I dieci punti che sconvolsero la scuola

L'asino vola

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Una risposta a Ernesto Galli della Loggia

di Guido Baldi

Sul «Corriere della Sera» del 5 giugno 2018 il professor Ernesto Galli della Loggia rivolge al neoministro dell’Istruzione la proposta di alcune semplici misure da adottare per dare subito l’idea «che qualcosa sta veramente cambiando nella scuola italiana», e intende suggerire la direzione in cui deve andare tale cambiamento. La proposta si articola in dieci punti.

  1. Munire di nuovo le cattedre di una predella, in modo che l’insegnante sia di alcune decine di centimetri al di sopra del livello degli studenti.

«Ciò avrebbe il significato di indicare con la limpida chiarezza del simbolo che il rapporto pedagogico […] non può implicare alcuna forma di eguaglianza tra docente e allievo. La sede propria della democrazia non sono le aule scolastiche».

Dopo un attimo di sbalordimento dinanzi all’idea della predella, e fugato il dubbio che il chiarissimo docente stia celiando, il pensiero ricomincia a funzionare: traducendo il simbolo, evidentemente a Galli della Loggia sta a cuore l’autorevolezza dell’insegnante, che sarebbe compromessa da un’eccessiva familiarità con gli allievi. Ma a chiunque dotato di senno non sfuggirà che non è certo qualche centimetro di elevazione fisica, con tutto il suo «limpido» valore simbolico, ad assicurare autorevolezza e prestigio a chi sta in cattedra: ovviamente l’autorevolezza è garantita prima di tutto dalla cultura, una cultura viva e vissuta, di cui il docente sia appassionato, e in secondo luogo dalla capacità di trasmetterla, di interessare e appassionare a loro volta i destinatari; e poi ancora dalla qualità umana del rapporto con i giovani, dalla sensibilità, dalla capacità di ascoltare e capire, dall’imparzialità e dall’equità delle valutazioni, senza favoritismi e simpatie, dalla coerenza e dall’equilibrio nelle scelte e nei comportamenti, dall’impegno serio e costante nel lavoro.

Ma se la prima asserzione sulla predella provoca sbalordimento incredulo, quelle successive, sul fatto che tra docente e allievo non ci possa essere alcuna forma di eguaglianza e che l’aula non sia la sede propria della democrazia, generano inquietudine e preoccupazione. Certo, insegnante e allievo non sono “uguali”: il signor de la Palisse direbbe che l’uno sa molte cose, l’altro no, e per questo va a scuola, per impararle. Ma altrettanto certamente vi deve essere tra loro una forma di eguaglianza, quella dei diritti e dei doveri: gli studenti hanno il diritto di ricevere un insegnamento di alto livello ed efficace, di essere valutati con precisione ed equità, di essere trattati con rispetto e comprensione, e il dovere di impegnarsi nello studio; simmetricamente, il docente ha il diritto di essere seguito con attenzione, serietà e rispetto, e il dovere di impegnarsi a fondo nel far bene il suo lavoro. Perciò negare ogni «forma di eguaglianza» può suonare come legittimazione dell’arbitrio autoritario e dispotico del professore-duce, che impone in classe il suo volere senza l’obbligo alcuno di motivarlo e di ascoltare il parere degli altri. Galli della Loggia dovrebbe ponderare le parole, che hanno il loro peso. Non solo, proprio nella aule i giovani devono sperimentare le prime forme della democrazia. Forse l’illustre collega intende dire che le valutazioni non devono essere sottoposte a votazione a maggioranza, e su questo non ci sono dubbi: la valutazione è prerogativa e responsabilità dell’esperto, così come la diagnosi e la terapia sono prerogativa e responsabilità del medico, e nessuno si sognerebbe di sottoporle a votazione. Democrazia nelle aule vuol dire altro, cioè che non ci devono essere imposizioni autoritarie e arbitrarie dall’alto, prive di ogni motivazione, ma che i vari momenti della vita della classe devono fondarsi sul confronto delle posizioni, sul dialogo costruttivo: la data di un’interrogazione generale programmata, di un compito in classe, il peso dei compiti a casa, la scelta dei testi da leggere e la loro quantità possono essere oggetto di discussione collettiva, di confronto e di valutazione ponderata, che tenga conto delle esigenze di tutti: e proprio in queste forme di confronto civile all’interno di una piccola comunità può maturare la responsabilità e la consapevolezza del giovane. Sta appunto all’autorevolezza dell’insegnante far sì che questi momenti di dialogo e programmazione collettiva non degenerino in uno squallido mercato o peggio in un arbitrio da parte della classe, simmetrico e opposto rispetto a quello dell’insegnante despota.

