Cauto omaggio a Edoardo Sanguineti (seconda parte)
di Gigi Livio
L’avanguardia e la comunicazione.
Ma l’artista non è come tutti gli altri uomini. Certo, deve pur mangiare, ma questa non è la sua priorità mentre opera, a differenza di ciò cui tende il filisteo che non solo vuole mangiare ma che sogna anche di farlo a base di caviale e champagne e in piatti d’argento.
Ma perché l’artista d’avanguardia, visto che il guadagno non è la sua priorità e che è così refrattario al suo tempo, al mercato del suo tempo, che ha reso l’opera d’arte una “cosa” come tutte le altre, è poi tanto attento al mercato? Sembra, appunto, un’aporia, una contraddizione in qualche modo insanabile. Sarebbe facile sciogliere l’antitesi dicendo che questa è la dura realtà e che, da quando esiste il mercato, sfuggirgli è impossibile, ma ciò risulta nient’altro che un escamotage poiché si tratta di un’affermazione vera e non vera allo stesso tempo.
È vera perché nulla sfugge al mercato anche se vi è un rifiuto esplicito dello stesso come dimostrano i patetici (e pateticamente risibili) tentativi delle anime belle alla ricerca dell’autenticità nel mondo del totalmente inautentico. Non è dato, perché storicamente impossibile, attraversare la Palus Putredinis mantenendo le mani e le altre parti del corpo nette; il fango è pertinace. Così non è dato usare la lingua di questo tempo, quello della modernità, senza compromettersi con l’esistente poiché è nella lingua stessa che si condensa l’orrore della realtà di cui la prima porta tracce indelebili della Palus Putredinis che è poi nient’altro della
“stessa realtà effettuale manipolata dal mercato, dove tutto è merce e dove nulla può esistere se non come merce”.
Ho citato Sanguineti, interpretato da Erminio Risso cui dobbiamo un fondamentale commento a Laborintus, il poemetto sanguinetiano pubblicato nel 1956, che fin dal primo verso inscrive appunto la Palude Putrida come luogo da cui l’uomo moderno, e tanto più quello del dopo Hiroshima e Nagasaki, non può fuggire e, al contrario, è costretto a lì vivere e vegetare.
Ho scritto “vegetare” e, poiché il termine è ancor meno neutro di quanto non lo siano le altre parole, debbo pur renderne conto al lettore. Nulla di più appropriato per chiarire “vegetare”, e il senso in cui lo uso accostandolo a “vivere”, che ricorrere alla poetica su cui si basa un testo di Beckett, Fin de partie, molto probabilmente il capolavoro per il teatro dello scrittore irlandese, pubblicato la prima volta nel 1957. E poiché qui sto parlando di comunicazione e dell’apparente aporia dell’avanguardia per ciò che riguarda questo nodo problematico, affrontiamo subito il problema, che si accampa come un punto critico inevitabile per qualsiasi artista appartenente a quella temperie, appoggiandoci a un altro capolavoro, questa volta di filosofia e critica, e cioè Tentativo di capire il “Finale di partita” di Adorno che è del 1961.
Il discorso adorniano sulla comunicazione prende le mosse da una citazione tratta dal “testo teatrale”, come lo definisce lo stesso Beckett in una lettera al regista Schneider e come lo citeremo qui risultando tutti gli altri modi di rubricarlo inadeguati e approssimativi compreso quello di “dramma” che sembrerebbe il meno impertinente. D’altro canto è l’autore stesso a rifiutare per la sua opera quest’ultimo possibile modo di definirla, secondo una testimonianza di Roger Blin regista e interprete della prima parigina:
“Beckett mi diceva: ‘Non c’è affatto dramma in Finale di partita, da quando Clov dice la sua prima battuta non capita più niente, c’è un movimento vago, ci sono tante parole, ma non c’è dramma’”.
Ecco le battute riportate nel saggio adorniano di cui ho detto:
Clov. Fa’ questo, fa’ quello, e io lo faccio. Non mi rifiuto mai. Perché?
