Cauto omaggio a Edoardo Sanguineti (terza parte)

L'asino vola
18 min readApr 26, 2018

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di Gigi Livio

Realismo e avanguardia: Pound e Joyce.

E per cercare di chiarire la linea che intendo percorrere in questa direzione mi sembra opportuno iniziare con una citazione tratta da una celebre “recensione” di Pound ai Dubliners joyciani:

Il risultato di Joyce, non dico massimo ma più attirante, è che evita di dirci un mucchio di cose che non occorre sapere. Presenta i suoi protagonisti celermente, toccati sul vivo, non sentimentalizzando, non complicando inutilmente. È realista. Non crede che “la vita” sarebbe tutta graziosa se noi impedissimo la vivisezione o instituissimo un nuovo sistema economico. Presenta la cosa come la cosa sta. Non sta costretto dalla convenzione faticosa, secondo la quale per destar interesse una parte di vita dev’essere fabbricata in forma di novella. Dal Maupassant in poi molti scrittori, specie anglosassoni, hanno tentato di fare storielle e pochi hanno “presentato” la vita. Per lo più la vita non accade in diagrammi confezionati, e pretendere che sia così dà noia.

Questo articolo è del 1914 ma ho preferito riportare l’autotraduzione che Pound stese nel 1930, malgrado in quegli anni i rapporti tra i due scrittori fossero ben diversi da quelli di più di quindici anni prima, perché in questo nuovo scritto, intitolato Storicamente Joyce, Pound non perde l’occasione per precisare ulteriormente e meglio il discorso sul realismo dell’autore dei Dubliners, come subito vedremo.

Il primo punto che a me sembra debba essere messo in rilievo delle righe su riportate è il legame arte-vita; ma qui, Pound lo specifica bene, intende dire della vita “vera” e non di quella preordinata in schemi o “storie” che, al contrario, intendono parlarci della e analizzare la vita “falsa”, della vita, appunto, così detta “da novelle” o “da romanzo” o da “teatro” e via elencando. Troviamo qui una decisa critica dell’ideologia e cioè della falsa coscienza o della coscienza sporca di chi intende gabellare per veri certi sogni, solitamente piuttosto miserabili, che, lo abbiamo letto, Gramsci definisce icasticamente “feticci”, “generati da fattori estranei alla nostra volontà” ma corrispondenti, e con molta precisione, a una strategia del potere, mercantile e dunque borghese s’intende, per darci l’illusione di condurre una vita gradevole nel mondo della sgradevolezza e della volgarità diffusa e onnicomprensiva.

E questo per Pound, esegeta di Joyce, è il realismo vero certamente fondato su una base che il nostro solito filisteo non potrà che definire “pessimistica”. Joyce quindi, letto dal sodale poeta e critico d’eccezione, è uno scrittore che “presenta la cosa come la cosa sta” (la sottolineatura è dello stesso Pound) e cioè dice le cose come sono veramente nella loro essenza profonda, liberate dai “diagrammi confezionati” dettati dalla falsa coscienza e del tutto estranei alla nostra volontà e operosità, ma indotti da altri che non solo sono al di fuori di noi ma anche, come potere manovrante le menti e i sentimenti e come mezzi da schierare in campo a questo fine, al di sopra di loro, Pound e Joyce intendo, e di noi, oggi come ieri. A questo punto è interessante notare quale fosse la stesura originale di questa importantissima, tanto in generale quanto per il ragionamento che qui ci interessa sviluppare, affermazione. Scriveva Pound nel ’14: “Offre le cose come sono”: è molto chiaro che quel sottolineare la “cosanella stesura del ’930, insieme a tutto il rafforzamento dell’enfasi della frase, ben visibile in quella ripetizione del termine “cosa” e nell’intonazione crescente e perentoria da “presenta” a “sta”, ha un suo preciso significato.

E, infatti, due anni dopo, Pound scrive un saggio su Exiles, che nel frattempo Joyce ha portato a termine, ampliando il discorso al teatro contemporaneo, dal titolo James Joyce e il teatro moderno. Un dramma e alcune considerazioni. Egli non nasconde il fatto di considerare Exiles un’opera non del tutto riuscita; afferma infatti:

“Non è buono come un romanzo; e tuttavia è abbastanza buono da costituire una solida base per la mia arringa contro il teatro contemporaneo”.