2) Sempre in base al principio della non eguaglianza, Galli della Loggia propone che sia reintrodotto l’obbligo per gli studenti di alzarsi in piedi all’ingresso dell’insegnante, in segno di rispetto. In realtà non è da questo rito formale che si può misurare il rispetto nei confronti del docente. Ricordo che quando insegnavo in un liceo, ormai parecchi anni fa, al cambio di ora trovavo sempre i ragazzi fuori dell’aula, nel corridoio. Dopo una, a volte due ore di immobilità e concentrazione, il bisogno di muoversi e sgranchirsi un momento era fisiologico, e persino salutare per la partecipazione alle lezioni successive. I ragazzi mi si assiepavano intorno festanti a salutarmi, a pormi domande, a fare battute scherzose, poi mi seguivano in aula e in due minuti erano nei banchi pronti per la lezione. Galli della Loggia inorridirebbe ad apprenderlo, ma il rispetto verso l’insegnante non si misura dal fatto che la classe si alzi in piedi di scatto, magari battendo i tacchi, bensì dal modo in cui l’insegnante viene accolto, dalla prontezza con cui si ricompone l’ordine necessario al lavoro collettivo. Bisogna guardare alla sostanza, non alle forme esteriori, che di per sé sono vuote, non significano nulla. Una classe può scattare in piedi sull’attenti, all’ingresso di uno scadente professore-duce, per puro timore di punizioni e rappresaglie, mentre poi ne dà un giudizio pessimo e lo disprezza profondamente, per la sua mancanza di cultura e di umanità.

3) La terza proposta è un «divieto deciso» contro ogni occupazione e autogestione, che

«non servono a nulla se non, assai banalmente, a non studiare».

È vero che da parte degli studenti si è persa la memoria storica del significato e della funzione di occupazioni e autogestioni, ed esse si sono ridotte a rituali stanchi e praticamente vuoti, privi delle motivazioni politiche e culturali che avevano generato tali forme di contestazione e di lotta studentesca, capaci in tempi passati di contribuire alla maturazione democratica dei giovani. Ad esse, tra l’altro, ormai partecipa in genere una percentuale molto bassa degli studenti della scuola. In che cosa allora può consistere concretamente la soluzione, proposta da Galli della Loggia con la generica formula del «divieto deciso»? Repressione dura? Sospensioni a raffica e quattro in condotta a tutti con perdita dell’anno scolastico? Intervento della polizia a sgomberare con la forza e con i manganelli e denunce penali? A parte la ripugnanza per simili metodi (se si è capaci di provarla: ma di questi tempi, Salvini consule…), è facile prevedere a che cosa darebbero origine provvedimenti così estremi: invece di offrire soluzioni creerebbero più gravi problemi. La via potrebbe forse essere un’altra, che non sia né la repressione autoritaria né l’ignavo e pilatesco laisser faire. Il corpo docente dovrebbe dare avvio a un franco dialogo con gli studenti sul senso reale che possono avere oggi quelle iniziative, impegnandoli in ricerche storiche sul senso che avevano all’origine. Così si avrebbe anche una ricaduta didattica produttiva, un’occasione di riflessione storica su un periodo della vita sociale e politica del passato, di cui i giovani oggi sono in larga parte all’oscuro. Al termine del processo di presa di coscienza, sarebbe il caso di valutare se quelle iniziative possono ancora avere una validità e pensare se sia possibile riempire i rituali vuoti di nuovi contenuti.

4) La quarta proposta è la cancellazione di ogni norma che preveda

«un qualunque ruolo delle famiglie o di loro rappresentanti nell’istituzione scolastica».

