Cinema e teatro televisivo in Rai durante la pandemia

L'asino vola
10 min readFeb 1, 2022

di Franco Prono

Già pochi anni dopo la sua nascita, la televisione in Italia suscitava aspre critiche da parte di chi avrebbe voluto che essa offrisse programmi di alto profilo culturale. Dal 1975, cioè da quando la Rai ha iniziato ad affrontare il confronto con le emittenti private, non si contano gli artisti e gli intellettuali che si sono lamentati per il basso livello delle trasmissioni del servizio pubblico televisivo. Così dichiarava ad esempio Bernardo Bertolucci nel 1993, rispondendo ad una domanda di Giovanni Minoli durante una puntata di Mixer:

«Quello che è accaduto con la televisione negli ultimi quindici anni, è stata, ahimè, la diffusione di una specie di sottocultura, i cui effetti li vediamo soprattutto nei giovani. […] La televisione dovrebbe essere — siamo ottimisti, dovrà essere — una grande università, la più grande aula magna in cui fare cultura, in cui creare confronto, riflessione, approfondimento. Fino a oggi invece la televisione non è stata un’università, ma una fonte di sottocultura, e questo è accaduto soprattutto a partire dalla metà degli anni Settanta, quando anche la televisione pubblica si è voluta mettere al passo delle televisioni commerciali».

Con l’inizio della pandemia e dei vari periodi di lockdown, è parso evidente che in Italia, come nel resto del mondo, chi era costretto a restare in casa per molte ore al giorno passava molto più tempo del solito di fronte al televisore. Di qui gli appelli alla Rai affinché concedesse maggior spazio a trasmissioni culturalmente qualificate. Ha avuto vasta diffusione una lettera di Pupi Avati al “Corriere della Sera” in cui il noto regista si chiedeva

perché in questo tempo sospeso, fra il reale e l’irreale, come in assenza di gravità, i media e soprattutto la televisione e soprattutto la Rai, in un momento in cui il Dio Mercato al quale dobbiamo la generale acquiescenza alll’Auditel, non approfitti di questa tregua sabbatica di settimane, di mesi, per sconvolgere totalmente i suoi palinsesti dando al paese l’opportunità di crescere culturalmente. Perché non si sconvolgono i palinsesti programmando finalmente i grandi film, i grandi concerti di musica classica, di jazz, di pop, i documentari sulla vita e le opere dei grandi pittori, dei grandi scultori, dei grandi architetti, la lettura dei testi dei grandi scrittori, la prosa, la poesia, la danza, insomma perché non diamo la possibilità a milioni di utenti di scoprire che c’è altro, al di là dello sterile cicaleccio dei salotti frequentati da vip o dai soliti opinionisti. […] Perché non approfittiamo di questa così speciale opportunità per provare a far crescere culturalmente il paese stravolgendo davvero i vecchi parametri, contando sull’effetto terapeutico della bellezza?.

Non mi sembra che la Rai abbia risposto in modo positivo a queste sollecitazioni. Lasciando ad altri un giudizio motivato sulle trasmissioni nei settori della musica, della danza, della letteratura e dell’arte visiva, rilevo che non è cambiato nulla nella programmazione dei film e degli spettacoli teatrali trasmessi dalle varie reti del Servizio pubblico. La sala cinematografica, lo sappiamo, è il luogo in cui lo spettatore dovrebbe vedere i film per apprezzarli nel modo giusto, sul grande schermo e in condivisione con altre persone sedute accanto a lui; pertanto il cinema in televisione costituisce un ripiego, un surrogato del grande spettacolo nato con i Lumière. Ma un’emittente televisiva pubblica dovrebbe utilizzare i film non come materiali che garantiscano un’alta audience grazie al loro comprovato successo commerciale, dovrebbe bensì trasmettere opere di buon livello artistico di ogni epoca e di ogni paese, tali da contribuire all’arricchimento culturale del pubblico. Invece la Rai continua a proporre soprattutto film d’azione, commedie, melodrammi realizzati negli ultimi quindici anni, per lo più americani, quasi tutti a colori, che già hanno conseguito un buon esito al botteghino. Le uniche eccezioni — talvolta di notevole interesse — sono offerte da Rai Storia e RaiPlay.

