Considerazioni su alcune esperienze formative nelle scuole romane di recitazione
di Claudio Simone
“Dar corso ai pensieri durante una minzione è un duplice atto liberatorio”.
Così diceva un mio vecchio insegnante (il termine minzione è probabilmente dovuto a un senso del pudore di sapore antico). Da allora, questo è sempre stato per me un consiglio da seguire. E quando, ancora oggi, mi trovo in quella situazione e l’occhio mi cala su una delle tante scritte vergate su una mattonella di un bagno pubblico qualsiasi, mi accade qualcosa d’inaspettato, come la riflessione che dà vita al presente articolo.
Qualche anno fa, ho avuto l’occasione di mettere in pratica questo insegnamento, nel bagno di una delle tante scuole di teatro romane che ho frequentato, dove una scritta campeggiava stonata in mezzo a una pletora di disegni osceni:
“Lo scopo della scuola è quello di trasformare gli specchi in finestre — Sydney J. Harris”.
Il messaggio mi sembra abbastanza chiaro: parte fondamentale del lavoro di un insegnante è di stimolare l’allievo alla “creatività” — termine comunque troppo usato nelle scuole di recitazione e spesso a sproposito — non di produrre epigoni fedeli. Ora, per quanto possa sembrare un concetto banale, scontato e acquisito dai più, in realtà ci troviamo di fronte a una questione molto complessa, soprattutto quando l’analisi critica investe la specificità dell’arte attorale. Silvia Magnani, foniatra di vaglia, ha dedicato un breve paragrafo, nel suo Comunicare a teatro, a una riflessione didattica su cosa sia possibile e doveroso insegnare agli allievi delle scuole di recitazione e cosa no. Non si vuole, in questa sede, fornire una ricetta di buona scuola. Sarebbe bene però intendersi su cosa debba essere richiesto di base ad ogni attore che si rispetti:
“L’efficacia dell’agire dell’attore non è misurabile con parametri intraspettacolari ma con gli effetti prodotti sul partner relazionale, colui che assiste” — scrive Silvia Magnani. E ancora: “Il teatro non si misura in termini estetici, ciò che esso sa dare è un’emozione meno definita, quasi uno stato di allerta prima che questo si trasformi in un sentire chiaro e divenga coscienza soggettiva, esso semina nell’animo dello spettatore ciò che germinando formerà il sentire individuale”.
Si può essere d’accordo o meno con questa impostazione teorica (forse prima di “estetica” ci vorrebbe un “esclusivamente”), ma il punto è un altro. Qualunque sia la necessità, l’urgenza, che sospinge l’attore, volente o nolente a esprimerla, questa ha sempre una duplice direzione: se stesso e lo spettatore. E per poter colpire tutti e due gli obiettivi — contenendo con grande sforzo di concentrazione la dispersione — non si può prescindere dalla capacità di utilizzazione di strumenti ben levigati. In altre parole, il talento e la “creatività” servono all’attore per impostare una sua poetica, ma sia l’uno che l’altra debbono basarsi su una notevole conoscenza tecnica. Ecco allora che abbiamo da una parte delle conoscenze trasmissibili per insegnamento, in quanto altamente codificate: acrobatica, ortoepia, nozioni teoriche, eccetera. Dall’altra una didattica, come dice ancora Silvia Magnani,
“che non impone mai all’attore un credo, non insegna una regola, agisce piuttosto in modo maieutico creando le condizioni favorevoli all’espressione delle capacità individuali”.
E qui sorge un clamoroso fraintendimento, che affligge molte delle scuole e scuolette di cinema e teatro attualmente operanti sul territorio nazionale. Premetto che, per esperienza personale, so che esistono molti bravi insegnanti e alcune scuole di teatro che lavorano bene con il tempo e gli strumenti a loro disposizione. Di questi non mi occuperò nel presente articolo. Ma per un allievo che voglia davvero diventare un bravo attore, il rischio di scegliere il percorso didattico sbagliato è molto alto. Tralasciando per il momento il discorso sulla formazione delle accademie dei teatri stabili, che meriterebbe un ulteriore approfondimento, la mia analisi critica è incentrata su quei percorsi formativi che potremmo definire non ufficiali o extra-accademici.
Molti ragazzi con la vocazione, o presunta tale, per la recitazione finiscono per accettare l’offerta formativa di scuole “laboratoriali” — termine qui usato esclusivamente in opposizione a quello di accademia — dove numerosi insegnamenti vengono impartiti in sei ore settimanali, quando va bene nove, e un docente, di solito il direttore della scuola, richiede una fedeltà assoluta in cambio della speranza di essere presi in considerazione per futuri spettacoli.
Qui viene imposto all’allievo un credo su più livelli: bastano poche ore alla settimana e un po’ di lavoro a casa per diventare attori preparati.
