Il caos della nostra vita
di Franco Prono
Agli studiosi delle discipline scientifiche viene oggi richiesta una specializzazione sempre più parcellizzata per affrontare specifici problemi teorici e pratici. In campo umanistico e artistico non mancano gli “specialisti” orgogliosi del proprio impegno in un unico settore; sono però convinto che coloro che operano in questo ambito debbano necessariamente aprirsi ad esperienze multidisciplinari di ampio respiro, in quanto sono molteplici le affinità, i contatti, le interdipendenze tra i diversi campi di studio e di ricerca. Il caso di Andrea Balzola mi pare esemplare in questo senso: docente dell’Accademia di Belle arti, è studioso di arte, cinema, teatro, televisione e altri media audiovisivi, scrittore, poeta, sceneggiatore, drammaturgo, regista multimediale. Questa sua multiforme attività potrebbe farlo cadere in un’eccessiva dispersione, in uno “spreco” di intelligenza e di sensibilità espressiva, se i suoi lavori non fossero densi di una costante tensione a “scavare” nella realtà dell’uomo e del mondo in cui l’uomo vive, con l’intento di svelare l’ “oltre” di tale realtà, sia nei suoi aspetti razionali, sia in quelli irrazionali. Il rigore della ricerca da un lato tenta di conferire un senso a fenomeni che paiono non possederlo, dall’altro mira a scoprire una verità sempre sfuggente e a riconoscere i confini dell’irraggiungibile mistero della vita — e della morte.
Il titolo dell’ultima pubblicazione di Balzola — Caos Caso Cosa — chiarisce subito le tematiche che appartengono ai cinque racconti che la compongono. Si tratta di tre parole-anagrammi composte dalle stesse quattro lettere e paiono rivelare una comune origine di senso. Secondo l’autore,
«la storia dell’umanità potrebbe essere raccontata e letta come un conflitto costante, o un rimescolamento, tra Caos, Caso e Cosa».
Sappiamo che i “sistemi” che sono alla base del mondo (dalla materia fisica all’organizzazione sociale) tendono naturalmente all’entropia, al caos e al disordine, per cui pare sostanzialmente inefficace qualsiasi tentativo di ribaltare questa tendenza:
«l’uomo si ostina a contrastare questo processo cercando di far prevalere l’ordine con la razionalità del pensiero, l’organizzazione della società, l’ostinazione della volontà, la progettazione del futuro o la fede in un disegno divino».
Pertanto i cinque racconti del libro hanno in comune tra loro la stessa visione entropica dell’esistenza, sia nelle tematiche e nello sviluppo narrativo spiazzante e sorprendente, sia nella forma discorsiva in cui si intrecciano continuamente dati concreti e reali, eventi paradossali, aperture irrazionali e visionarie. Perfettamente coerenti con questa impostazione sono i cinque disegni di Silvia Giardina che “commentano” i testi elaborando visivamente l’ambiente caotico in cui viviamo.
Nel primo racconto, Terremutanti, abbiamo una tragedia provocata dall’entropia della natura: un terremoto devastante distrugge edifici, cose, persone e al tempo stesso dà vita a onirici desideri di resistenza e a immaginari sforzi di rigenerazione. Il secondo, Facciamola finita, mostra come la coscienza del proprio ineluttabile fallimento esistenziale può portare l’essere umano al tentativo di autodistruzione. Sembra che l’unica ribellione possibile contro le forze entropiche sia il tentativo di darsi la morte da sé, rifiutando così di sottomettersi all’umiliante decadenza fisica e morale e all’accettazione della mediocrità, della solitudine, del dolore. Il caos domina la vita quotidiana dei protagonisti di Casa dolce casa. Un uomo e i suoi figli si muovono in un ambiente domestico invaso in modo inverosimile da oggetti, in un caos a cui è impossibile porre rimedio. Si tratta di un disordine cosmico che rasenta l’astrazione, e pertanto può essere eliminato soltanto attraverso la totale distruzione dell’esistente. La quotidianità di un viaggio in treno, all’inizio del racconto Il telefono invisibile, pare una situazione rassicurante; l’incontro con una bella passeggera potrebbe dare il via a sviluppi narrativi romanzeschi, ma una “cosa”, il telefono cellulare attraverso cui la donna ha conversazioni in una lingua sconosciuta, determina l’affacciarsi di curiosità e inquietudine senza far presagire la sua vera funzione, quella di strumento capace di scatenare la tragedia, il caos, la morte. La “normale” quotidianità nasconde un mistero apocalittico di cui non abbiamo coscienza. Il mistero è il motivo narrativo centrale dell’ultimo racconto, Welcome to Bangkok, una specie di noir in cui non mancano gli elementi caratteristici di questo genere letterario: zuffe, sparatorie, omicidi, fughe, inseguimenti. Ma si capisce subito che si tratta di un falso intreccio perché le “regole” del genere vengono continuamente disattese, tradite, ribaltate. Si tratta di espedienti per immergere il lettore nel mistero dell’esistenza. Quasi sempre i racconti “gialli” che nell’ultima pagina pretendono di spiegare il senso degli eventi narrati definendo le responsabilità dei personaggi e dividendoli in “buoni” e “cattivi”, propongono una soluzione insoddisfacente, banale, poco credibile, in quanto sappiamo bene che nella realtà è molto difficile o quasi impossibile distinguere nettamente il bene dal male e ricostruire con esattezza come e perché un certo evento è avvenuto.
