Cauto omaggio a Edoardo Sanguineti (Quinta parte)
di Gigi Livio
L’avanguardia, il tragico e il sublime.
Prima sezione.
ESTRAGONE — Cosa? VLADIMIRO — E se ci pentissimo? ESTRAGONE — Di cosa? VLADIMIRO — Be’… (Cerca). Non sarebbe proprio indispensabile scendere ai particolari. ESTRAGONE — Di esser nati? VLADIMIRO (scoppia in un gran risata, che subito soffoca, portandosi la mano al pube, col volto contratto) Proibito anche il riso. ESTRAGONE — Terribile sacrificio. VLADIMIRO — Si può solo sorridere. (Il suo viso si fende in un sorriso esagerato, che si cristallizza, dura qualche istante, poi di colpo si spegne) Non è la stessa cosa. Comunque…
Ho poste in esergo queste battute esemplari di En attendant Godot -inscenato al parigino Théâtre de Babylone nel gennaio del 1953- perché possono essere lette come un vero e proprio programma, nonché una vera e propria dichiarazione di poetica, atti l’uno e l’altra a rubricare la morte del tragico e a denunciare l’impossibilità della sua frequentazione nella scrittura drammatica e, in genere in tutta l’arte, dell’epoca moderna. Ma non solo: infatti il “terribile sacrificio” di Estragone intende chiarire definitivamente il fatto che anche la parodia del tragico può soltanto far sorridere nel particolare modo che subito vedremo e non ridere: terribile sacrificio, dunque, perché proprio quest’ultimo era stato lo scopo della parodia nelle epoche precedenti. E, pertanto, Vladimiro non ride ma si limita a sorridere di un sorriso però “esagerato, che si cristallizza, dura qualche istante, poi di colpo si spegne”: si tratta con tutta probabilità di una delle didascalie con cui l’autore intende “mettere in scena” ciò che egli definisce come riso “dianoetico”, che aveva già chiarito, fin dal tempo della guerra, nel romanzo Watt allora però non pubblicato ma edito soltanto, per la prima volta, e non sarà certo un caso, in quello stesso 1953:
Ah, ah, ah! […] Il mio riso, signor Watt. […] Di tutte le forme di riso che a rigor di termini non sono forme di riso ma di ululato, soltanto su tre penso che valga la pena di soffermarsi cioè l’amara, la vuota e la cupa. Esse corrispondono a successive, come dire successivi, suc…successive escoriazioni dell’intelletto, e il passaggio dall’una all’altra è il passaggio dalla minore alla maggiore, dalla inferiore alla superiore, dall’esterna all’interna, dalla grezza alla raffinata, dalla materia alla forma. Il riso che oggi è cupo una volta era vuoto, il riso che una volta era vuoto una volta era amaro. E il riso che una volta era amaro? Lacrime, signor Watt, lacrime.
Come si vede le varie forme di riso che Beckett limita a tre soltanto, “l’amara, la vuota e la cupa”, corrispondono a escoriazioni dell’intelletto che, escoriandosi appunto e dunque lacerandosi, passa “dalla minore alla maggiore, dall’esterna all’interna, dalla grezza alla raffinata, dalla materia alla forma” il che è a dire che le tre variazioni di riso elencate, e già escludendo tutte le altre naturalmente, comportano un raffinamento costante del motivo del riso che, infine, passa nell’ultima accezione, quella di “cupo”, dalla “materia”, il riso è il riso, alla “forma” e cioè a quel tipo di astrazione grazie a cui l’arte può ancora accennare al suo tendere verso la verità:
Amaro, vuoto e… ah, ah! cupo. Il riso amaro ride di ciò che non è buono, è il riso etico. Il riso vuoto ride di ciò che non è vero, è il riso intellettuale. Non buono! Non vero! Bene, bene. Ma il riso cupo è il riso dianoetico, giù per il grugno… Ah!… così. È il riso dei risi, il risus purus, il riso che ride del riso, colui che contempla che saluta lo scherzo più nobile, in una parola il riso che ride — silenzio, prego — di ciò che è infelice.