Hamm. Non puoi.
Clov. Tra poco non lo farò più.
Hamm. Non potrai più. (Clov esce). Ah, la gente, la gente, bisogna sempre spiegargli tutto.
L’esegesi di Adorno si basa su un ragionamento, che parte da queste scarne battute, complesso, come non può non essere, e non breve: cercherò dunque di sintetizzarlo usando lacerti del suo saggio. Il concetto contenuto nell’ultima battuta di Hamm offre al filosofo-critico lo spunto per aprire il discorso sulla comunicazione nel nostro mondo: “L’idea che ‘alla gente bisogna sempre spiegargli tutto’ viene inculcata ogni giorno da milioni di superiori a milioni di subalterni” e, pertanto, il nonsense di Hamm, che contraddice il suo ordine impartito al sedicente servo Clov, che lo conferma (“e io lo faccio”), mette in luce l’impossibilità della comunicazione:
“[l]a comunicazione, legge universale della convenzione, annuncia che non è più possibile nessuna comunicazione”.
Immediatamente segue una considerazione che mette in campo un elemento base per l’arte, su cui sarà importante soffermarci più avanti, e cioè quello di realismo:
“L’assurdità di ogni tentativo di parlare non è direttamente rivolta contro il realismo, ma si sviluppa da questo”; infatti: “il linguaggio comunicativo postula, già solo con la sua forma sintattica, con la logicità, con le deduzioni e i concetti ben saldi, la tesi della ragione sufficiente”.
Ma questa, oggi, rimane un puro miraggio perché la ratio stessa è nata dall’interesse all’autoconservazione, e per questo ogni razionalizzazione coartata sta a dimostrarle la sua irrazionalità. […] A Beckett non resta che metterla in risalto, trattarla come un principio selettivo ed ecco ripristinato il realismo, spogliato dall’apparenza della coerenza razionale.
E, per concludere questo passo dell’interpretazione di Adorno del testo beckettiano, un’ultima citazione che riguarda il meccanismo di domanda e risposta nel mondo amministrato:
Nella domanda è già implicita la risposta precostituita, il che condanna il gioco di domanda e risposta all’inservibile tentativo, illusorio nella sua nullità, di celare con il gesto linguistico della libertà l’illibertà del linguaggio informativo.
La mancanza di libertà per l’artista e, di conseguenza, per tutti è il tarlo che rode chi intende fare arte o critica o anche solo pensare nell’epoca nostra dove la libertà si rivela come un puro flatus vocis.
Pessimismo e realismo.
Di fronte a affermazioni come quella con cui ho chiuso il paragrafo precedente chiunque frequenti il pensiero conformistico ha certo facilità a definirle pessimistiche, anzi, radicalmente pessimistiche. Ma, poiché “pessimismo” non è un termine e un concetto assoluto bensì una parola che ha senso soltanto in rapporto al suo opposto e cioè all’“ottimismo”, ricorriamo ora a Gramsci, e a ciò che possiamo leggere nei suoi quaderni scritti in carcere, per cercare di chiarire ciò che qui intendiamo:
È da osservare che l’ottimismo non è altro, molto spesso, che un modo di difendere la propria pigrizia, le proprie irresponsabilità, la volontà di non far nulla. È anche una forma di fatalismo e di meccanicismo. Si conta sui fattori estranei alla propria volontà ed operosità, li si esalta, pare che si bruci di un sacro entusiasmo. E l’entusiasmo non è che esteriore adorazione di feticci.
In queste poche righe, stese nel 1930, Gramsci affronta un problema fondamentale per il nostro discorso, e non solo per questo certamente, e cioè quale sia il significato vero dell’ottimismo. Che è poi quello di avallare l’esistente entusiasmandosi per qualcosa di subìto come se si fosse stati noi a crearlo, o anche solo a favorirlo, attraverso determinate situazioni dove, invece, la nostra “volontà ed operosità” non c’entrano per nulla e con l’ottimismo esaltiamo, esteriormente adorandoli, feticci assai utili al mantenimento dello status quo.