Ci si può illudere che alla fine di ogni ricerca, di ogni indagine, sia possibile trovare la Verità; in realtà è inevitabile scontrarsi sempre e comunque con il mistero dell’esistenza, con l’inconoscibile, con l’assenza di senso.
Alle tre parole del titolo del libro mi piacerebbe aggiungerne una quarta, che non è però un loro anagramma, anche se è molto somigliante: Casa, elemento che mi sembra centrale in quasi tutti i racconti. Essa è il luogo dell’intimità domestica in cui i personaggi si trovano soli con se stessi, ma al tempo stesso costituisce la loro prigione da cui è impossibile evadere se non con la morte. La presenza spettrale delle case distrutte dal terremoto avvolge le azioni del protagonista di Terremutanti:
«Antichi muri di pietra e moderni pilastri di cemento si sgretolano come sbriciolati dalle dita di un gigante invisibile»;
pertanto chi cammina per le strade devastate deve stare attento a non essere investito dal crollo di una casa e ad evitare di inciampare negli oggetti di ogni tipo che
«vengono da cucine o da salotti, da camere da letto, da uffici o da negozi, reperti di un colossale naufragio di terra».
Regna un caos assoluto: le case e le cose che esse contengono si ribellano alla loro consueta funzione “protettiva” e aggrediscono gli esseri umani:
«le pareti e i tetti si rivoltano contro i loro abitanti, schiacciandoli, squartandoli, trafiggendoli, soffocandoli».
La casa del protagonista, che per quanto lesionata è ancora abitabile, costituisce per lui un rifugio, una culla rassicurante, ma al tempo stesso si rivela una tomba. Egli raccoglie e porta in casa tutto ciò che può servire alla propria sopravvivenza,
«quello che nei popoli antichi si portava anche dentro la tomba come bagaglio indispensabile per l’ultimo viaggio. Qui, nella mia tana, ogni passo e ogni gesto è stato sperimentato, potrei diventare cieco e sordo, ma saprei ugualmente come muovermi e cosa fare, nella mia casa, cassa, culla».
Il protagonista di Facciamola finita cerca in ogni modo di uccidersi, ma ad ogni tentativo fallisce uccidendo più o meno involontariamente altre persone. Non ci vengono spiegati in modo preciso i motivi per cui ha preso questa decisione estrema, ma è evidente il suo invincibile disagio esistenziale. La casa in cui egli abita e in cui progetta le azioni autodistruttive è descritta come un ambiente squallido e angosciante, dove non ci si può vivere senza inquietudine:
«Questo bilocale lo odio ormai, è umido e organizzato male, con una stanza stretta e lunga, e un’altra troppo grande, un cucinotto striminzito con una vecchia caldaia a gas e un bagno che ha sempre delle perdite».
La casa, è qui un ambiente che conduce alla distruzione e alla morte propria e altrui. Ovviamente il ruolo dell’abitazione è fondamentale del racconto Casa dolce casa. Il protagonista e i suoi due figli vivono in una bella villetta con giardino
«stracolma di oggetti accumulati alla rinfusa in quarant’anni di vita e quindici anni di matrimonio. Ci sono anche un cane, un gatto e un criceto».