Ecco, allora, che a questo punto si chiarisce fino in fondo il significato di quella didascalia incentrata sul riso di Vladimiro che abbiamo appena letto: si tratta, dunque, di un riso “dianoetico”. Malgrado però Beckett, in Watt, espliciti ulteriormente il fatto che si tratta del “risus purus”, del “riso che ride del riso”, del riso di “colui che contempla” e infine, e per racchiudere tutte le declinazioni precedenti, del “riso che ride — silenzio, prego — di ciò che è infelice”, l’aggettivo iperqualificativo “dianoetico” può sembrare di significato non immediatamente perspicuo. Dianoetico, a rigore, in lingua greca antica significa, in senso generico, “pensiero”: questa accezione segnala una strada che non percorre però fino in fondo. Ma se teniamo conto poi che Aristotele, nell’Etica nicomachea, con questo termine indica le virtù che si oppongono a quelle etiche che servono a sottomettere la passione alla ragione mentre le prime, le dianoetiche cioè, sono le virtù proprie dell’intelletto e cioè la saggezza, che è virtù pratica, la sofìa, la sapienza, la scienza delle cose più nobili e “ultime”, già siamo vicini a comprendere ciò che intenda Vladimiro nell’opporre alla “gran risata” di Estragone il suo “sorriso esagerato, che si cristallizza, dura qualche istante, poi di colpo si spegne”, una smorfia di fatto, un riso che diviene sorriso bloccato, gelificato e che, di colpo, come sgomento di fronte all’impossibilità anche soltanto di ridere ormai del problema ontologico dell’uomo di cui già, nel sesto secolo avanti Cristo, si doleva Teognide, cioè dell’esser nati senza averlo chiesto. Nel mondo dell’alienazione totale si può soltanto più sorridere, ma in quel modo stereotipato, proprio del clown, che ride, appunto, del riso e del dolore umano sgomentandosi e sgomentando lo spettatore nello stesso tempo.
E se ora, rifacendoci ancora alle probabili fonti di ispirazione di Beckett, teniamo conto che gli stoici tendono a ricondurre il dianoetico alla dìanoia e cioè alla conoscenza razionale, ci rendiamo conto che al riconoscimento della impossibilità del tragico si associa anche lo stoicismo beckettiano che metterà in bocca a Clov e Hamm, in Fin de partie, quattro anni dopo, le seguenti battute:
CLOV — Ci sono tante cose terribili.
HAMM — No, no, non ce ne sono più tante.
E qui l’epitaffio sulla tomba del tragico, diventa ancora più netto e pregnante.
Ho usato prima, per cercare di andare al senso profondo del significato del riso dianoetico, il termine clown. Ecco ora come Adorno interpreta il clownesco nella scrittura drammatica di Beckett:
La psicanalisi spiega l’umorismo dei clowns come una regressione a un gradino ontogenetico estremamente primitivo: ed ecco che la regressiva commedia beckettiana discende fino a quel gradino. Ma la risata cui essa induce dovrebbe soffocare i ridenti. Ecco che cosa è diventato l’umorismo, invecchiato come mediatore estetico, divenuto come tale ripugnante, privo ormai di ogni canone cui attenersi, privo di un luogo di conciliazione dove sarebbe possibile la risata, senza che ci sia qualcosa di innocente sospeso tra cielo e terra, che possa essere oggetto di riso.
