Homo oeconomicus
di Nicola Ranieri
Per razionalisticamente dominare bisogna rigorosamente dimostrare, prevedere, ridurre tutto a quantità. Le scienze esatte o le scienze tout court, infatti, se non quantificano, non vengono ritenute tali.
Fino ai primi anni del Novecento si riteneva che la scienza matematizzata dovesse, sì, comprendere anche ciò che attiene al bisogno e all’utilità — quindi, pure i fattori sociali, psicologici nonché quelli economici in quanto presentano risvolti psicosociali. Tuttavia ancora si pensava che gli eventi riguardanti l’interiorità dovessero passare per l’apprezzamento di ciascuno e restare, pertanto, di ordine qualitativo.
Oggi, invece, tende a scomparire qualsiasi apprezzamento soggettivo di un evento. Esterno o interiore che esso sia, deve essere quantitativamente misurabile e sottoposto a oggettivistica verificazione. Pure l’intensità di una passione ardente finisce per coincidere con i dati statistici, con la maggiore o minore frequenza degli amplessi rispetto alla media. Pure la qualità poetica di Dante, la sua visionaria potenza immaginativa ispirata anche dagli occhi di Beatrice, si esaurisce nello studio algoritmico-informatico delle sole strutture quantitativamente ricorrenti nelle terzine della Divina Commedia. Ѐ in atto, insomma, una tale astratta semplificazione tecnicistica della umana complessità — sia fuori sia dentro di noi — che essa si riduce solo a una misurabile esteriorità oggettivisticamente nonché pubblicamente comunicabile, senza alcun residuo di ordine qualitativo.
L’homo oeconomicus sembra permeare di sé la teoria, la prassi, le aspirazioni, l’immaginario di ciascuno e di tutti.
Quando venne enunciato nell’Ottocento da John Stuart Mill, sulla scia del suo maestro Jeremy Bentham, esso richiamava quel carattere di accordo fra utilità individuale e utilità generale: quell’assunto benthamiano della massima felicità per il maggior numero di individui, o quell’auspicio milliano di riforme finalizzate a una equa distribuzione della ricchezza.
Invece, nel contemporaneo, viene inteso come soggetto dell’attività economica, come astratto individuo ridotto solo a motivazioni economicistiche allo scopo di massimizzare la ricchezza. Finisce così per coincidere con un unico orizzonte: ottenere per se stesso il massimo vantaggio. Ed è questo ormai il modo esclusivo di intendere il benessere; la cui massimizzazione vien definita dalla funzione matematica di utilità.
Una simile utilità calcolata — ed essenzialmente amorale — prescinde dal fatto che si acquisti o si agogni l’acquisto di qualcosa di utile o di inutile. L’importante è comprare (o desiderare spasmodicamente di comprare) la massima quantità al prezzo più vantaggioso. In ciò consiste il razionalismo dell’homo oeconomicus: il suo «calcolo della felicità», perfettamente in linea con la fondamentale legge capitalistica della accumulazione fine a se stessa. E portata alle estreme conseguenze.
Conseguenze, peraltro, già insite nella sua origine: la pulsione verso il benessere materiale. Dettata, questa, anche negli animali dall’istinto di conservazione — di accumulare per sopravvivere. Solo che gli uomini, avendo perduto l’istinto e, dunque, pure quel senso di benessere derivante dal sentirsi satolli, sono in preda alla frenesia dell’accumulo senza limiti. Perciò il calcolo, per aumentarlo a dismisura, incondizionatamente li domina sotto forma di economicismo utilitaristico.
Ma che non attiene soltanto all’economia in quanto tale.
L’economicità è uno dei principi fondativi pure del moderno pensiero scientifico, le cui radici affondano nella filosofia tardo medioevale. Infatti, molti secoli prima di Mill e Bentham, il cosiddetto rasoio di Ockham istituì il criterio secondo il quale è necessario semplificare le ipotesi allo scopo di minimizzare gli sforzi e massimizzare i risultati. Ovvero, anche in scienza (progressivamente, spregiudicatamente ridotta entro i termini economicistici odierni) costi bassi e alti profitti.