Con la pandemia nulla è cambiato neppure nella programmazione del teatro televisivo, su cui vorrei soffermarmi in modo particolare. Dal momento che per molti mesi le sale di spettacolo sono rimaste chiuse al pubblico — lo sono ancora mentre sto scrivendo — molte istituzioni e compagnie teatrali hanno utilizzato il web talvolta in maniera molto intelligente e stimolante per cercare di mantenere vivo in qualche modo il loro rapporto con il pubblico, creando un surrogato digitale di tipo innovativo che mi auguro possa continuare a svilupparsi anche in futuro. La Rai invece — soprattutto Rai 5 — ha continuato a proporre sia vecchie messinscene teleteatrali, sia nuove produzioni che riproducono i tradizionali schemi rappresentativi. L’emittente televisiva pubblica non ha ancora compreso ciò che studiosi e artisti ripetono ormai da decenni: il teatro e la televisione sono due mezzi di comunicazione del tutto diversi l’uno dall’altra, per cui tra di loro non può prodursi né integrazione di linguaggio, né collaborazione a livello espressivo. La profonda, sostanziale diversità tra di loro è evidente: il teatro fornisce esperienza viva e diretta, la tv informazione ed esperienza mediata. Nessun tipo di spettacolo elettronico può infatti sostituirsi al teatro assicurando lo stesso rapporto diretto e immediato tra attori e pubblico, così come nulla eguaglia la televisione nella sua capacità di offrire immagini “in diretta” ad un pubblico vasto quanto tutto il pianeta.

Eppure fino dalle sue origini la televisione è parsa sotto tanti aspetti quasi una figlia del teatro, perché lo ha assunto come suo fondamentale modello linguistico, comunicativo e culturale. Per i suoi primi vent’anni di vita la Rai ha condotto un’operazione pedagogica e divulgativa qualificabile probabilmente come

il più formidabile progetto culturale elaborato dal pensiero cattolico in Italia nel campo della comunicazione (Aldo Grasso).

In quell’epoca la televisione di Stato era gestita da dirigenti e funzionari dotati di preparazione spiccatamente umanistica i quali concepirono un impegno di formazione culturale delle masse soprattutto come necessità di illustrare in modo semplice e chiaro le grandi opere della letteratura e della drammaturgia mondiali. Così chiamarono i più affermati attori e registi teatrali ad assumere il ruolo di professori nella nuova università popolare elettronica, e con il loro aiuto misero in scena testi drammatici, romanzi sceneggiati, originali televisivi che utilizzavano codici recitativi e rappresentativi propri degli spettacoli teatrali. Per molti anni il teatro in televisione ha costituito una presenza costante e gradita dal pubblico. Sia che lo spettacolo fosse registrato in teatro, sia che venisse allestito in uno studio televisivo come se fosse un luogo adatto ad una rappresentazione teatrale, il risultato non poteva che essere una messinscena naturalistica, un ibrido tra teatro e tv che trascurava di interrogarsi sulle peculiari caratteristiche del mezzo di ripresa e di registrazione. La rappresentazione televisiva, per quanto fosse accurata e formalmente corretta, tendeva sostanzialmente ad offrire sul teleschermo quello stesso tipo di finzione scenica che è proprio del teatro, senza riflettere sul fatto che il palcoscenico è il luogo in cui lo spettatore fa vivere in modo diretto e immediato la propria immaginazione, mentre i mezzi elettronici sono l’apparato che elabora, manipola, trasmette immagini e messaggi: si tratta evidentemente di due livelli di finzione molto diversi. Inevitabilmente Io schermo televisivo distrugge l’aura creata dall’arte interpretativa degli attori e del regista, trasforma la corporeità dei personaggi in immagini bidimensionali, non riproduce il magico rapporto che esiste tra gli attori in scena e gli spettatori in sala davanti a loro.

Insomma, l’evento teatrale è di per sé irriproducibile in televisione.