Per comprendere meglio la citazione adorniana, bisogna innanzi tutto tenere conto che la locuzione in cui si accenna alla regressività del testo beckettiano non deve trarre in inganno: non si tratta di un regredire alle origini ma, piuttosto, di una “regressione” nel senso genericamente psicanalitico di ritorno da una stadio psichico più complesso a uno più elementare; il che comporta, sempre in quello che credo intendere del linguaggio del filosofo francofortese, anche una regressione dell’io. D’altro canto Adorno si era già cautelato dal possibile equivoco soltanto poche pagine prima dello stesso saggio con questa affermazione:
Solo in silenzio si può pronunciare il nome della sciagura. Nell’orrore dell’ultima sventura si accende l’orrore del tutto: ma solo in esso, e non nel rapporto con le origini. Il nome generale della specie “uomo” non si adatta al paesaggio linguistico beckettiano: per lui l’uomo è ormai solo quello che è diventato.
C’è, in quest’ultimo assunto, una rivendicazione forte e vibrata della storicità della scrittura di Beckett. Il concetto viene ulteriormente rafforzato, e con vivacità particolare, anche dovuta alla situazione, in un dibattito televisivo del 1968 -e dunque probabilmente posteriore alla stesura di Tentativo di capire il Finale di partita, pubblicato postumo, ma di cui Adorno aveva letto alcuni brani già fin dal ’61 a Francoforte sul Meno. Il filosofo francofortese sta ora parlando dei due tronconi umani, Nagg e Nell genitori di Hamm, imprigionati in bidoni della spazzatura, uno accanto all’altro, in primo piano a sinistra del palcoscenico, così la didascalia, e mette a fuoco la presenza, in questa pièce, di particolare e universale contemporaneamente:
[…] è proprio grazie alla riduzione dei personaggi in questi due miserabili individui, che all’apparenza non sembrano più disporre di nulla, e altro non sono che frammenti di esistenza, che traspare qualcosa di universale. E tuttavia, a mio parere, è proprio qui che subentra la dimensione storica della pièce.
È fondamentale per il discorso che sto cercando di sviluppare in queste pagine l’insistenza di Adorno sulla storicità della scrittura drammatica di Beckett. In primo luogo perché
l’avanguardia non può essere che storica, necessariamente ancorata al proprio presente dal momento che solo così può opporsi agli eventi che lo determinano
a partire dal momento in cui la rivoluzione industriale cambia nettamente i rapporti degli uomini con il prodotto del proprio lavoro e, di conseguenza e di necessità insieme, quelli tra uomo e uomo. In secondo luogo perché è fondamentale chiarire come mai queste opere ci dicono ancora tanto del nostro oggi per cui io ho potuto rifarmi a quelle di Poe, di Baudelaire, di Flaubert e di altri del primo o del secondo ottocento considerandole ancora vive e operanti nel momento in cui scrivo. Questo secondo punto è oggetto di un’interessante osservazione del giovane Lukács, contenuta in un libro cui lavora dal 1906, quando è ancora studente all’università di Budapest, e che pubblicherà nella capitale ungherese nel 1911, Il dramma moderno. In questo studio il giovane filosofo e sociologo esamina a fondo l’importanza della forma nell’opera d’arte e attribuisce a questo elemento essenziale dell’opera l’efficacia attuale dei lavori del passato:
È possibile che la Weltanschauung sia contenutisticamente superata, invecchiata, ma sul piano formale […] essa rimane necessariamente identica. È proprio questa possibilità ultima che da sola spiega altresì l’effetto ancora durevole di drammi tanto remoti; la problematica che accompagnò la loro nascita non ne intacca infatti minimamente l’efficacia.
Se teniamo conto di queste parole, la precisione del dire adorniano si chiarisce ancora meglio e assume una maggiore efficacia: infatti, il filosofo francofortese, mette in evidenza proprio un fatto formale e cioè la riduzione di due personaggi teatrali a tronconi umani e, per di più affogati in due bidoni dell’immondizia e quindi impossibilitati a muoversi anche soltanto in modo marionettistico e clownesco come ancora si muovono Estragone e Vladimiro.