La motivazione è che non ci sono rappresentanti dei pazienti negli ospedali, degli automobilisti nella Motorizzazione e dei contribuenti nell’Agenzia delle Entrate: quindi volere le famiglie nella scuola è pura demagogia, di cui è meglio fare a meno. Su questo punto Galli della Loggia non ha tutti i torti, peccato che non colga la vera sostanza del problema e argomenti in modo distorto. Storicamente, la presenza di rappresentanti delle famiglie nel consiglio di istituto e nei consigli di classe fu voluta dalla DC di Fanfani nel 1974, con i Decreti Delegati allora emanati, e ancora in vigore. L’intento, chiaramente, era un controllo delle famiglie in direzione conservatrice sulla scuola del post-Sessantotto, nelle mani dei “comunisti” (era anche l’anno del referendum sul divorzio, promosso dallo stesso Fanfani: il disegno era coerente). Ricordo che molti genitori e studenti, vicini al PCI, non capirono il senso dell’operazione, salutando l’ingresso delle famiglie come mirabile occasione per democratizzare finalmente la vita della scuola, e si impegnarono a fondo nelle elezioni. I gruppetti della nuova sinistra invece, a cui appartenevano i leader del movimento studentesco, assunsero posizioni duramente critiche, denunciando proprio la funzione di controllo conservatore, se non reazionario, della presenza delle famiglie negli organi di reggenza degli istituti. Il fatto è che la vita democratica della scuola dovrebbe essere gestita da chi ci lavora, i docenti, gli studenti (nelle superiori, e magari in certa misura anche nelle medie) e il personale amministrativo e ausiliario. Le famiglie non dovrebbero entrarci, tanto meno per esercitare un controllo conservatore.

Con il passare del tempo poi quella presenza delle famiglie è diventata routine, abbastanza svuotata di significato. Le famiglie spesso sono un ingombro estraneo, che della scuola sa poco e capisce poco, quindi costituisce un ostacolo e un freno, altrettanto spesso sono solo una presenza inutile, raramente danno un apporto positivo.

I paragoni proposti con gli ospedali, la Motorizzazione e l’Agenzia delle Entrate non funzionano. La Motorizzazione e l’Agenzia non sono paragonabili alla scuola, perché sono istituzioni burocratiche che forniscono un servizio burocratico, mentre nella scuola vi è un rapporto tutto diverso tra l’erogatore del servizio e i suoi fruitori, un dialogo educativo e formativo, uno scambio culturale, quindi una forma di democratizzazione nel rapporto fra le componenti è necessaria e salutare. Di conseguenza, è giusto che i fruitori del servizio partecipino alla gestione della scuola e alle decisioni fondamentali: se non le famiglie, gli studenti. La natura dell’ospedale è più simile a quella della scuola e una democratizzazione del rapporto dei pazienti con medici e personale infermieristico sarebbe auspicabile, proprio per la difesa dei loro diritti, non sempre rispettati: una sorta di rappresentanza “sindacale” delle famiglie dei pazienti (vista la difficoltà di questi a gestire in prima persona i rapporti), che si confronti con il personale ospedalieri sui vari aspetti della vita delle corsie (ma anche una “sindacalizzazione” dei contribuenti, che li difenda dagli errori e dagli arbitri del fisco, non sarebbe a pensarci bene una brutta cosa…).

5) Più sensata è la proposta di vietare la convocazione di riunioni di insegnanti per più di tre o quattro volte al mese. La scuola attuale è vittima di un eccesso di burocratizzazione, che la sta soffocando. Le riunioni sono necessarie quando si tratta di decidere qualcosa di importante, il che non si verifica molte volte nel corso dell’anno. Per il resto si tratta di adempimenti puramente formali, che contribuiscono solo a distogliere il corpo docente da quelli che, dopo le lezioni, dovrebbero essere gli impegni fondamentali: svolgere attività integrative con gli allievi, preparare le lezioni, correggere gli elaborati e soprattutto studiare; perché

l’insegnante che non studia accanitamente per tutta la vita si riduce presto a meccanico ripetitore di idee rancide e luoghi comuni invecchiati.