Nel moderno razionalismo, intriso di una forte accentuazione empiristica, confluiscono pertanto sia gli intenti economicistici dello sviluppo capitalistico (prima artigianale-manifatturiero, poi industriale-finanziario su scala planetaria) e sia una meccanicistica visione scientifico-filosofica del mondo, sempre più legata al passaggio epocale dalla tecnica alla tecnologia. Teoricamente e praticamente in simbiosi, quest’ultima, con la scientificizzazione del lavoro e con lo smisurato aumento della produzione economica, nonché del consumismo dell’utile e dell’inutile.
In breve, dell’accumulo fine a se stesso.
Talché, nel tripudio dell’homo oeconomicus, la forsennata ricerca dell’utilità (scambiata per benessere o addirittura per felicità) viene matematicamente misurata, prevista e resa funzionale al dominio, alla competitività, alla vittoria schiacciante su tutti gli altri e sulla natura. Su ogni forma di sapere che non sia precisamente misurabile.
Ne risulta dunque un insieme di tecnologia, scienza e riduzionismo — tanto logico quanto economico e produttivistico. Tutto nel segno della ipercomputazione, di una sorta di ideale computer fornito di un preciso programma da eseguire.
Del resto, si può forse introdurre alcunché in un programma informatico senza che lo si pensi secondo una logica opportunamente adatta a tal fine, e senza che lo si scriva in un linguaggio comprensibile alla macchina appositamente costruita per eseguirlo?
Lo si deve, perciò, rendere algoritmicamente sequenziale in base a precisi criteri logici, assunti quali regole prescrittive. Un algoritmo che non soddisfacesse tali condizioni non verrebbe compreso dalla macchina. La quale può compiere solo passaggi elementari, non ulteriormente scomponibili; univoci, finiti, in un tempo definito e con un risultato determinato, inoppugnabile, evidente, valutabile, efficiente.
D’altro canto, se così non fosse, che macchina sarebbe?
Il guaio, però, sta in ciò che ne consegue.
Ogni pensiero (o qualsiasi logica) che non si basi sulle medesime regole, e che non persegua una siffatta paradigmaticità programmatica, appare indegno di questo nome. Perché viene ritenuto incompatibile con l’efficienza, la terminabilità, l’univocità parcellizzata. Insomma, non rispondente all’economicismo utilitaristico.
Pertanto, il non calcolabile — ossia ciò che è ambiguo, simbolico, polisenso, ineffabile, logicamente sfuggente — va respinto in quanto obsoleto, inaccettabile, eversivamente luddista.
Luddista, poiché rompe gli schemi e gli ingranaggi della efficientissima macchina (tecnologico-scientistico-economico-finanziaria) lanciata a folle velocità verso le magnifiche sorti delle progressive nevrosi da prestazione di tutti gli umani meccanicamente scattanti, ginnici, palestrati nel corpo e nella mente. Smaniosamente invasati di ottimismo ottuso. Sempre connessi, senza altro orizzonte al di fuori di quello comprensibile alla macchina. E protesi dunque a cercare l’algoritmo definitivo che programmi un procedimento risolutore — per via informatica — di tutti i problemi. Pure di quelli che richiedono la formulazione delle diagnosi più complesse.
Certo, in alcuni alberga il sospetto che pure l’algoritmo degli algoritmi, perfino quello più potente — capace di imitarci, di imparare dai nostri dati e dedurre dai dati tutto il sapere del mondo — non riuscirebbe comunque a ridurre le disuguaglianze. Mentre altri sono magari alquanto ottimisti su questo punto. Ma, di sicuro, quasi tutti concordano nel considerarlo neutro. Come dire che eticità e giustizia non dipendono dall’algoritmo in sé, ma dall’uso che se ne fa.
Può darsi. Tuttavia, non è proprio così.
Da quando tecnologia, scienza, interesse economico-finanziario sono diventati quasi inestricabili, gli algoritmi, i modelli matematici e i programmi informatici regolano le vite di tutti. Decidono con una apparente imparzialità tempi, modi di lavorare, di pensare, di agire.
In realtà, benché costruiti secondo regole e astratti simboli, non sono affatto obiettivi — e quand’anche lo fossero, l’obiettività esasperata è propriamente l’anticamera del disumano luogo astratto della massima alienazione.
Tutt’altro che neutri, essi discriminano come e più degli umani.