Oggi sostanzialmente la situazione è sempre la stessa, in quanto la strategia della Rai in questo campo si muove su tre binari diversi: propone repliche del vecchio teleteatro, riprende con le telecamere alcuni allestimenti di successo che figurano nei cartelloni teatrali della stagione precedente e realizza alcune nuove produzioni utilizzando sempre il tradizionale linguaggio ibrido e naturalistico (Si pensi a Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo andato in onda il 22 dicembre 2020 su Rai 1: un grande impegno produttivo, eccellenti attori e regista, ma una messinscena formalmente molto tradizionale).

Non nego che sia utile documentare con mezzi audiovisivi gli eventi teatrali dei nostri giorni e conservarne la memoria elettronica, occorre però ricordare che, come e più di altri mezzi di riproduzione e di comunicazione, quelli televisivi modificano sempre in maniera più o meno sensibile l’oggetto della registrazione, lo rappresentano in forma parziale, lo isolano innaturalmente dal resto della realtà che lo circonda:

la televisione mette in gioco altri sistemi percettivi, altri sistemi cognitivi, altri sistemi epistemici rispetto all’interscambio comunicativo teatrale, di qualunque tipo esso sia (Gianfranco Bettettini).

L’ottica degli obiettivi, il sistema di scansione, il montaggio, la dimensione del teleschermo, la struttura del palinsesto condizionano in maniera decisiva la fruizione del telespettatore, riducono la molteplicità delle sue esperienze ad abitudini sensoriali ed emotive, norme ideologiche, regole percettive radicalmente differenti da quelle che appartengono alla ricezione del pubblico teatrale. II regista che intende documentare con mezzi video uno spettacolo già messo in scena su un palcoscenico riproducendone per quanto è possibile le caratteristiche drammaturgiche ed espressive, finisce regolarmente per sottomettere le possibilità, tecniche e linguistiche del mezzo elettronico all’evento teatrale, rinunciando al proprio intervento creativo nel timore che il pubblico televisivo rimanga sconcertato

di fronte a un rito compiuto altrove, per altri spettatori, o per nessuno: […] la divisione in atti, il ricorso ai tableau, l’assenza di cesure nell’azione, i tempi calcolati sui cambi di scena e di costume, segnalano ad ogni istante che si assiste alla ricostruzione di uno spettacolo nato per altri media, altri luoghi, altri pubblici. Non più osservati dalla platea, scene e costumi, trucco e recitazione sono pedissequamente amplificati; ciò che si perde — II calore del teatro, tutta la sua comunicatività — non viene ricostruito attraverso gli strumenti propri della tv. È come guardare un arazzo dal rovescio (Carlo Ippolito).

Le soluzioni drammaturgiche e scenografiche ideate per il palcoscenico perdono nella riproduzione televisiva la loro giustificazione e il loro senso, a causa del passaggio dalla fisicità tridimensionale all’immagine bidimensionale, dalla continuità narrativa al montaggio elettronico. In tale passaggio si modifica profondamente soprattutto il livello di percezione del pubblico, che deve essere stimolato in modo diverso dal mezzo elettronico se si vuole che l’effetto emotivo e intellettuale resti simile, o almeno omologo a quello sperimentato nella sala teatrale. Gli spettatori del teatro e della televisione rispondono in modo diverso alle sollecitazioni che vengono loro proposte in quanto assistono ad eventi che appartengono a due mondi che non sono affatto governati dalle stesse leggi strutturali, non obbediscono agli stessi criteri formali, non hanno in comune le coordinate spaziotemporali. II tempo viene compresso o dilatato indefinitamente dal mezzo elettronico, riceve giustificazione e senso dal montaggio, non possiede assolutamente — né a livello di messinscena, ne a livello di fruizione — la stessa consistenza che è propria dell’esperienza fisica del teatro. D’altra parte, lo spazio bidimensionale che appare sul televisore non riproduce per nulla la profondità, lo spessore, l’ampiezza del palcoscenico, né i rapporti di contiguità e di distanza esistenti tra le persone e gli oggetti che sul palcoscenico si trovano, ma crea dimensioni, proporzioni, distanze puramente virtuali. Quello televisivo è uno spazio

«teorico, la cui entità dimensionale varia realmente, in armonia con le esigenze espressive dello spettacolo» (Fausto Colombo);

è uno spazio

più sintetico e maggiormente espressivo di quello in cui si svolge una vicenda cinematografica o teatrale […]: è potenzialmente lo spazio di Craig e Appia più le possibilità del “meraviglioso” barocco più l’espressività dell’inquadratura; a questo si aggiungono, come nuovi elementi linguistici, lo stile figurativo dell’immagine trattata e la possibilità di sommare in una stessa inquadratura elementi disparati. (Carlo Ippolito).