6) La proposta di affidare agli studenti la pulizia degli edifici scolastici è talmente bislacca che non merita di essere presa in considerazione. Gli studenti a scuola devono andare per studiare. E se se sono tenuti a fare esperienze di collegamento tra scuola e lavoro, devono effettuarle nel campo di pertinenza dei loro studi, perché siano proficue.

7) Condivisibile invece è la proposta di escludere drasticamente gli smartphone dalle scuole (provvedimento che peraltro è stato attuato in Francia): ognuno vede l’incidenza devastante che possono avere sulle lezioni gli scambi di messaggi e i collegamenti tramite social networks vari; non solo, ma cinque ore di astinenza potrebbero avere salutare effetti disintossicanti. A meno che i telefoni non siano usati come strumenti per l’insegnamento, visto che da un lato la didattica digitale è propugnata dal Ministero, mentre dall’altro le classi difettano spesso delle necessarie tecnologie. Ma bisogna aver ben presenti tutti i rischi che comporta l’acquisizione di dati dalla rete, dove si trova di tutto, cose buone e cose infami, tra cui è difficile per i ragazzi imparare a distinguere.

Ancora più urgente sarebbe capire perché gli studenti siano così ipnotizzati dagli schermi degli smartphone: e trovare una risposta non è facile, a giudicare dalla somma di interpretazioni proposte da psicologi e sociologi. A me, sulla base dell’esperienza accumulata a scuola, vengono in mente alcuni motivi. La società capitalistica moderna, specie quella avanzata, schiaccia l’individuo, ne annulla la personalità, confondendola all’interno di una massa amorfa e del tutto omologata. Il fenomeno è particolarmente sentito dagli adolescenti, la cui personalità è ancora in formazione, ancora fragile e incerta, quindi patisce di più questa cancellazione e questa omologazione, subite proprio nel momento in cui dovrebbe affermarsi e consolidarsi. Per questo l’adolescente prova fortemente il bisogno di sentirsi qualcuno, di avere un valore speciale, di essere importante, di contare per gli altri. Allora i social media gli danno l’illusione di poter riscattare la sua nullità e di contare qualcosa: può riversarvi i fatti minimi e insignificanti della sua giornata e credere che possiedano un valore, gratificato dalla serie di contatti che ottiene e di like che riceve.

L’annullamento della singolarità e l’omologazione provocano parimenti un tremendo senso di isolamento e di solitudine, tipico della società moderna e portato al’estremo da quella attuale. È la «folla solitaria» analizzata da David Riesman.1 L’individuo è omologato agli altri ma al tempo stesso con gli altri non riesce ad instaurare rapporti umani autentici. Anche in questo caso il senso di solitudine che connota la società in generale è particolarmente patito dagli adolescenti, che nel loro processo di formazione hanno bisogno non solo di conferme del proprio valore ma anche di legami affettivi, di essere apprezzati e amati. Così su Facebook possono trovare folle di “amici”, che illusoriamente soddisfano questo bisogno. In realtà si tratta di legami puramente virtuali, cioè inconsistenti e in definitiva falsi, che in effetti non hanno nulla a che vedere con i legami autentici di amicizia, che esigono il rapporto fra persone reali, poche e selezionate, e persino il contatto fisico.

L’impossibilità di stringere legami autentici implica l’estrema difficoltà di stabilire una comunicazione fra gli individui. L’incomunicabilità è uno degli aspetti più tipici del nostro tempo, ed è stata rappresentata da romanzi, testi teatrali e film. E anche in questo caso colpisce particolarmente un’età come l’adolescenza, con i suoi turbamenti che portano spesso, per timidezza e insicurezza, a chiudersi in sé, a non avere il coraggio di aprirsi agli altri e parlare con essi. L’estrema facilità tecnica di comunicare consentita dagli smartphone, attraverso messaggi WhatsApp, messaggi vocali, chat, come sempre dà l’illusione della facilità di una vera comunicazione interpersonale. Ciò può spiegare il continuo scambio di quel tipo di messaggi tra i ragazzi, magari per dirsi cose assolutamente futili. È la funzione fàtica del linguaggio, indirizzata essenzialmente sul canale, per saggiare che sia aperto. Il vantaggio è che quel tipo di messaggi esclude la fatica, le difficoltà, gli imbarazzi di uno scambio dialogico diretto, a voce: lo scritto o il messaggio registrato vincono ogni inibizione, si può “dire” tutto. Un “dire” virtuale però, anche in questo caso, cioè falso, ingannevole.