E non c’è da stupirsi se la sua “arringa” si rifà a Ibsen e a quello che, secondo lui, è un tradimento del drammaturgo norvegese sia nella scrittura drammatica che nel linguaggio della scena. Il fatto che il poeta-critico inizi la sua requisitoria contro il teatro contemporaneo, inglese e non solo, partendo da Ibsen e da quello che egli giudica un tradimento di Ibsen ha certamente un suo significato ben preciso che riguarda il concetto di realismo come egli lo concepisce in questi anni:

Joyce ci dà la sua Dublino come Ibsen ci ha dato la Norvegia provinciale.Naturalmente, oh, naturalmente, se, se ci fosse un teatro ibseniano in piena esplosione, la commedia di Joyce andrebbe subito in scena.

Risulta immediatamente chiaro da questo breve lacerto dell’articolo come Pound ritenga importante, per il teatro e non solo, l’apporto di Ibsen allo stesso. Ed è il tradimento del “fosco realismo” del drammaturgo norvegese che determina le condizioni teatrali per cui Exiles troverà molte difficoltà a essere inscenato e, nel caso già fortunato che invece messinscena avesse a esserci, non sarebbe capito da un pubblico che accetta, plaude e esalta

[…] un Ibsen banalizzato [e cioè] Shaw, l’intellettuale baco del formaggio.

Ecco ora la spiegazione poundiana dell’affermazione tranchant:

Vale a dire, Ibsen era un vero agonista, che lottava con problemi realissimi. “La vita è un conflitto con i fantasmi della mente” — era sempre in conflitto per sé e per il resto dell’umanità. Più di chiunque altro, è stato lui a farci “il nostro mondo”, cioè la “nostra modernità”. Shaw è l’intellettuale baco del formaggio, continuamente estasiato dalla propria abilità nel tuffarsi in un buco del formaggio e riapparire in un altro.

Ma noi non possiamo vedere “Ibsen”. […] Gli esperti ci dicono: “Oh, hanno accelerato il tempo. Ibsen è troppo lento”, e cose del genere. E così abbiamo Shaw; vale a dire Ibsen privato del suo fosco realismo, un po’ di Nietzsche introdotto per ravvivare le cose, e una tecnica del dialogo derivata da Wilde, per aggiunta.

Mi sembra piuttosto evidente il fatto che qui ci troviamo di fronte a un testo importantissimo per il nostro assunto e per l’intelligenza di ciò che è stata la meditazione avanguardistica sull’opera d’arte in generale e, più specificamente dato l’argomento del saggio da cui stiamo citando, su questa nei confronti dell’industria teatrale in quel periodo.

In questo scritto Pound elegge Ibsen a campione di realismo e il teatro a lui contemporaneo a traditore di questa grande eredità perché quel teatro è passato dall’essere un teatro di scontro tra il sogno e la realtà che spinga, o addirittura costringa, lo spettatore a meditare criticamente sui problemi fondamentali della vita in un’epoca di trionfo del mercantilismo che non risparmia certo l’arte, a un teatro, inteso come scrittura drammatica e sua conseguente messinscena, che invece serva a dilettare lo spettatore; e, per giungere a questo scopo, scopo evidentemente voluto e cercato dal mercantilismo che regge le sorti dell’industria teatrale, sia i drammaturghi che l’insieme di coloro che agiscono sulla scena giungono addirittura a ‘ingraziosire’ il già banalizzatore Shaw:

“[…] se dobbiamo definire Shaw un Ibsen banalizzato, che cosa diremo del passo successivo verso il basso, ossia: Shaw ingraziosito?”

D’altro canto i termini di Pound sono inequivocabili: Ibsen è per lui un “vero agonista” perché “lottava con problemi realissimi”: ne consegue che egli era “sempre in conflitto per sé e per il resto dell’umanità”; in quest’ultima affermazione possiamo leggere, e nemmeno troppo in filigrana, un programma artistico ben preciso che vale certamente non solo per Pound e per Joyce, ma per l’avanguardia tutta. Pertanto Pound vede l’arte, che non definisce d’avanguardia perché per lui è l’unica arte possibile essendo il resto intrattenimento, e l’artista come ineluttabilmente in continuo scontro con il mondo; è qui inoltre da notare come di questo mondo e non del mondo in generale si tratti: a evitare ogni metaficizzazione del problema e ogni indebita estensione in un tempo ‘eterno’, bisogna sottolineare il fatto che egli sta parlando del teatro del suo tempo e del motivo per cui Exiles non ha alcuna possibilità di incontrare i gusti del pubblico, e, di conseguenza, non di un pubblico in generale, ma di quel pubblico. E, dunque, per lui l’artista, nel momento in cui si oppone al mondo, all’arte e al gusto della cultura del tempo, risulta inevitabilmente un realista e cioè uno scrittore, in questo caso, che dice la cosa come la cosa è veramente e non come vuol farcela apparire l’industria della cultura facendoci credere che la realtà sia l’apparenza.