Ed è questa disumanizzazione dell’uomo, che non viene evidenziata soltanto dalla riduzione dei personaggi a monconi umani ormai condannati all’immobilità, ma anche da un altro fondamentale aspetto formale e cioè quello che riguarda lo stile del drammaturgo perché è lì che si condensa, che precipita, se si vuole usare il linguaggio della chimica, e, per così dire, si raggruma lo spirito etico- politico del testo: infatti, in questa pièce in particolare, i personaggi parlano con frasi smozzicate che intrecciano nonsense con questioni che, al contrario, senso ce l’hanno ma che, grazie al modo con cui Beckett tratta il materiale verbale del dialogo teatrale, sembrano alludere soltanto a un senso lontano, lontananza metaforizzata nella vecchiaia dei due, ormai non ripetibile, certo, ma di fatto irrecuperabile in quanto divenuto totalmente incomprensibile nel presente.
Come succede, per ricorre a un esempio molto evidente, in quelli che possiamo definire i “dialoghi erotici” tra Nagg e Nell senza però dimenticare che tutto il lavoro risulta, da questo punto di vista, esemplare. Ecco, dunque:
(Nagg picchia sul coperchio dell’altro bidone. Pausa. Picchia più forte. Il coperchio si alza, appaiono le mani di Nell, aggrappate al bordo, poi emerge la testa. Cuffia di pizzo. Faccia molto bianca.)
NELL — Che volevi, cocco? (Pausa). È per scopare?
NAGG — Dormivi?
NELL — Oh no!
NAGG — Bacetto.
NELL — Non si può.
NAGG — Proviamo.
(Le teste si protendono faticosamente l’una verso l’altra, non riescono a toccarsi, si scostano)
NELL — Perché questa commedia tutti i santi giorni?
(Pausa)
NAGG — Ho perso il mio dente.
NELL — Quando è successo?
NAGG — Ieri ce l’avevo.
NELL — (elegiaca) Ah, ieri!
Qui, al prorompente grottesco così efficacemente condensato nei due tronconi umani che pretenderebbero ancora di scopare e darsi bacetti pur nell’evidente impossibilità di farlo, vediamo proprio precipitare nello stile, ancora una volta ricorrendo al linguaggio della chimica, quel senso desolato di deserto totale insieme del sentimento e della ragione, quell’impossibilità di vivere ancora un rapporto sessuale “umano”: in queste brevi frasi, che alludono alla lingua parlata senza imitarla affatto, ma semmai denunciando la miseria di chi pretende di percorrere ancora questa strada, si condensa altresì l’incomprensibilità di ciò che un tempo, forse, del tutto incomprensibile non era: qui non c’è malinconia, ma soltanto desolazione.
Ho troncato la citazione su una battuta chiave di Nell: “Ah, ieri!” che, a evitare ogni equivoco di interpretazione, Beckett fa precedere da una didascalia precisa e netta: “(elegiaca)”. Il ricordo estatico del passato, quando pochi minuti prima Clov ha già fatto un’osservazione che esclude seccamente qualsiasi mutamento nella vita dell’uomo del nostro tempo, “Tutta la vita le stesse domande, le stesse risposte”, corollario di ciò che ha appena affermato, “Possono finire”, in risposta o, meglio, in una specie di commento al dire di Hamm, “Non ne hai abbastanza, tu? […] Di questo… di questa… cosa”, porta alla luce il tema portante di tutto il lavoro, e se pure in modo diverso di volta in volta, di tutti i lavori di Beckett, produce una stonatura nel tessuto verbale delle battute stridente e sorprendentemente insieme secca e dura nel denunciare il fatto che nella vita di ciascuna persona che vive nell’epoca dei sentimenti amministrati possa essere ancora possibile vagheggiare il passato come un tempo migliore del presente visto che tutto si ripete sempre nello stesso modo: è l’eterno ritorno del sempre uguale, appunto, su cui mi soffermerò tra poco.
