Cauto omaggio a Edoardo Sanguineti (Sesta parte)
di Gigi Livio
L’avanguardia, il tragico e il sublime.
Seconda sezione.
E, in epoca moderna, a proposito della sopravvivenza dell’anima dopo la morte, concezione tipica del cristianesimo e delle altre religioni monoteistiche, così si esprime Hegel in un passo dell’Estetica, ancora una volta a proposito dell’Edipo a Colono:
Questa trasfigurazione nella morte appare come la sua [di Edipo] e la nostra riconciliazione entro la sua individualità e personalità. Si è voluto in ciò trovare un tono cristiano, la visione di un peccatore che Dio accoglie nella sua grazia, mentre il destino che si è riversato sulla sua finitezza è compensato in morte con la beatitudine. Ma la conciliazione religiosa cristiana è una trasfigurazione dell’anima, che, immersa nella fonte della salute eterna, si eleva al di sopra della propria realtà e dei suoi atti in quanto rende il cuore tomba del cuore — giacché lo spirito può far questo — espia con la propria individualità terrena di cui è accusata, e nella certezza della beatitudine eterna e puramente spirituale se ne sta ora salda in sé stessa contro quella accusa. Invece la trasfigurazione di Edipo resta pur sempre la restaurazione antica della coscienza che dalla lotta fra potenze e violazioni etiche viene restaurata all’unità e all’armonia di questo stesso contenuto etico.
Ovviamente il pensiero del filosofo è chiaramente orientato dalla sua concezione della dialettica come conciliazione degli opposti mentre, dal punto di vista di una critica della scrittura drammatica nella sua sottospecie di scrittura tragica, si può discutere sull’impostazione esegetica del filosofo non fosse però che queste righe risultano assai chiare nel distinguere il sentire antico da quello nuovo e tanto diverso, conseguente al trionfo in occidente del cristianesimo.
D’altro canto, però, il classicismo di Hegel tende a rendere per così dire granitico qualcosa che tale non è ipostatizzando una “bella eticità”, come egli scrive in altra pagina dell’Estetica, che all’occhio attento di uno storico della filosofia, Gianluca Garelli, risulta nient’altro che “un mito”. Tanto meno granitica sarà la coscienza cristiana di fronte al tragico agli albori della modernità: infatti, quasi due secoli prima di Hegel, il principe Amleto ha messo in dubbio “la conciliazione religiosa cristiana” e la “certezza della beatitudine eterna” di cui è mise en abyme il forse troppo noto, e troppe volte storpiato sulla scena, monologo del terzo atto in cui Amleto si pone il problema se esserci o non esserci, vivere o non vivere, sopportare tutto il male della vita e dei tempi dal momento che “egli stesso potrebbe chiudere il conto con un semplice pugnale” (trad. mia). Qui l’anima dell’uomo non è affatto più salda ma, al contrario, assai dubitosa della beatitudine eterna: proprio con questo scambio dialettico dell’animo umano con se stesso viene inaugurato il drammatico nel senso moderno e, di conseguenza, abbandonato il tragico così com’era stato concepito prima della tormentata età manieristica, tanto fertile di semi che diverranno fecondi nella nostra epoca. E la dialettica
“si rispecchia sul piano stilistico nell’insistito uso della figura dell’ossimoro”
dove questo fatto formale
“diviene lo specchio linguistico di una situazione esistenziale”,
chiarisce ancora Melchiori. Ma ciò che segue, nel libro scespiriano dell’illustre anglista, necessita di essere citato più distesamente:
È sul piano del linguaggio che Hamlet presenta un salto di qualità rispetto ai drammi precedenti: la pregnanza verbale che tutti i critici hanno messo in risalto, scorgendo una stretta affinità fra il linguaggio di Hamlet e quello dei maggiori poeti metafisici contemporanei come John Donne, è la manifestazione più evidente della natura vera dell’opera: un’inchiesta sull’inestricabile nodo di contraddizioni che sono i moventi delle azioni umane. La figura dell’ossimoro, che nel Settecento Samuel Johnson, parlando dei poeti metafisici, aveva chiamato discordia concors, ne è l’espressione emblematica a livello di comunicazione verbale; in essa si risolve quella conflittualità che è essenziale alla forma drammatica.