Ma Pound applica questa sua visione del mondo, che egli realizzerà soprattutto nella poesia, anche al teatro recitato: i tempi di Ibsen sono –questo il parere degli industriali del teatro che egli riassume nei nomi dei principali impresari della scena nordamericana e inglese- troppo lenti per i “tempi stretti” della modernità intesa come tempo della macchina che disumanizza l’uomo e, nel nostro caso, il teatro e l’arte tutta e pertanto il pubblico è ormai disabituato a un teatro che fa pensare e desideroso soltanto dei prodotti che “giochino” con i temi fondamentali della vita, come l’adulterio: nel primo caso la conseguenza è che

[…] il dramma di Joyce è pericoloso e non rappresentabile perché lui non sta giocando con il soggetto dell’adulterio, ma perché sta veramente guidando la mente all’antico problema dei diritti della personalità e della responsabilità che l’individuo intelligente ha della condotta di quanti gli stanno attorno, all’antica questione dei relativi diritti dell’intelletto, e dell’emozione, e della sensazione, e del sentimento.

Questo accostamento del modo in cui Joyce, secondo Pound, affronta il problema dell’uomo nella società moderna consuona, e questo avvalora il suo rifarsi a Ibsen, con quanto il drammaturgo stesso dice, nel 1898 in un discorso a un banchetto in suo onore:

Io ringrazio per gli evviva; ma devo rinunziare all’onore di aver agito volontariamente per il problema della causa della donna. Io, a dir il vero, neanche non so proprio chiaramente cosa sia: la causa della donna. A me essa è sembrata sempre come una causa dell’essere umano.

Ed è proprio “la causa dell’essere umano” che interessa Pound e che egli ritiene sia altrettanto il fulcro dell’arte di Joyce e del suo realismo e ne costituisca l’aspetto fondamentale del valore.

Joyce, per parte sua, aveva già esplorato l’argomento Ibsen, visto come antesignano dell’arte moderna in diversi articoli della giovinezza tra cui spicca Dramma e vita, scritto nel 1900 quando l’autore aveva diciotto anni e letto due anni dopo alla Società di Letteratura e di Storia dello University College di Dublino, di cui era allievo. In questo saggio, mirabile in sé ma doppiamente stupefacente se si tiene conto dell’età del critico-teorico -ma Joyce è Joyce si potrebbe affermare con piglio lapalissiano non fosse invece una constatazione doverosa di una genialità, precoce fin che si vuole, ma già in alcuni tratti perfettamente espansa-, troviamo il problema di cui ci stiamo occupando affrontato in modo netto e preciso e, direi, senza sfumature di sorta. Così come troviamo un’opposizione chiara e forte nei confronti dell’ideologia artistica corrente e dominante.

Ecco, dunque, per incominciare:

Nella maggior parte dei casi gli ammiratori della scuola antica sostengono che il dramma dovrebbe porre, per usare la loro espressione di repertorio, rivendicazioni etiche speciali, che esso debba istruire, elevare e divertire. Ecco qui però ancora un’altra catena che i carcerieri gli hanno attribuito. Non dico che il dramma non compia qualcuna oppure tutte queste funzioni, ma nego che compierle sia essenziale. Quando si proietta nella sfera altissima della religione, l’arte perde generalmente la propria anima nel quietismo stagnante. Quanto poi alla forma più bassa di questo dogma, essa è sicuramente comica.

Joyce pertanto non ama affatto ciò che i “carcerieri” intendono imporre come temi e come modi all’arte e lo denuncia con decisione già evidente nel definire appunto “carcerieri” coloro che detengono la “saggezza” del common sense e che pretendono di trasferirla all’artista e alla sua opera. Ma la posizione joyciana diventa ancora più chiara man mano che si prosegue nella lettura del discorso:

Dobbiamo mettere in scena la vita, la vita vera? No, dice il coro dei Filistei, perché non tira. Che mistura di vita frustrata e commercialismo compiaciuto! Gli animi dei venditori ambulanti si dividono tra il Parnaso e la Banca centrale.