Il metodo d’insegnamento proposto è, ovviamente, se non l’unico valido, il più efficace. Tutti gli allievi diventeranno un giorno dei bravi attori, chi più chi meno, fin tanto che non abbandoneranno la scuola che stanno frequentando per un’altra. Questo al netto delle dichiarazioni di circostanza del corpo insegnante. La selezione degli iscritti è per lo più d’apparenza, e così si formano classi molto eterogenee: c’è chi segue i corsi con la speranza d’imparare davvero un mestiere, chi lo fa per svago, chi per fare nuove conoscenze, chi perché ha sentito che il teatro avrebbe principalmente una funzione terapeutica. Tutti, o quasi, questi giovani e non più giovani “predestinati” formeranno una massa indistinta e sgomitante nel mondo del lavoro. Come sia poi malamente strutturato il mondo del lavoro di un attore è di nuovo un’altra questione complessa, che qui non verrà presa in considerazione.
Ci sono poi i cosiddetti workshop, o master class, la cui funzione dovrebbe essere di completamento allo studio di un attore già parzialmente formato, ma che spesso vengono frequentati da attori impreparati, attirati semplicemente dalla prospettiva di potersi mettere in mostra, agli occhi del regista/attore/casting titolare del corso. Naturalmente,
per meri motivi economici, la maggior parte dei docenti non oserebbe mai, in quello che altrimenti sarebbe un dovuto atto di onestà intellettuale, di evidenziare la scadente predisposizione alla carriera teatrale o cinematografica di un allievo-attore pagante,
ma soprattutto mansueto, poco autocritico e pronto a diventare un fedele seguace.
Insomma, il panorama scolastico, fin qui vagliato con un’analisi poco più che sbrigativa, è intricato e variegato. Tuttavia, mi pare che la grande maggioranza delle offerte didattiche proposte oggi siano accomunate, seguendo il ragionamento di Silvia Magnani ma anche l’aforisma di Sidney J. Harris, dall’imposizione di un credo, che non ha nulla a che vedere con la corretta enunciazione di un metodo critico e dialettico d’insegnamento. E questo accade perché la formazione viene spesso tramutata in un oggetto da commercializzare. Nel mercato capitalistico fuori controllo, più un oggetto risulta apparentemente appetibile, maggiori sono le sue probabilità di vendita. Nello specifico dell’arte attorale, un esempio lampante di questa ovvietà è l’insegnamento di una recitazione che potremmo definire “della naturalezza”, desunta oggi il più delle volte dagli insegnamenti di derivazione americana (strasberghiana, nello specifico).
Il problema è che in Italia spesso raccogliamo solo gli aspetti più superficiali ed equivoci di altre culture, che maldestramente tentiamo d’innestare su un terreno culturale, il nostro, molto diverso. In questo caso, ci affanniamo ad assomigliare il più possibile agli attori americani, campioni di naturalezza. Tentiamo di utilizzare, spesso fraintendendo e non riuscendoci, solo in minima parte la loro tecnica, quella inerente all’immedesimazione totale con il personaggio, trascurando a più riprese le altre componenti essenziali dell’agire efficace dell’attore, che per buona parte del secolo scorso diedero lustro alla scuola italiana. Il corretto uso della voce, a mio avviso, ha sofferto più di tutti l’ostinata ricerca di quella che è diventata una sciatta naturalezza da strada, a malapena sopportabile al cinema, inaccettabile a teatro. Il contrappunto è spesso costituito da una recitazione più sostenuta, ma vuota e falsa, dovuta alla scarsa padronanza dei mezzi e all’ansia di apparire, piuttosto che di essere presenti. Questa è una generalizzazione negativa e parziale della situazione attuale, me ne rendo conto, ma è talmente macroscopica da meritare di essere osservata con più attenzione, rispetto agli esiti felici, non molti a dire il vero, di certi attori italiani.
La questione presa in esame riguarda soprattutto, va da sé, le nuove generazioni di attori, orfane di poetiche ben definite e vittime di cattive interpretazioni della tradizione.
A tal proposito, credo sia utile riportare qualche testimonianza di prima e seconda mano, per capire meglio il concetto che si vuole qui esprimere. Userò nomi inventati, per preservare la riservatezza delle persone coinvolte.
Una prima testimonianza proviene dalla scuola di teatro che, almeno fino a qualche anno fa, ospitava la citazione di Harris riportata più sopra. Ho personalmente assistito, in veste di uditore, a una lezione. Grazia, docente e nota attrice, invitava i suoi allievi (del terzo anno!) ad affrontare un monologo drammatico, prendendo spunto da un evento tragico della propria vita. L’esercizio consisteva nella stesura, e successivamente lettura ad alta voce, di una lettera rivolta a un proprio caro scomparso. Subito dopo si sarebbe proceduto all’interpretazione del monologo.