Melchiori, nel chiamare in causa Donne, ci porta a riflettere sul tragico in quel poeta che, non certo per caso, venne poi amato dall’avanguardia del novecento. E il punto, in cui lo studioso accomuna Shakespeare al contemporaneo poeta “metafisico” riguarda la figura dell’ossimoro, della discordia concors, in cui si risolve sia “la pregnanza verbale” sia la “conflittualità” che rivelano la “natura vera” di Amleto che è poi quella di “un’inchiesta sull’inestricabile nodo di contraddizioni che sono i moventi delle azioni umane”; dunque: “i moventi”, ciò che la tormentata psicologia dei personaggi, portando alla luce della parola l’inestricabile nodo di contraddizioni, muove i loro comportamenti altrettanto, se possiamo permetterci un ricalco, inestricabilmente contraddittori.
Come è decisamente evidente nelle poesie di Donne e nella sua concezione del tragico fortemente radicato nei tempi schiodati, è ancora il principe di Danimarca, che tanto lui quanto Shakespeare stanno vivendo:
As wee do them in means, shall they surpasse/ Us in the end? (Come noi superiamo gli antichi nei mezzi -ossia la religione- ci supereranno essi nel fine?).
La traduzione è di Giorgio Melchiori cui dobbiamo anche il commento:
“gli antichi, pur ignorando i principi cristiani, giungevano a buon fine grazie al loro ideale di virtù, mentre noi, pur conoscendo la religione, ci lasciamo travolgere dalle passioni”.
Uomini travolti dalle passioni -e decisamente travolto fu proprio Donne- perché ormai privati di un centro intorno cui far ruotare i sentimenti e le azioni che ne conseguono dal momento che la discordia concors, l’ossimoro, è una figura del linguaggio che veicola una ben precisa visione del mondo che esprime una tensione verso una legge morale ormai, al tempo, non riconosciuta più come propria. Ed ecco, dunque, che la conflittualità, nell’antichità riservata ai grandi principi etici incarnati in figure “assolute” prive di sbavature e tentennamenti, è ora sprofondata negli abissi della psiche dell’uomo moderno in lotta con se stesso prima ancora che con gli altri uomini; nasce qui il primo nucleo di quello che sarà il “drammatico”.
Ho usato la locuzione “abissi della psiche”, che ben poco ha a che fare con lo psicologismo, proprio perché altra cosa è quest’ultimo che sarà tipico del cosiddetto “dramma borghese”, cui decisamente si opporrà l’avanguardia letteraria e teatrale, e altra è la psicologia del profondo là dove tutti gli umani si possono riconoscere come uguali, anche se non identici certo, a patto però di accettare un’identificazione che sia anche critica delle proprie azioni e non giustificazione delle stesse. Ma su questo punto sarà indispensabile tornare.
E, intanto, non dovremo nemmeno andare tanto lontani, cronologicamente s’intende e non certo per altezza poetica, dai tormenti ossimorici di Amleto, Otello, Macbeth, Lear eccetera per assistere a ben altri tormenti, non a caso intrecciati dall’anonimo drammaturgo, a una, anzi due, storie triangolari e adulterine esposte sulla scena con tanto di psicologismo ancora embrionale, ma già precisamente identificabile come tale. Sto parlando di Arden of Feversham, in un primo tempo erroneamente attribuito a Shakespeare, che, pubblicato la prima volta a Londra nel 1592, ebbe fortuna, anche se soprattutto letteraria e non teatrale, nella prima metà del novecento francese. L’argomento della vicenda compare nel titolo completo:
“La deprecabile e vera tragedia del signor Arden di Feversham nel Kent. Come fu perfidamente ucciso, per le arti di una moglie infedele e licenziosa, che per amore aprì il suo cuore a Mosbie, ingaggiò due disperati furfanti Blackwill e Shakbag, per ucciderlo. Dove è mostrata la grande malignità e finzione di questa donna infedele, l’insaziabile desiderio di oscena lussuria e l’ignominiosa fine di tutti gli assassini”.
Il “vera” iniziale è riferito a un fatto di sangue realmente accaduto nel 1552 a Feversham “di cui il dramma ripete fedelmente e minutamente i particolari”. Si tratta di un “dramma”, se pure allora ancora definito “tragedia” -e “dramma” correttamente lo rubrica Gabriele Baldini, traduttore del testo e autore della precisazione storica qui sopra riportata- perché, probabilmente per la prima volta nella storia della letteratura teatrale dell’occidente, viene meno il conflitto tra
eroi ed eroine “illustri e regali”
e lo scontro, invece,
riguarda[…] l’assetto istituzionale e l’economia erotica del matrimonio nella famiglia nucleare della middle class emergente in Inghilterra.