Qui la polemica contro il filisteismo dominante è piena di ferocia, ma non di disprezzo. Il disprezzo –termine questo che non va confuso con quello di “sprezzo”, nel significato derivato da “sprezzatura” e a quest’ultima parola attribuito da Castiglione fin dal 1528 e quindi in quello di “distacco infastidito”, certamente presente, invece, nell’ultima frase del brano riportato- è, infatti, proprio di chi, nei tempi in cui scriveva Joyce e in cui viviamo noi oggi, ritiene di potersi porre al di sopra di tutti e, di conseguenza, guarda gli uomini e le cose dall’alto in basso: è chiaro che tale comportamento, letto da questo punto di vista, rivela una coloritura fastidiosamente piccolo borghese e filistea propria di chi non può, e non sa, rendersi conto che siamo tutti in una medesima barca, insieme ontologicamente e storicamente, (e qui, detto in forma parentetica ché ben altro spazio e ben altra articolazione sarebbero necessari a meglio articolare, il pensiero di Leopardi e quello di Marx si integrano a vicenda) e che la pesante alienazione di chi vive in una società amministrata non risparmia nessuno: per chi, invece, di ciò ha piena coscienza diventa ineluttabile la lotta per far “cambiare l’aria” alla “nostra Società”, sono le battute con cui si conclude il primo atto del dramma Le colonne della società di Ibsen, anche se questa lotta non può non essere che disincantata e, in fondo, quasi disperata; ma quasi, appunto, e dunque non del tutto tale. A chiarire quest’ultima affermazione ci viene in soccorso Beckett che, a proposito di un pittore di cui era amico, scrisse di preferire nell’arte

“l’espressione che non c’è nulla da esprimere, nulla con cui farlo, nulla da cui farlo, nessun potere di farlo, insieme con l’obbligo di farlo”.

Ecco dunque che l’artista d’avanguardia, e questo è uno dei punti in cui si rivela il suo realismo, sa benissimo di non essere affatto al di sopra della mischia ma nella mischia:

“Più presto comprendiamo la nostra vera posizione e meglio è; e più presto allora saremo in piedi, pronti a proseguire il nostro cammino”:

è questa un’affermazione che Joyce fa quasi in chiusura del suo saggio poco prima di citare Le colonne della società.

E per cercare di precisare sempre meglio il problema del realismo, vediamo che il termine si presenta proprio in tutta la sua netta chiarezza quando l’autore, citando Arthur Beerbohm Tree, attore e regista teatrale oltre che estensore di libri di teorica e critica della scena, porta in primo piano nel suo discorso il fatto che il realismo non possa essere in nessun modo affrontato nel mondo dominato dal commercialismo:

Dopo tutto l’arte non può essere governata dalle finzioni della maggioranza compatta, ma piuttosto da quelle condizioni eterne, dice Tree, che l’hanno governata dal principio. Questa è per me una verità irrefutabile. Ma faremmo bene a tenere in mente che quelle condizioni eterne non sono le condizioni delle comunità moderne.

E, dunque, l’argomentazione di Joyce ci fa capire quale sia la matrice profonda del suo realismo: riuscire a coniugare le “condizioni eterne” con quelle della modernità; condizioni, quindi, eterne e però moderne o, meglio, eterne e contemporaneamente moderne, e cioè vissute, e dall’artista lette, con la particolare angolatura che hanno assunto nella modernità. Al solito Pound ci serve a meglio articolare il ragionamento. E, tornando allo scritto sui Dubliners del 1914, esprime, a modo suo ovviamente, lo stesso concetto, vede cioè le cose dalla stessa prospettiva da cui le indaga Joyce il quale, scrive Pound,

[c]i presenta Dublino come presumibilmente è. Non fa affidamento sulla caricatura alla Dickens. Ci mostra le cose così come sono, non soltanto per Dublino, ma per qualsiasi città. […]

L’autore, in altri termini, è assolutamente in grado di affrontare le cose che gli stanno attorno, e di affrontarle in maniera diretta, e tuttavia questi particolari non lo assorbono, egli riesce a cogliere l’elemento universale che in essi si cela.