Sotto la maschera della presunta purezza scientifica, potenziano precisi interessi e intenzioni ideologiche. Lontanissimi dalla matematica pura, sono prevalentemente il frutto di opinioni adattate e tradotte in formalistico linguaggio matematico. Tant’è che l’assolutismo della calcolabilità rafforza, massimizza l’efficienza selezionatrice e discriminatoria, obnubilando ogni possibile istanza di equità o di giustizia. E ciò attraverso la maschera della oggettività dei dati, appresi in modo automatico dall’algoritmo. Il quale sa di noi quello che di noi è riducibile a dato.
Se tutti però, non solo restiamo sempre “connessi”, ma esistiamo in funzione della macchina, di sicuro possiamo diventare nient’altro che una astratta forma esteriorizzata, una ambulante banca di dati. Proprio così, infatti, veniamo considerati, studiati, manipolati dalle molteplici compagnie di marketing allo scopo di indirizzarci negli acquisti, di convincerci che i nostri desideri più intimi possono venir soddisfatti dal planetario supermercato di cui siamo obbligatoriamente clienti.
Tutti uguali, prevedibili, misurabili — visto che al di fuori dell’aspetto quantitativo null’altro ci resta.
Di una simile “democrazia” mercantile-finanziaria sono agenti essenziali gli algoritmi e i programmi computerizzabili. Ovvero la logica, il pensiero, la visione del mondo, il modello educativo e politico ad essi funzionali.
Sicché, per mezzo di essi, siamo matematicamente governabili quali automi programmati per il raggiungimento di ben determinati scopi economici, entro un preordinato meccanismo asettico, efficientissimo.
Finalmente una perfetta “democrazia” sembra realizzabile, nella misura in cui la perpetua connessione, o la totale simbiosi con le macchine, ci rende nient’altro che un insieme complesso di dati valutabili secondo esatti criteri.
Una “democrazia” siffatta vorrebbe estinguere sul nascere (mentre li alimenta a dismisura) tutti i conflitti, rendendoli prevedibili. Per dominarli. Possibilmente non con la sola forza delle armi belliche, ma con quella della scienza tecnologicizzata e volta al servizio dell’homo oeconomicus. E dunque della ricerca di un algoritmo definitivo, risolutore di qualsiasi problema, se e quando gli umani diventeranno totalmente automi. Privi cioè di quella interiorità, ricolma di musicale armonia dei contrari, che invece li renderebbe profondamente pensosi. Sfuggenti, perciò, alla misurazione. Come pure altrettanto sfuggenti al principio stesso di non-contraddizione, su cui tutta l’impalcatura della occidentale razionalità (ovvero l’ossessione maschile di potenza) si regge.
Più concretamente, l’interiorità pensosa li renderebbe capaci di scorgere quale profonda differenza vi sia fra il principio di non-contraddizione (nonché del terzo escluso, suo inscindibile corollario) e la contraddizione dialetticamente intesa. La abissale differenza, insomma, fra la logica delle scienze esatte, matematizzate o cosiddette naturali, e quella in grado di comprendere le dinamiche storico-economico-sociali entro un processo irto di inconciliabili contraddizioni.
Se nella prima vige la logica formale, nella seconda è egemone la dialettica: la polarità (in tutte le cose) degli estremi, l’uno all’altro opposto secondo un continuo lavoro del negativo. Poiché ogni realtà confligge e si scontra con il suo contrario, ossia, con ciò che la nega. Per cui, non solo risulta quasi più facile dire di una cosa ciò che essa non è, anziché ciò che essa è, ma nulla si può comprendere se non a partire dal polo opposto di essa medesima. Il che vuol dire che ogni realtà — invece di presentarsi non contraddittoria o sempre simile a se stessa — nutre in se medesima il suo contrario, alimentando tali e tante contraddizioni che, da dentro, ognora la trasformano dialetticamente.
E dialettici risultano sia l’incessante divenire delle forme storiche del reale e sia il pensiero che un simile processo storico comprende. A differenza della logica formale, che invece — progressivamente fagocitata dagli interessi dello scientismo tecnologico economicistico — ipostatizza in presunta matematica pura gli algoritmi. I quali, impregnati di ideologia ma fatti passare per neutralmente imparziali, dovrebbero impedire sul nascere qualsiasi conflitto, tutto ciò che possa contraddire il dominio assoluto del sistema capitalistico: dell’accumulo fine a se stesso o dello sfruttamento.