiene tanto posto quanto in un libro di matematica. E nessun dramma, nessun intreccio, nessun ambiente interessante. L’ultimo capitolo si aggira (se un capitolo può aggirarsi) sulla pedagogia e sui principi della morale. E con ciò, vuol divertire! Se conoscessi qualcuno che volesse fare un libro con simili ingredienti, chiederei per lui Charenton.
Tra l’altro, e come è noto, Charenton, è l’ospedale per alienati mentali dove morì Sade certamente lo scrittore, e philosophe, che più odiò e si contrappose alla pretesa del senso comune e della morale filistea di giudicare, stendendo uno spesso velo di ipocrisia, le cose del mondo, soprattutto per ciò che riguarda quelle del sesso, e svelando quindi quale sia invece la realtà profonda, e dunque vera, delle cose stesse:
“Più che allo sciocco e all’ipocrita, [Sade] s’oppose all’onest’uomo, all’uomo normale, in un certo senso all’uomo che tutti noi siamo. Più che convincere egli ha voluto sfidare”:
così interpretò Bataille, probabilmente con rigorosa esattezza, il pensiero e l’opera del Marchese divino nell’Erotisme, pubblicato nel 1957. Nel prevedere il manicomio per sé, Flaubert sa bene immaginarsi quale sarà l’accoglienza riservata al suo romanzo: egli non poté constatarlo ma Pound, e noi ora, sì e l’aver esemplificato, attraverso il giudizio di un critico e storico della letteratura importante e propagatore di opinioni diffuse su quel testo, come Lanson, ci serve a comprendere quanto l’autore avesse ragione.