Come si vede qui il poeta intende chiarire fino in fondo la sua affermazione sul fatto che Joyce “[o]ffr[a] le cose come sono”, a Dublino ovviamente, ma le tratti in modo tale che valgono “per qualsiasi città” rivelandosi così come universali e contemporaneamente eterne poiché, per il poeta e esegeta, il valore del realismo di Joyce sta proprio nel saper coniugare la sua visione delle cose in quanto espanse non soltanto nello spazio, ma insieme anche nel tempo: “eterne”, aveva scritto Joyce nel 1900, ma che “non sono le condizioni delle comunità moderne” pur rimanendo eterne.

È chiaro che una tale visione dell’arte e del mondo non può che portare a un odio profondo contro le convenzioni e l’arte convenzionale perché quest’ultima, in quanto non “vera”, è ineluttabilmente “falsa”. Può infatti sembrare curioso che un poeta come Pound mostri tanta ammirazione per certe cose dei Goncourt anche se è egli stesso a precisare che questa sua ammirazione, che comunque è ben diversa da quella che nutre per Flaubert, sia legata a una Préface e, in particolare anche se non solo, a quella di Germinie Lacerteux. Nel saggio, questa volta di maggior respiro, dedicato a Joyce e dal suo nome intitolato, che il poeta scrive nel 1918, la prefazione è riportata per intero nella lingua di origine. Di questa mi pare da mettere in evidenza ciò che lo spinge, più di altre questioni toccate in queste righe, a farne una bandiera del realismo come egli lo concepisce:

Il pubblico ama i romanzi falsi: questo romanzo è un romanzo vero. […]

Il pubblico apprezza ancora le letture leggere e consolanti, le avventure che finiscono bene, le fantasie che non sconvolgono la sua digestione né la sua serenità: questo libro con la sua triste e violenta novità, è fatto per contrariare le abitudini del pubblico, per nuocere alla sua salute

E ancora: “[…] oggi che il Romanzo si è imposto gli studi e i compiti della scienza, può rivendicarne la libertà e l’indipendenza. Ricerchi dunque l’Arte e la Verità”.

In questi due brani citati salta agli occhi per prima cosa la contrapposizione falso-vero, falsità-Verità, strettamente congiunta all’Arte, che anticipa le poetiche non certo uguali ma che respirano nella stessa grande aria della cultura dell’avanguardia di inizio novecento, di Pound e di Joyce, e si contrappongono al respiro corto dell’arte che si ispira al positivismo, e cioè a quella temperie che definiamo naturalistica, ma contemporaneamente anche al simbolismo e all’estetismo perché ambedue i nostri scrittori non possono certo abbracciare fino in fondo le poetiche di quei movimenti per la loro ambiguità dal momento che non riescono a risultare autenticamente antagonisti al naturalismo pur nell’intenzione dichiarata di volerlo contrastare. L’opposizione frontale dell’avanguardia nei confronti di tutta l’arte a matrice borghese, e dunque anche nelle sue punte più interessanti legata in qualche modo a quell’industrialismo e quel mercantilismo che già Baudelaire aborre fin dalla metà dell’ottocento, non può conoscere mediazioni come già ho evidenziato più sopra.

È questo il motivo per cui Pound elegge a “his true Penelope” Flaubert come recita il tredicesimo verso dell’ Ode pour l’election de son sepulchre in apertura di Hugh Selwyn Mauberley composto tra il 1919 e il 1920. E qui il rifarsi a Flaubert assume svariate coloriture che ora non analizzerò perché troppo al di fuori del filo tematico che sto cercando di seguire e mi fermerò al modo, al come e al perché Pound ritiene Flaubert un antesignano del realismo, come egli l’intende naturalmente, senza affatto contrapporlo a Ibsen, ma, al contrario, a quest’ultimo associandolo. (vedi approfondimento in Quarta Parte)

Già nel ‘917, recensendo The portrait of the Artist as a Young Man uscito in volume, Pound si rifà a Flaubert a proposito del romanzo joyciano. Ma è un anno dopo con Ulysses, ancora incompleto, che il suo ricollegarsi al narratore francese diventa fondamentale per l’ esegesi di Joyce:

Joyce ha fatto ciò che Flaubert si mise a fare in Bouvard e Pécuchet, l’ha fatto meglio, più succintamente. Un’epitome.