Ma ormai il virtuale trionfa. La società tardo capitalistica da un lato accentua la reificazione dell’individuo, abbassandolo al livello delle cose che lo circondano, l’universo delle merci, dall’altro derealizza la realtà, la sostituisce con simulacri fasulli, il nuovo “oppio dei popoli”, allo scopo di esercitare un ferreo controllo. L’adolescente è facile vittima di questa derealizzazione, perché passa ore davanti alla televisione sin dalla più tenera infanzia, è bombardato sin dai primi anni da messaggi pubblicitari che propagandano la felicità attraverso il possesso di certi oggetti, e per di più oggi trascorre molto tempo immerso nei videogiochi, che possono generare fenomeni patologici di dipendenza e portare a non saper più distinguere il virtuale dal reale. Non meraviglia allora che anche i rapporti umani siano inghiottiti dalla sfera del virtuale.

8) L’ottava proposta è l’obbligo per tutti gli istituti di tenere aperte ogni giorno per l’intero pomeriggio una biblioteca e una cineteca con cicli di proiezioni, impiegando se occorre studenti di buona volontà. Secondo il professore la presenza di biblioteche e cineteche dovrebbe rientrare fra gli elementi della valutazione delle scuole, e i fondi necessari si potrebbero ricavare dimezzando il buono da 500 euro agli insegnanti. Ora, di norma, tutte le scuole possiedono una biblioteca e una cineteca, più o meno fornita. Il problema è trovare chi le tenga aperte per quattro o cinque ore tutti i pomeriggi. Pagare personale apposito è improponibile, dati i bilanci striminziti, e non penso che la riduzione dei 500 euro, anche facendo l’ipotesi che sia giusta, sarebbe sufficiente. D’altro canto fare ricorso al volontariato è troppo aleatorio. Per la cineteca il discorso si complica: la presenza di personale tecnico e di insegnanti sarebbe indispensabile. Nessun preside, responsabile in solido, affiderebbe macchinari costosi alle mani degli studenti. Poi l’intervento di docenti non solo per la biblioteca ma anche per la scelta e la lettura dei film, da concordare con gli studenti, sarebbe anch’essa indispensabile, per assicurare produttività didattica e culturale all’iniziativa ed evitare che le proiezioni siano solo un’occasione ludica ed evasiva. E anche gli insegnanti, oltre l’orario di servizio, vanno pagati.

9) Il nono punto prevede la scelta esclusivamente di località italiane per le gite scolastiche, perché non ha senso conoscere l’Europa senza conoscere prima le meraviglie d’Italia. Certo è opportuno che i giovani conoscano le tante bellezze artistiche e naturali del loro paese, che spesso ignorano. Ma in un’epoca come questa, di scambi sempre più vasti e intensi con il mondo, come si può rinunciare ad allargare i confini? Si rischia di ridursi nei limiti di un asfittico e mediocre nazionalismo (chiedo scusa: oggi si chiama “sovranismo”). Piuttosto il problema è costituito dal funzionamento e dalla produttività didattica effettiva di questi “viaggi di istruzione” (tale è la denominazione nel gergo ministeriale). Essi dovrebbero essere momenti didattici equivalenti alle normali lezioni, quindi dovrebbero contribuire all’arricchimento culturale dei giovani, attraverso la conoscenza diretta di quei capolavori d’arte studiati solo sui libri. Ma l’esperienza ci dice che ciò si verifica piuttosto raramente. Il più delle volte la “gita”, come viene chiamata comunemente, è davvero solo una gita, un momento ludico in cui ragazzi e ragazze, sottratti per qualche giorno al controllo e alle regole magari oppressive della famiglia, scatenano i loro sani impulsi vitali giovanili: notti interamente insonni, feste nelle camere, sesso (ma purtroppo anche spinelli, schiamazzi, bravate, talora vandalismi e bullismi), e di giorno l’inevitabile vagolare per musei di zombies in trance, sempre che si presentino al seguito degli insegnanti. In sostanza, in troppi casi il valore didattico dei pretesi “viaggi di istruzione” è nullo. Allora non si vede perché tali iniziative, così belle per chi ne gode, debbano occupare ampi settori del tempo scolastico, a volte una settimana intera. Dinanzi a tutto ciò gli accompagnatori sono impotenti, a volte perché il dominio del caos è superiore a ogni forza umana, a volte per ignavia, abulia, quieto vivere, intenzionale cecità (o sonno di piombo, beati loro). Chi vuole vedere una descrizione iperrealistica di una gita scolastica, esilarante ma con un fondo amaro, si legga l’episodio relativo nel libro di un insegnante che del problema se ne intende, Ex cattedra di Domenico Starnone.