Ora, lungi da me discutere sulla validità dell’esercizio, ma è stato l’esito a lasciarmi molto perplesso. Gli allievi (del terzo anno!) finirono per fare a gara a chi piangesse più forte. L’atto performativo si era così trasformato in un momento privato dell’attore, non del personaggio, escludendo ipso facto l’imbarazzato uditore dal coinvolgimento dell’esibizione. Non mi commossi io, che in quel momento rappresentavo lo spettatore, mi sentii semplicemente di troppo. Di più, il corpo di ogni allievo-attore era inconsapevolmente disconnesso, i gesti incontrollati, la voce lasciata libera di vagare a suo piacimento, l’energia infine dispersa. Il tutto, in effetti, non era né canalizzato, né direzionato. Cosa avrebbe dovuto fare l’insegnante in questa situazione? Grazia salì sul palco e abbracciò tutti i suoi allievi, complimentandosi per la loro straordinaria interpretazione e ringraziandoli d’avere esternato le loro emozioni. Me ne andai da quella terapia di gruppo.
Seconda testimonianza. A un workshop di nove giorni, in cui veniva richiesto di studiare una scena a due tratta da un film, Paolo incontrò la sua partner di scena, Sara. Sara si era appena diplomata a una scuola di recitazione di durata triennale. La principale insegnante di questa scuola era nota per i suoi metodi d’insegnamento alquanto discutibili e di vaga ispirazione strasberghiana. Per quanto riguarda la scena da studiare, si trattava dell’estratto di un dialogo, in cui il protagonista incontra, dopo anni, una ragazza più giovane di lui e con la quale ha avuto, qualche anno prima, un incontro d’amore. Al termine della prima lezione, Paolo e Sara si confrontarono sulla scena da recitare. E Sara chiede al partner di scena: “Secondo te dovremmo farlo?”. Paolo rimane interdetto e Sara prova a insistere, chiarendo: “Cosa dici, dovremmo fare sesso? I due personaggi sostengono di avere avuto una sola fantastica notte d’amore…”. Di nuovo Paolo rimane interdetto. Allora Sara inizia a dubitare che la sua idea immedesimativa possa dare un esito positivo: “Forse è meglio di no. Se poi il sesso insieme non è fantastico e la scena viene da schifo?”. Paolo, che non è del tutto convinto dei metodi strasberghiani (spuri) di Sara, per la terza volta rimane in silenzio. Quando venne il momento di recitare, la scena andò male.
Un’ultima testimonianza. Un motivo ricorrente di molte scuole di recitazione è quello costituito dalla seguente ‘profezia’, fatta dall’insegnante-direttore della scuola, rivolta agli allievi più promettenti:
“Segui i miei insegnamenti, stammi dietro in questi anni e ti garantisco che ti farò diventare un/una grande attore/attrice”.
A questa impostazione non viene meno Martina, unica insegnante di una scuola romana di recitazione cinematografica, sempre di durata triennale. L’allievo-attore Daniele ricorda di averle sentito proferire una frase del genere più volte, durante i suoi tre anni di formazione, ma ciò che lo colpì di più è quello che disse Martina al termine del percorso di studi di Daniele, durante la fatidica consegna dei diplomi:
“Abbiamo fatto un ottimo lavoro in questi anni: ora sapete sostenere un primo piano. Certo la vostra recitazione è monocorde. Voglio dire che non sapete usare la voce…”.
Tre anni, quattro giorni alla settimana, tremila euro annui di retta, spesi solo sui primi piani. Daniele riconosce onestamente la bontà del lavoro svolto, almeno per quanto concerne l’uso della mimica facciale in telecamera, ma tutto questo tempo e tutti questi soldi sembrano uno sproposito per una piccola percentuale del bagaglio tecnico che dovrebbe possedere un giovane attore dopo anni di studio.
Mi sono avvalso di queste tre testimonianze, tra le tante, per evidenziare un concetto difficilmente incontrovertibile.
L’impoverimento culturale che investe il nostro paese da decenni, ha colpito più duramente i settori del cinema e del teatro, in cui la “creatività” e il talento non possono essere stimolati con regole precise.
Non è un caso, credo, se nelle discipline più tecniche (fotografia, costumi, montaggio, eccetera) continuiamo a ottenere riconoscimenti internazionali. Eppure, è proprio la mancanza di competenze tecniche di base che condanna il linguaggio di scena, di cui l’arte attorale è spirito vivificatore, a languire in un limbo di perenne attesa, dove il talento, quand’anche fosse presente, rischierebbe di appassire sotto le sferzate di una maldestra istruzione. Il fatto che di tanto in tanto venga messo a segno un buon colpo non ci permette, al momento, di sperare in una vera e propria rinascita. Piuttosto, in un paese dove i cittadini vengono accompagnati sulla via della sudditanza abulica e il pubblico, oggi di cultura prevalentemente televisiva, è sempre più ammaestrato da linguaggi patinati e vuoti,
la ricerca di una conoscenza veramente profonda, che stimoli davvero il talento, rischia di venir considerata un aspetto marginale del problema.