L’uomo confessa:
«Non sono mai stato una persona ordinata, i miei mi rimproveravano in continuazione per questo, non ero in grado di gestire la stanza che dividevo con mio fratello maggiore, figuriamoci una casa intera con bambini scatenati, animali domestici e giardino. […] Insieme agli oggetti utili, che sono sempre troppi, a quelli inutili che tutti teniamo in casa per abitudine o per affezione, io aggiungo un sacco di oggetti da riparare o da sostituire. Non parliamo dei miei figli che abbondano di giochi, cibo e abiti sporchi ovunque».
La situazione casalinga diventa rapidamente insostenibile perché al disordine si accompagnano la sporcizia e l’invasione di topi, formiche, tarli e strane muffe inquietanti, mentre le condizioni economiche della famiglia peggiorano in modo preoccupante. Chi abita qui non può non sentirsi inadeguato e sconfitto:
«Io sono colui che crea la mia prigione. […] Devo essere rottamato anch’io, ho raggiunto la mia scadenza […] io lotto disperatamente per governare ogni centimetro della mia casa e ogni minuto del mio tempo, perdo sempre».
Nella casa, dunque, al disordine delle cose che la riempiono corrispondono il disordine mentale e lo scacco esistenziale di chi la abita senza riuscire a renderla abitabile.
La parola casa nella lingua latina designa la capanna, il rifugio di contadini e pastori (mentre domus è la casa in cui si abita). Il tedesco Haus (da cui derivano termini con la stessa radice in altre lingue) può assumere una vasta gamma di significati (casa, ditta, patria, casato, governo, ecc.), mentre l’inglese distingue tra house — la casa come edificio, luogo di abitazione — e home — il nido domestico, che implica l’idea di famiglia. Home deriva dal sanscrito OM, una radice lessicale presente in molte lingue indoeuropee sia antiche che moderne. OM è una parola monosillabica che costituisce un’affermazione solenne e appare all’inizio di ogni testo religioso induista e buddista. Viene pronunciata nell’incipit e al termine delle letture dei Veda, ripetuta per almeno 21 volte di seguito è il mantra più sacro dell’induismo; nel buddismo cinese e tibetano (ma anche giapponese e coreano) OM — che talvolta diventa AM, UM o AUM — è la parola che introduce ogni meditazione, è essa stessa uno strumento che conduce alla meditazione, è somma e sostanza di tutte le parole che possono essere dette da un essere umano. È il suono primordiale fondamentale, simbolo dell’Assoluto Universale. È il centro dell’Essere, del sé, del mondo, della vita umana, e perciò non stupisce che designi anche il luogo più intimo in cui l’uomo vive, la sua casa. Le filosofie orientali insegnano che ogni parola, ogni espressione, ogni pensiero dotato di valenze positive è vicinissimo al suo opposto negativo, e può facilmente ribaltarsi in esso. L’ordine è vicino al disordine, la regola è vicina al caos, anche perché ordine e regole sono artificiosi, stabiliti dall’uomo, mentre il caos e l’entropia sono naturali e pertanto finiscono per prevalere. Così, se da un lato la sillaba OM porta con sé valenze altamente positive, non è raro che riveli valenze di segno opposto: il rifugio, la culla, la tana, il nido familiare si possono tramutare in ogni momento in gabbia, prigione, bara, tomba. La casa “troppo piena” di cose viene divorata da un incendio e diventa un buco vuoto (Casa dolce casa), il pacchetto che — in quanto contenente un prezioso oggetto misterioso — provoca violenze e omicidi, in realtà non contiene nulla se non il proprio mistero (Welcome to Bangkok). Nel mondo in cui viviamo il disordine e il caos avanzano inesorabili in tutti i settori, anche quelli più intimi e personali. Questa situazione non è di per sé negativa, in quanto niente è più ordinato del vuoto, del nulla, mentre il caos primordiale genera la vita. Dobbiamo avere coscienza di tutto ciò prima di progettare qualsiasi forma di resistenza o di opposizione all’entropia, prima di immaginare se è possibile vivere nel caos senza soffrire e autodistruggersi.