10) L’ultimo punto suona un po’ strano: auspica l’obbligo di designare sempre gli istituti scolastici con il loro nome, non con un semplice numero o l’indicazione di una via. Mi consta che l’uso corrente e universale sia proprio quello di chiamare le scuole con il loro nome, “D’Azeglio”, “Parini”, “Galvani”, “Mamiani” e così via. A che cosa faccia riferimento l’articolista mi suona misterioso.

L’invito finale al «signor ministro» perché tenga fede allo slogan del «cambiamento» di cui si fregia l’attuale governo fa sorridere: e non perché sia antifrastico e sarcastico, come dovrebbe essere, ma perché è proprio ridicolo in sé, nella sua patetica ingenuità. Ridicolo infatti è un invito simile rivolto a un governo che per tutto il travagliato processo di formazione del programma e del famoso «contratto» non ha rivolto alla scuola alcuna seria attenzione, ma solo accenni generici e banali, dimostrando chiaramente che di essa non gli importava nulla. E non c’è da meravigliarsi, vista la statura intellettuale e culturale dei suoi membri, come il vicepremier che non sa usare i congiuntivi, scambia il Venezuela con il Cile, definisce la Russia «paese mediterraneo», non conosce la differenza fra Stato e governo («lo Stato ora siamo noi»), come la sottosegretaria alla Cultura che proclama di non leggere un libro da tre anni, come il ministro dei trasporti che è favorevole alla flat tax «purché progressiva», ignaro della contraddizione che non lo consente, e come la ministra della Salute che, probabilmente senza avvedersene, propugna l’ossimoro dell’«obbligo flessibile» per i vaccini.

Una volta esaminati singolarmente i dieci punti, è il momento di dare una valutazione complessiva della proposta. Il fatto che qualcuno pensi che un «cambiamento» della scuola possa passare attraverso simili indicazioni, sia convinto che esse non siano proprio per nulla «piccola cosa» e che mostrino addirittura la direzione verso cui il cambiamento deve andare, getta nello sconforto. La nostra scuola è in pessime condizioni, come dimostra il livello sempre più basso della preparazione degli studenti che si affacciano all’università, e come confermano i test pisa, per quanto possono valere. Per porre rimedio al disastro occorrerebbe progettare un cambiamento davvero radicale, e occorrerebbe pensare in grande, con coraggio e forza inventiva. È necessario ripensare dalle fondamenta la formazione, il reclutamento e l’aggiornamento degli insegnanti, in modo da garantire alto livello culturale e omogeneità, rimodulare i programmi, rinnovare i metodi di insegnamento, investire negli strumenti, laboratori, biblioteche, mezzi digitali. Vanno ripensati l’organizzazione stessa della scuola, le funzioni della dirigenza, gli orari di lavoro, le retribuzioni, il controllo dell’efficacia didattica degli insegnanti.

È necessaria insomma una vera riforma, complessiva e soprattutto organica, ispirata a un’idea culturale alta e coerente, che ridia alla scuola serietà ed efficacia, non la serie di interventi parziali e scoordinati sinora effettuati, spesso insulsi e controproducenti. Altro che rimettere le predelle sotto le cattedre. Come direbbe Leopardi, «non so se il riso o la pietà prevale».

1 D. Riesman, La folla solitaria, trad. it., il Mulino, Bologna 1956 .

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