Questa derivazione, che non prevede alcuna forma di imitazione né tantomeno di sudditanza nei confronti del modello, diventa evidente fin dal titolo di un saggio che Pound scrive in francese, nel 1922, James Joyce et Pécuchet, dove evidenzia con estremo nitore il motivo del suo costante richiamo a Flaubert per chiarire la grandezza dell’amico narratore:

Ma è soprattutto nel capitolo sui luoghi comuni che ci interessa, ed è per questa via che si vede un rapporto tra Flaubert e Joyce. Tra il 1880 e l’anno in cui fu cominciato l’Ulisse nessuno ha avuto il coraggio di mettere insieme lo “schiocchezzaio” gigantesco, né la pazienza di cercare l’uomo-tipo, la generalizzazione più generale.

Ma il realismo di Joyce ‘supera’ quello di Flaubert perché nel suo libro egli fa parlare, e pensare, ogni personaggio “alla propria maniera” senza, però, abbandonare l’unità dello stile:

[Joyce] si esprime in modo differente nelle differenti parti del suo libro […], ma non è che abbandoni l’unità dello stile […]. Ogni personaggio non solo parla alla propria maniera, ma pensa alla propria maniera, e questo non è abbandonare l’unità dello stile più di ciò che succede quando diversi personaggi d’un romanzo detto “di stile unito” parlano di argomenti diversi: si omettono le virgolette, ecco tutto.

Mettiamo ora provvisoriamente da parte la questione dello stile su cui ritorneremo presto, non senza anticipare che in questi protagonisti dell’avanguardia di inizio secolo è ben precisa la coscienza che per dire le cose come sono, e non come si vogliono far apparire, è necessario lavorare sullo stile perché le parole, e il modo come sono accostate nella frase e le frasi nel periodo, oltre alla struttura del romanzo o della poesia, sono proprio così perché così sono state volute, più o meno esplicitamente e più o meno implicitamente, sulla base della menzogna che intendono trasmettere. E veniamo invece, per seguire il filo che congiunge Joyce a Flaubert o, meglio, la tela che Pound sta tessendo per dimostrare come Joyce abbia proseguito e abbia portato a compimento il realismo di Flaubert facendo parlare e pensare ciascun personaggio a suo modo. Ma non basta: vedremo ora che per il poeta e critico il realismo, cui egli attribuisce il compito di presentare la vita così com’è e dunque anche con tutto ciò che trascina con sé, e che precipita, nel senso della chimica, nella lingua, attraverso lo scorrere del tempo, deve anche tener conto della “permanence”, della continuità:

Sempre realista nel più stretto senso flaubertiano, sempre documentato, documentato sulla vita stessa, Joyce non oltrepassa mai la “medietà”. Il realismo cerca una generalizzazione che agisce non solo sul numero, sulla molteplicità, ma nella permanenza. Joyce combina il medio evo, le età classiche, la stessa antichità ebraica in un’azione attuale; Flaubert scandisce le epoche.

Nella continuità c’è quell’“elemento universale”, di cui Pound ci dice già nello scritto del ‘914, quelle “condizioni eterne”, di cui parlava Joyce fin dal 1900 in Dramma e vita, non senza chiarire però, come abbiamo visto, che “non sono le condizioni delle comunità moderne”, condizioni quindi eterne e diverse insieme o, meglio, eterne in quanto proprie dell’essere umano che vive in comunità ma che ogni epoca, e massime quella moderna, connota con le proprie stimmate e che le distinguono l’una dall’altra. Si tratta allora, in pieno trionfo dello “storicismo” di matrice positivistica, di rivendicare un’arte storica, ma storica in senso dialettico, che, grazie a quest’ultimo elemento, tenga conto del caso per caso e del di volta in volta senza mai perdere di vista il rapporto, anche questo naturalmente dialettico, tra l’eterno e il contingente. Non è certo, per Joyce come per Pound, il contesto che fa il testo, ma ambedue sono convinti che il secondo non esisterebbe, nel modo in cui esiste, senza il contesto suo proprio.