Ma, se torniamo ora alla citazione di Lukács per esperirla fino in fondo, ci accorgiamo che c’è un tema, una “problematica” che non muta nel tempo, non è né “superato” né “invecchiato” ed è quello che riguarda lo stretto congiungimento della nascita con la morte:
l’uomo, che non ha chiesto di nascere è, per contro, costretto a morire.
Si sa, ed è facile capirne il motivo, che questo problema tormenta l’umanità da sempre e si sa anche che gli artisti hanno in tutti i tempi intessuto la propria arte della riflessione su questo nodo, tragico di per sé, dell’esistenza: in questo caso l’attenzione all’elaborazione formale è ancora più determinante, anzi lo è esclusivamente, al fine di comprendere il significato profondo che questa “problematica” assume nel vario scorrere del tempo, delle diverse culture basate sulle differenti situazioni socio-economiche che condizionano, pur senza determinarle naturalmente, il mondo in cui l’uomo vive e opera sempre però con la consapevolezza della fine ineludibile della vita.
Già Teognide nel sesto secolo precedente l’era volgare, lo abbiamo accennato poco sopra, afferma in certi suoi versi che la peggior cosa per l’uomo è l’essere nato e che, una volta nato, la migliore sarebbe per lui morire subito e essere sepolto sotto “un gran mucchio di terra ammassata”, dove, almeno alla sensibilità moderna, quel cumulo di terra allegorizzerebbe la ricerca disperata di un oblio totale e assoluto per nascondere l’obbrobrio di essere nati. Anche perché l’essere venuti al mondo comporta di necessità l’incombere della vecchiezza, anticamera della morte: e già Mimnermo, ancor prima di Teognide se pure non di molto, intesse i suoi versi elegiaci dell’orrore per quel momento della vita:
“Ma come varca la stagione il suo confine, allora essere morti è meglio che la vita” e conclude la sua breve lirica Siamo come le foglie nate alla stagione florida con un verso certamente non equivocabile: “Non c’è uomo/ che da Zeus non riceva guai su guai”.
Più tardi, e non senza che altri scrittori dell’antica Grecia abbiano affrontato il terribile nodo, ormai in epoca “tragica”, Pindaro, contemporaneo di Eschilo, nella sua ottava Pitica scrive versi destinati a essere ripresi da Shakespeare, nel concetto anche se non letteralmente, che li rilancia con decisione verso la concezione moderna della questione, là dove l’apparente essenza ontologica dell’inutilità della vita, si colora chiaramente di storia. Ma ecco, prima, Pindaro:
“Esseri effimeri: che cosa è ciascuno di noi, che cosa non è? L’uomo è il sogno di un’ombra”.
E, dal canto suo, Shakespeare:
“La vita è solo un’ombra che cammina/ Un povero attore che si dimena e va pavoneggiandosi/ sulla scena del mondo la sua ora/ e poi non se ne parla più/ È la favola raccontata da un idiota/ tutta strepito e furia/ che non vuol dire niente”,
dove la vita assimilata a un’ombra segna una forte ripresa del dettato pindarico anche se viene lasciato, almeno in parte, cadere il termine chiave per il lirico greco, quello di “sogno”, strettamente legato concettualmente a “effimero”, per cui la vita è sogno di un’ombra: e il dire pindarico potrebbe apparire ancora più pregnante, dal punto di vista della riflessione sull’evanescenza della vita umana di quello di Shakespeare non fosse che quest’ultimo fa seguire al monologo famosissimo un’ulteriore approfondimento del tema:
“Io comincio ad essere stanco del sole, e vorrei che la fabbrica del mondo fosse distrutta… Si suoni la campana d’allarme! — Soffia o vento: vieni, o naufragio! Voglio almeno morire con le mie armi indosso”
e, come è necessario –infatti Macbeth è un “cane d’inferno (hell-hund)”, un “infame sanguinario (bloodier villain)”, un “essere mostruoso (rare monster)”- l’usurpatore sanguinario deve morire perché si possa ricomporre, se pur fittiziamente, l’ordine. Mi pare sia importante chiarire quest’ultimo avverbio:
“[q]uel che conta […] non è l’esito dell’azione, ma l’esperienza. […] La vera catarsi non sta nella fanfara finale che sanziona il ritorno dell’ordine, ma nell’immergersi nell’azione scenica, nello spettacolo, che dura e continua oltre la sua conclusione formale, e si ripropone continuamente come processo vitale illimitato nel tempo”, così Giorgio Melchiori.