Assetto istituzionale, e cioè economico, centrale negli interessi della borghesia, ed economia erotica, contemplata nella fenomenologia delle sue molteplici variazioni del tradimento all’interno della coppia marito-moglie, che ci ammorberanno con la loro ripetitività nel dramma psicologico-borghese con l’unica variante degli agenti dell’azione (marito tradito dalla moglie, moglie tradita dal marito, marito e moglie che si tradiscono l’un l’altra, amante di un tipo o piuttosto di un altro e via così praticamente all’infinito) fino ai nostri giorni per fornire alla borghesia la possibilità di immedesimarsi nei vari personaggi, con una sorta di posticcia catarsi finale -o meglio: morale della favola- ma di un moralismo moralistico ovviamente. E qui si chiarisce meglio il valore di quel “vera”, su cui ho già richiamata l’attenzione, non a caso unito a “deprecabile” che intende, appunto, rispecchiare la realtà per permettere questa immedesimazione, ma soltanto fino a un certo punto, ecco il moralismo, perché la vicenda portata sulla scena deve risultare “deprecabile” per lo spettatore dove la catarsi aristotelica, se pure abbassata e involgarita, possa aver luogo a ricomporre l’ordine.
Infatti, con la nascita del dramma nasce anche l’immedesimazione del pubblico nel senso in cui l’intendiamo noi oggi e cioè nel trovare sulla scena un personaggio che gli somigli. D’altro canto, il fatto che il finale della “tragedia domestica” sia edificante non deve trarci in inganno poiché ciò che porta al coinvolgimento dello spettatore non è il contenuto “morale” dell’ultimo atto, più o meno terrorifico, che pretende di mettere in luce le conseguenze della dissolutezza sessuale di Alice e Mosbie -ma c’è anche quella, che viene intercalata nella vicenda, di un altro triangolo, costituito da Clarke, Michele e Susanna- e il desiderio di possesso delle terre di Arden che portano tutti alla morte, vuoi per perfidia, come è il caso della soppressione di Arden, vuoi per forza di una legge molto severa che punisce non solo gli assassini ma tutti coloro che hanno partecipato, anche in forma marginale, all’omicidio, cui l’Anonimo dedica peraltro poco più di una pagina a parte il pistolotto moralistico di Franklin, unico personaggio di invenzione, che tira i fili del discorso dando notizia della triste fine dei condannati in contumacia, i due “disperati furfanti” Blackwill e Shakebag, per completare e suggellare l’ideologia del delitto che non paga. Infatti, se si tiene conto che tutto il dramma è occupato nel mostrare i disordini sessuali di cui si diceva e la sordida avarizia, ma avarizia di possidente, di Arden, comprendiamo subito che si tratta di elementi in cui il pubblico appartenente all’emergente middle class poteva identificarsi tanto approvandoli quanto respingendoli ma, comunque, partecipandovi in prima persona, immedesimandosi nei vari personaggi e a ciascuno il suo, perché de te fabula narratur.
Semmai dal breve monologo finale di Franklin, diretto al pubblico, balza in evidenza la forte e decisa rivendicazione, da parte dell’autore, di un valore morale e insieme estetico per la sua opera:
In tal guisa avete vista la verace rappresentazione della morte di Arden. […] Ma ciò, soprattutto, è degno di menzione: Arden giacque assassinato in quel medesimo pezzo di terra ch’egli colla forza e colla violenza aveva tolto a Reede; e sull’erba si poté vedere l’impronta del suo cadavere, fino a oltre due anni e più dopo che fu commesso il delitto. Signori io spero che voi perdonerete questa tragedia ignuda, nella quale non sono stati introdotti abbellimenti di sorta onde renderla più gradita all’occhio e all’orecchio: da che la semplice verità è di per se stessa un elemento di bellezza e non abbisogna d’alcuno specioso orpello.