Il realismo di Joyce è segnato infatti anche dal rifiuto dell’idealismo nell’arte, come egli definisce ciò che appunto idealizza e quindi sradica dal contesto storico, da determinati fattori propri di un’epoca anche questi presenti, se pur filtrati fin che si vuole dallo stile, nelle opere dell’artista. Infatti, se riprendiamo il discorso joyciano svolto in Dramma e vita dal punto in cui l’abbiamo interrotto nell’ultima citazione, troveremo questo problema affrontato con molta chiarezza:

L’arte è segnata da questa errata insistenza sulle sue tendenze religiose, morali, belle, idealizzanti. […] Ed è questa dottrina dell’idealismo nell’arte che, in casi insigni, ha deturpato l’impegno virile ed ha anche favorito l’istinto infantile a sprofondare sotto le coperte al solo nome dello spauracchio del realismo.

Questo rifiuto ha delle conseguenze, per l’arte come l’intende Joyce, molto pesanti:

Ne deriva che il pubblico rifiuta la tragedia, a meno che non sciorini calice e pugnale, detesta il “romance” che non risponde alle leggi della prosodia e, se dal sangue versato da un eroismo sventurato non nasce subito una vegetazione di dolorosi boccioli, considera questo un triste effetto per l’arte.

E qui torna quella feroce invettiva contro gli “approvvigionatori” e cioè contro gli artisti conformisti e dunque proni alle direttive, come sempre esplicite e implicite insieme, dei “plutocrati” e dei “mecenati”, termine usato sarcasticamente quest’ultimo, che intendono trarre ricchi profitti dall’espressione artistica, e che qui Joyce, dato il discorso che sta facendo, identifica con gli impresari teatrali:

Dal momento che per la stessa follia e frenesia di questo atteggiamento, la gente vuole che il dramma la prenda in giro, l’approvvigionatore fornisce il plutocrate di una parodia della vita che il secondo digerisce come una medicina in un teatro al buio, con una scena che letteralmente si rimpinza dei rifiuti mentali dei suoi mecenati.

Torniamo ora a ciò che ho citato in apertura di discorso su Dramma e vita -non senza sottolineare e mettere provvisoriamente da parte, per soffermarcisi appena il filo del nostro discorso lo pretenderà, il problema della tragedia e cioè del “tragico” nell’arte moderna come sempre non in generale, ma indagato dal punto di vista dell’avanguardia- perché qui si innesta la ricetta di Joyce che poi non è nient’altro che il realismo così come egli lo concepisce e, già lo abbiamo visto, come l’intende anche Pound: “Ora se queste opinioni sono sterili, cosa farà al caso?”; e qui già sappiamo che al caso, per lui, farà “mettere in scena la vita, la vita vera”. Dopo la filippica contro il “commercialismo compiaciuto”, l’autore ci dice ciò che egli intende debba fare l’artista oggi, una dichiarazione di poetica ancora solo in parte critica che ben presto egli metterà in atto nelle proprie opere che, per essere artistiche, non saranno certo meno critiche. Ma di questo tra poco. Ora soffermiamoci un’ultima volta sul saggio del 1900:

Oggigiorno la vita in effetti è spesso una grande noia. […] La barbarie epica è resa impossibile da una vigile azione di polizia, la cavalleria è stata uccisa dagli oracoli alla moda dei boulevard. Non c’è nessun rumore metallico d’armatura, nessun’aureola di eroismo, niente scappellarsi, niente baldoria. […] Eppure credo sia possibile cogliere una qualche dimensione di vita drammatica dalla desolante monotonia dell’esistenza. Perfino il più comune, il più smorto dei viventi può recitare una parte in un grande dramma. È una colpevole stoltezza rimpiangere e sospirare i bei vecchi tempi e nutrire la nostra fame dei freddi sassi di cui essi dispongono. La vita dobbiamo accettarla così come la vediamo dinanzi ai nostri occhi, gli uomini e le donne come li incontriamo nel mondo reale, non come li veniamo a conoscere nel mondo delle fate.

L’allusione a Yeats, presente in quest’ultimo accenno al “mondo delle fate”, ci mostra con chiarezza il distacco del giovanissimo critico dal simbolismo e dall’occultismo a favore del realismo che, a differenza di ciò che fanno gli appartenenti a quei ‘movimenti’, deve occuparsi, appunto, del “mondo reale”. Abbiamo qui un programma di lavoro e, dunque, una poetica ancora in nuce che informerà tutta l’opera di Joyce, a partire dalla prima sua prova di narratore e cioè quello Stephen hero, romanzo autobiografico, scritto nel 1904 e pubblicato soltanto postumo, ma fondamentale per il nostro discorso.

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