Ma nei Quaderni troviamo di più, sempre a proposito dell’argomento di cui ci stiamo occupando, e cioè l’accostamento esplicito tra pessimismo e realismo che è poi ciò che intenderei dimostrare con una postilla fondamentale, che qui anticipo anche se necessiterà di ragionamento non breve per essere dimostrata, e cioè che l’unica forma di realismo possibile in arte, almeno nel mondo dominato dal grande mercato borghese, è quello cui tendono le opere d’avanguardia.
Ma ecco, a proposito dell’identificazione di pessimismo con realismo, le parole di Gramsci contenute in un appunto risalente al 1930–1932 e riguardante un paragone tra il pensiero di Machiavelli e quello di Guicciardini:
Nella “natura umana” del Machiavelli è compreso l’“uomo europeo” e questo uomo in Francia e in Ispagna ha effettualmente superato la fase feudale [disgregata] nella monarchia assoluta: dunque non è la “natura umana” che si oppone a che in Italia sorga una monarchia assoluta unitaria, ma condizioni transitorie che la volontà può superare. Il Machiavelli è “pessimista” (o meglio “realista”) nel considerare gli uomini e i moventi del loro operare; il Guicciardini non è pessimista ma scettico e gretto.
Ovviamente lasciamo stare la questione Machiavelli-Guicciardini che non riguarda l’argomento di queste note dove invece è importante mettere in rilievo come Gramsci intenda chiarire il suo giudizio conclusivo su un ragionamento basato sulle condizioni storiche in cui agivano i due pensatori. Ho dovuto scorciare questo ragionamento, per evidenti, ragioni di spazio, ma mi pare che, nella sua parte rimanente, sia sufficiente per comprendere il pensiero di Gramsci sul nostro tema.
Veniamo però ora a ciò che interessa direttamente al nostro discorso e cioè l’accostamento tra pessimismo e realismo che costituisce il cuore e il nucleo fondante di ciò che intendo dimostrare. “Pessimismo” e “ottimismo” sono termini moderni, ambedue legati alla discussione sulla Teodicea di Leibniz, pubblicata nel 1710, per cui il mondo esistente è “il migliore dei mondi possibili”; la loro opposizione totale o relativa ha dato vita a una profluvie di discussioni di carattere filosofico e ha interessato di sé le opere letterarie nelle loro varie articolazioni. Ora, lasciando da parte la discussione strettamente filosofica che in questa sede, e condotta da parte mia, sarebbe poco pertinente o addirittura impertinente (quest’ultimo termine si riferisce al precedente “strettamente”, come spero sia chiaro) e affrontando invece la discussione dal punto di vista dell’estetica, e dunque dell’arte e della sua storia, pur riconoscendo che ben più di un filo, per niente sottile, lega l’una cosa all’altra, mi pare evidente che noi italiani, e non solo noi, ci imbatteremo ineluttabilmente nella profonda meditazione filosofica, se pure non sistematica, posta alla base della poetica che porta alla meravigliosa elaborazione estetica della poesia di Leopardi. E, anche in questo caso, e dato l’assunto sintetizzato fin dal titolo di queste nostre note, troveremo in un saggio leopardiano di Sanguineti il nostro filo di Arianna perché se l’elogio è cauto -più avanti chiarirò al lettore il motivo della mia cautezza- sempre di elogio si tratta.
Ma occorre ancora una precisazione:
“realismo” è termine a ampio spettro semantico e assai facilmente fraintendibile tanto che si può addirittura affermare che il suo significare troppe cose ci porta a pensare che, in fondo, non significhi nulla o assai poco.
E dunque, per evitare equivoci, chiarisco subito che in questo scritto verrà usato in relazione proprio, e soltanto, alle operazioni d’avanguardia e decisamente senza alcuna pretesa non solo di affrontare nella sua completezza il problema ma anche, semplicemente, di chiarire fino in fondo l’uso ‘storico’ del termine.
(L’articolo prosegue nel prossimo numero della rivista)