E, dunque, subito si vede, come l’intento morale sia strettamente legato all’aspetto economico, proprietario per precisare ancora meglio, dove balza in evidenza come questa middle class emergente pretenda fin da subito, e quindi dal suo sorgere e prima ancora di consolidarsi al potere nell’Inghilterra e nel mondo occidentale, che la questione morale si leghi strettamente agli interessi economici: guai a attentare alla proprietà privata. E la vicenda sessual-sentimentale non viene nemmeno menzionata da Franklin alla fine perché così evidentemente legata, all’“economia erotica [d]ella famiglia nucleare” borghese là dove –e qui notiamo la sapienza dell’anglista Pustianaz, autore della citazione precedente, nell’uso dei termini- quell’“economia” legato a “erotica”, se rimanda al linguaggio freudiano, mette però anche, e direi soprattutto, in evidenza come nella famiglia borghese il legame economico sia di gran lunga il più importante e condizioni decisamente anche quello sessuale.
Ma, per fermarsi ancora un momento, per meglio approfondire, sulla questione del tema economico, che sarà tipico del dramma borghese, è certamente da notare quella persistenza di credenze, che provengono dal campo della magia medievale, evidenziate da Franklin -che ha definito “soprattutto, degno di menzione” il lato economico della vicenda poiché Arden viene assassinato
“in quel medesimo pezzo di terra ch’egli colla violenza e colla forza aveva tolto a Reede”
mettendo così in evidenza che il delitto basato sull’ingiustizia di classe, Arden è un aristocratico e Reede un borghese, non paga- nel suo sintetizzare il succo della vicenda che si è appena svolta sul palcoscenico, perché l’Anonimo autore ha ben presente il fatto che
qualche volta nella storia si registrano esiti rilevantissimi provocati da non fatti: più significativi dei fatti storici veri e propri possono essere i fenomeni di credenza che ne scaturiscono
come opportunamente chiarisce Angelo d’Orsi, a proposito dei problemi della storiografia. Ed ecco la condanna appunto “magica” degli infami -e cioè di chi, rivendicando un diritto di nascita, si oppone a uno speculare diritto del piccolo proprietario che lavora le proprie terre, il che è a dire di un piccolo borghese “onesto” dedito alla sua modesta proprietà e alla famiglia- in cui interviene il soprannaturale a mostrare la retta via e cioè il rispetto della proprietà, piccola o grande che sia:
“e sull’erba si poté vedere l’impronta del suo cadavere, fino a oltre due anni e più dopo che fu commesso il delitto”.
Ma, naturalmente, non basta: infatti la borghesia, che si prepara a prendere il potere e che già ne partecipa nell’Inghilterra del cinquecento avanzato, pretende per sé, e per le opere che sanno interpretare la sua tendenza culturale, anche l’artisticità, che dovrebbe nobilitare la bassezza moralistica e economicistica dei “prodotti” (uso qui il termine, evidenziandolo, non certo a caso bensì pour cause) dei propri apologeti. E, infatti, sempre nel monologo conclusivo, questa aspirazione, che è già un’affermazione, balza agli occhi con netta evidenza là dove la rivendicazione della veridicità della vicenda viene congiunta con la bellezza
“perché la semplice verità è di per se stessa un elemento di bellezza”;
tutto ciò porta alla conclusione, per noi oggi ovvia ma assai meno per il tempo in cui il dramma venne scritto e rappresentato, che trattandosi di una “tragedia ignuda”, e pertanto “realistica”, “non abbisogna d’alcuno specioso orpello”: la borghesia in via di affermazione vuole il ‘vero’, inteso come “verisimiglianza”, ancora una volta di lontana memoria aristotelica -e questo, qui solamente accennato, è un punto nodale su cui sarà necessario tornare con agio-, che fin dall’inizio gabella per ‘verità’, avvalorando questa falsa identificazione con la maschera della ‘bellezza’: è l’inizio di una storia lunga come l’età della borghesia e cioè tanto lunga che si protrae fino a noi.
E il concetto di verità “nuda” –proposto qui anche come polemica nei confronti del Manierismo, che comprende anche il nostro Barocco, uso a impiegare “abbellimenti” al fine di rendere la verità, non più nuda, meglio “gradita all’occhio e all’orecchio”, è la poetica dell’Anonimo- proprio per questa sua “qualità” risulterebbe “di per se stessa un elemento di bellezza” senza che sia necessario “alcun specioso orpello”, dove ancora è rafforzata la polemica antimanieristica, ci porta decisamente verso una concezione del bello, che risale a Agostino, e che, unendo pulchrum e aptum si riferisce, come chiarisce Givone,
“a qualcosa che viene considerato bello in quanto adeguatamente destinato ad alcunché, o indirizzato funzionalmente a qualche fine”.