E se è possibile chiosare, a nostra volta, i termini usati da quel maestro dell’anglistica che fu Melchiori, proporrei di leggere “catarsi” non tanto nel senso di “purificazione” ma piuttosto in quello di spinta all’approfondimento etico delle contraddizioni dell’uomo; perché, certamente Macbeth, il generale traditore e assassino del re di Scozia, è tutto ciò che di lui dice Macduff, generale anch’egli ma fedele al re e alla sua discendenza; è però anche molto altro, un concentrato, se così si può dire, dei vizi e delle virtù umane, ed è contraddittorio come tutti gli uomini: la spinta etica si coniuga, allora, strettamente con l’arte di Shakespeare che, in questa tragedia, brilla di luce incomparabile. È ancora Melchiori che ci fornisce la chiave per valutare, e gustare fino in fondo, questa grandezza artistica:
“Con Macbeth […] è pienamente maturato il linguaggio della tragedia, lontano dall’aulico quanto dal prezioso, concreto e pregnante, organizzato su un serrato tessuto di immagini in funzione non già decorativa, ma vigorosamente dialettica”;
ed ecco la conclusione: “La chiave di lettura della tragedia, insomma, è davvero fornita dal coro iniziale delle streghe: «Bello è il brutto e brutto il bello» [“Fair is foul, and foul is fair”]”:
dove, col riscatto dialettico del brutto, le porte dell’arte moderna veramente si spalancano. Come, per altro, si evince anche dal lavoro di revisione cui Carmelo Bene, autore della traduzione della prima parte del monologo di Macbeth, sottopone il testo: e se quella prima parte, che potremmo rubricare come il “monologo dell’ombra”, porta in luce la carica esistenziale della vicenda, secondo la poetica esplicita dell’attore-regista-scrittore di quel periodo della sua storia artistica, la seconda parte di questo monologo, che ho già riportata, chiude definitivamente in quella chiave l’opera tutta sia quella di Sakespeare che quella di Bene. Sarà dunque opportuno citare dalla traduzione di quest’ultimo:
“Vorrei che l’universo sprofondasse/ Allarmi Tutti Voi Soffiate Venti/ Tu vieni Annientamento Incomincio/ a essere stanco/ del sole”
non senza che “brutto è bello bello è brutto”, proprio così in corsivo, si proponga in apertura di “libretto”, questa la definizione dell’attore per la sua riduzione del testo scespiriano, come una dichiarazione netta di poetica; e il seguito procede sulla stessa linea stilistico-ideologica poiché al verso appena citato segue immediatamente quest’altro: “Nebbia Nebbia sopra tutto”, dove quello originale risulta, invece, più articolato in termini realistici: “Libriamoci per la nebbia e l’aer corrotto [Hover through the fog and filthy air]”: nella modernità, di cui l’avanguardia è figlia e (cattiva) coscienza insieme, è la Nebbia, la Nebbia che è sopra tutto e che accieca l’uomo, perso nel labirinto della sua coscienza incerta su qualsiasi cosa e nell’estetica altrettanto incerta dove il brutto è bello ed è bello il brutto sconvolgendo così l’artista che, tanto come uomo che come elaboratore di stile, non può più contare su certezza alcuna. E, infatti, nel “MOV.4”, e siamo ancora nella prima parte del “libretto”, è proprio Macbeth a appropriarsi del motivo estetico e linguistico del tutto a modo suo, cioè di Bene, commentandolo: “Bello e brutto così mai visto un giorno” dove la rivendicazione della novità sfolgorante, mai visto!, nelle intenzioni dell’autore accomuna Shakespeare a sé: “Per fare Shakespeare bisogna essere Shakespeare” aveva scritto diversi anni prima ben conscio, avendolo appreso da Benjamin, che
[l]’oggetto storico non si limita […] a esporre “vaghe analogie con l’attualità”, ma viceversa esso “si costituisce nel preciso compito dialettico che l’attualità è chiamata ad assolvere”: quello di riconsegnare possibilità all’accaduto per compiere l’incompiuto.