Pertanto il teatro riprodotto in tv — sia la tradizionale documentazione degli spettacoli di prosa, sia la messinscena originale di testi teatrali realizzata con identico linguaggio — è un ibrido che non è né teatro né televisione, non possiede alcun rapporto linguistico o estetico con nessuno dei due mezzi, non cerca di adattare creativamente l’uno all’altro. Affermava Luca Ronconi:

Non mi interessa il teatro televisivo: l’impronta del gusto del piccolo schermo mi fa, letteralmente, cagare.

Ma lo stesso Ronconi, come pure Carmelo Bene, Carlo Quartucci e altri, soprattutto negli anni Settanta hanno realizzato alcune importanti esperienze di sperimentazione che sembra siano rimaste incomprese dalla Rai stessa che le ha prodotte, ignorate nella loro vera portata innovativa. Questi autori quando hanno messo in scena eventi teatrali hanno utilizzato in vario modo il linguaggio del teatro, quando hanno realizzato messinscene televisive hanno utilizzato in vario modo il linguaggio della televisione

Se faccio televisione, allora non devo solo fare i conti con il linguaggio del mezzo, ma anche con il suo tipo di comunicazione: posso essere provocatore come in teatro, posso discutere sulla possibilità stessa della comunicazione. […] Se faccio cinema, faccio cinema; se faccio tv, faccio tv (Carlo Quartucci).

Essi hanno cercato di individuare il modo corretto per fare teatro in tv sovvertendo le tecniche di ripresa e produzione standardizzate, nella direzione della sperimentazione linguistica e del superamento del naturalismo.

Hanno compreso che la traduzione televisiva delle messinscene teatrali deve tenere conto della specificità del mezzo elettronico il quale non può essere soltanto un tramite tra lo spettacolo e il pubblico, ma il mezzo stesso di “scrittura” dello spettacolo. Essi hanno sperimentato, in forme e tempi diversi, modi originali di usare inquadrature, movimenti delle telecamere, microfoni ed effetti speciali elettronici al fine di rendere la traduzione televisiva delle esperienze maturate nel teatro di prosa non una semplice documentazione audiovisiva, ma uno spettacolo ideato, organizzato, strutturato unicamente in funzione della tv e delle sue caratteristiche di rappresentazione e di comunicazione (Franco Prono).

Se si vuole realizzare il corretto adattamento televisivo di un evento teatrale traducendo il rito scenico in spettacolo audiovisivo, occorre trasformare l’esperienza diretta dello spettatore ed il suo rapporto fisico con gli attori in un’esperienza mediata, unilaterale, differita. Per ottenere questo risultato, bisogna

ideare degli elementi sostitutivi che possano far scattare nello spettatore televisivo reazioni perlomeno omologhe a quelle di chi aveva seguito la messinscena (Franco Quadri).

L’unico modo per rimanere fedele a questa, consiste nel tradirla mutandone ritmi e spazi, trasformando la struttura drammaturgica, rielaborando i materiali audiovisivi in modo autonomamente generativo, reinventando il rapporto con il pubblico. È inevitabile infatti che,

«quando l’esperienza della percezione è filtrata attraverso l’occhio delle telecamere», si verifichi «una trasformazione dello stesso progetto originale, che deve essere arricchito o depauperato o comunque rielaborato in funzione delle novità comunicative apportate dall’interno di un altro mezzo di espressione e di trasmissione» (Gianfranco Bettettini).

In tal modo il mezzo elettronico può riuscire a trasformare l’evento teatrale in evento multimediale e in altre più complesse dimensioni, così che la scatola teatrale si frantumi in una serie di frames che si pongano l’uno dietro l’altro secondo una successione ritmica capace di offrire la visione di un universo audiovisivo completamente virtuale, immaginario, visionario.

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