E il fine o lo scopo è proprio quello di glorificare le nuove conquiste borghesi, quelle economiche, e la conseguente nuova concezione della morale, facendo valere un’idea della verità e del vero, coincidente con la bellezza, funzionale al ‘progresso’, atta nel nostro caso a avvalorare il cammino -che nella seconda parte del settecento diventerà trionfale non solo in Inghilterra ma in tutta Europa e soprattutto in Francia dove sta per scoppiare la Grande Rivoluzione- di quella middle class che qui si affaccia a porre la sua egemonia culturale e artistica.
D’altra parte questa affermazione che intende la verità come bellezza richiama alla mente anche la kalagokatìa, come venne definita nella Grecia antica, dove il bello, kalòs unito a agatós, assumono, a un dipresso, il senso di bontà che si unisce alla bellezza morale e, insieme, il significato di bello unito all’utile, al conveniente; che sarebbe poi una semplice conferma di ciò che ho già cercato di mettere in luce non fosse che il termine, nella sua accezione riferita a cosa concreta, kalokagathoi, assume una ben precisa valenza classista nell’indicare le persone che appartengono alla classe dominante: e questo ci illumina ulteriormente sul fatto che questa vibrata rivendicazione estetica dell’Anonimo non è immune, certo, dall’ iniziare a designare quelli che apparterranno al nuovo ceto, i borghesi, come moralmente ‘belli’ proprio perché virtuosi e giusti. E, anche in questo caso, vediamo come l’estetica sia ormai, per la middle class, strettamente congiunta alla sfera della morale; e l’una e l’altra a quella della politica. Nasce, a questo punto, quel tipo di arte che nel novecento si definirà come arte di propaganda, atta proprio a propagandare quegli ideali che, nel senso corretto ma anche corrente, di “ideale” non hanno proprio nulla.
Sebbene con Arden of Feversham si sia ancora lontani due secoli da quando la concezione del bello come armonia -quel modo di intendere la bellezza che Tatarkiewicz fa risalire a Scoto Eriugena là dove afferma, già nel nono secolo dell’era nostra,
“che il bello consiste nell’armonia, la quale ex diversis generibus variisque formis si compone in unitatem”-
si diffonderà, nell’ottocento, tanto da divenire “una sorta di slogan”, sono ancora parole dello studioso di estetica polacco, pure, il dramma di cui stiamo analizzando alcune emergenze dal punto di vista estetico-sociologico, senza alcuna pretesa di invadere il campo della filologia naturalmente, mi sembra costituisca un forte segnale di ciò che sta per succedere non solamente dal punto di vista estetico, e non unicamente nella storia della scrittura drammatica e nelle arti tutte, ma soprattutto da quello politico, o politico-estetico se si preferisce. E ciò sia detto non esclusivamente tenendo conto che l’uomo, come si sa, è un animale politico e dunque gli artisti, essendo uomini, sono animali politici, ma soprattutto perché la borghesia, divenuta egemone, pretenderà che la cultura sia la sua cultura e l’estetica sia la sua estetica e dunque un’estetica e una cultura che servano a coprire e a velare tutto ciò che di tremendo operano alcuni uomini nei confronti della maggioranza degli altri uomini allo scopo di rafforzare il suo dominio anche dal punto di vista spirituale: spetterà all’avanguardia di strappare quel velo, ma non in modo diretto, attraverso la propaganda, che è prodotto, l’abbiamo appena visto, della concezione borghese e preborghese dell’arte, ma indirettamente attraverso la critica di quella cultura e di quell’estetica: di qui la necessità, per l’arte moderna, di essere critica, riflessa, o non essere come, con il solito nitore, afferma Adorno:
“Il contenuto di verità delle opere d’arte è fuso con il loro contenuto critico”.
Ed è sempre il filosofo francofortese a notare, a proposito dello stesso argomento, ma partendo da un diverso punto di vista, che se
l’ora dell’arte ingenua, come ha visto Hegel, è passata, è perché essa deve incorporare in sé la riflessione spingendola così in là che questa non si libri più al di sopra di essa come qualcosa che le sia esteriore, estraneo;
chiara e netta la conclusione di Adorno:
questo significa oggi l’estetica.