Sappiamo benissimo che “compiere l’incompiuto” non è spettato a Carmelo Bene e a nessun altro artista dell’epoca in corso, ma è nel tendere con spasimo a quel risultato che si svela, e si può misurare, la grandezza dell’artista mentre, per converso, quando questa esasperata tensione non è presente nell’opera ci troviamo di fronte al piattume conformistico del sempre uguale che denuncia la miseria dell’arte amministrata tipica del nostro tempo.
Per tornare ora a quello che ho definito il momento ontologico del tragico, noi vediamo che quasi quattrocento anni fa la tragedia di Macbeth si poteva ancora concludere con la fanfara finale che segna trionfante il ritorno dell’ordine: che poi questo ritorno, come abbiamo visto, sia falso e fittizio non vuol dire che nello scritto scespiriano non ci sia anche se, probabilmente, quel tema rassicurante è dettato dal desiderio dei committenti dal momento che gli spettatori vogliono che l’ordine alla fine trionfi e si ricomponga la vita ‘normale’ con i suoi riti e miti rasserenanti e rassicuranti proprio nel ritorno del sempre uguale. Qualcosa del genere succedeva anche nella Pitica pindarica di cui ho già riportato due versi; infatti a quelli citati seguono immediatamente quest’altri
“Ma quando gli dei lo [l’uomo] illuminano, viene circonfuso da un brillante sfavillio, e la sua esistenza è dolce”
che restituiscono la speranza e la dolcezza a un uomo, che immediatamente prima il poeta ha definito “sogno d’un’ombra”, perché un dio c’è ancora e può ancora donare vita gradevole e serena; d’altro canto Pindaro è anche colui che
“celebrava i principi fondamentali dell’etica aristocratica in quegli stessi anni nei quali il suo coetaneo Eschilo portava alla sua piena maturazione il nuovo genere letterario della tragedia” e proprio allora quell’etica “s’avviava inesorabilmente al declino”,
come scrive lo storico della letteratura greca che ha tradotto e commentato i versi citati: come ben si vede, la modernità è ancora lontana.
Però, all’incirca un secolo dopo Pindaro, Sofocle, quasi novantenne, affronta il problema in modo più articolato e profondo, vicino semmai al sentire dell’antico Teognide piuttosto che a quello del recente Pindaro. L’Edipo a Colono, composto tra il 407 e il 406, anno della morte dell’autore, e considerato unanimemente come il suo testamento artistico, affronta il problema della vecchiaia e della morte di Edipo. Nel secondo stasimo, il coro commenta lo stato miserabile dell’eroe vecchio e mendico:
Non nascere è la cosa migliore. O forse, appena arriviamo alla luce, la sorte da auspicare immediatamente dopo è quella di ritornare il più in fretta possibile là di dove siamo venuti.
Infatti quando la prima età cessa di rallegrarti con la sua dolce incoscienza, c’è qualche dolore che non ti tocca? c’è una sofferenza che manca al tuo conto?
Assassinii, discordie, rivalità, scontri — invidia soprattutto! E infine, come ultimo premio, la vecchiezza esecrabile, l’impotente, la solitaria e scontrosa, la nemica vecchiezza in cui si raccoglie e condensa il male di ogni male.
Circa quarant’anni prima, già l’Edipo re si chiudeva con commenti, ancora una volta del coro, che apriranno la strada a ciò che lo stesso coro affermerà a proposito dello stato miserevole del vecchio Edipo:
O abitanti di Tebe, la mia patria, voi lo vedete, questo Piedone,
quello che sapeva i famosi enigmi, e che era un uomo potente,e non c’era nessuno, tra i cittadini, che non lo guardava con l’invidia:
in quale marea di terribile tempesta è precipitato!
Allora, uno che è mortale, nessuno deve dirlo, che è felice,
prima di averlo visto, quel suo ultimo giorno, prima che ha passato
il termine della sua vita, e che non ha patito niente di doloroso.
La traduzione di Sanguineti, qui riportata, serve a mettere in luce come quest’impostazione di discorso, che è quella ben nota dell’uomo di fronte al limite estremo e, per ciò che riguarda l’Edipo a Colono, della vecchiezza che annuncia nel modo peggiore possibile l’approssimarsi di questo limite, unita certamente all’incertezza e alla variabilità della sorte, è utile a chiarire, dicevo, il punto dove l’apparente problema eterno, che è eterno soltanto come fatto in sé, si storicizza nel modo in cui il trageda lo affronta: in confronto ai versi così esemplari dell’antico poeta elegiaco, che, almeno per ciò che si sa, esprime per primo il disincanto dell’uomo di fronte alla futilità della vita
–“se non dev’essere ora, sarà più tardi; se non dev’esser più tardi, sarà ora, e se non è ora, sarà pure una volta o l’altra” dirà, due millenni più tardi, il principe Amleto-,
la vicenda di Edipo (che Sanguineti traduce alla lettera Piedone per i motivi filologici che servono al traduttore per mettere in rilievo l’intenzione di restituire al testo la sua impostazione “sopra un codice già dato” e cioè quello che egli definisce l’oracolese) si colora di storia e di storia dell’inferno che l’uomo, non certo per sua scelta, nutre nelle profondità insondabili della sua psiche. E, nel contempo, Sofocle mette in discussione la struttura della famiglia patriarcale, tutta storica e storicamente patita, attraverso lo scontro tra il destino e la volontà umana:
“[…] il pensiero religioso non costituisce più da solo, come in Eschilo, la trama del poema drammatico. La maledizione divina rimane la morale, ma non è più l’unica risorsa del meccanismo del dramma. E questo meccanismo, che non è più quello lirico, scopre la legge sua propria” che è poi quella della drammaticità che richiede più personaggi per inverare la sua necessità basata sul “gusto della riflessione morale, dell’analisi psicologica e [sul] gusto del discorso, e cioè della discussione e del dibattito”.
A questo punto, e certo non per caso ma pour cause, Sofocle introduce per primo il tritagonista, il terzo personaggio che non sarebbe servito, almeno fino a quel tempo, all’essenzialità mitico-religiosa dell’impianto della tragedia eschilea anche se poi, vista l’innovazione del più giovane collega, nell’Orestiade lo stesso primo grande trageda adotterà l’innovazione sofoclea.
Ecco, dunque, che il problema eterno dell’essere effimero dell’uomo si colora di storia nel momento in cui, sulla base di una morale tutta umana, questi poeti greci augurano agli altri di morire appena nati, per non dover affrontare, come invece loro stanno facendo, non avendo potuto evitare questo funesto evento, l’esecrabile vecchiezza, nemica all’uomo. Per quest’ultimo non è ancora giunto il momento di credere in una sopravvivenza concreta dopo la morte, concezione che farà parte invece del monoteismo cristiano dove l’estremo limite umano assumerà significazioni diverse mutando la forma dell’estrinsecazione del sentire tragico nelle opere dell’arte.