Il complesso del gigante

L'asino vola
4 min readNov 4, 2015

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di Enrico A. Pili

Pasolini regista amatoriale e senza stile, incapace e oltretutto diretto responsabile dell’impoverimento del cinema italiano. Questa la tesi di Gabriele Muccino, che da Malibù in California ha pensato che non ci fosse occasione migliore del quarantennale della morte del regista per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Perché a Muccino queste celebrazioni, evidentemente, non vanno proprio giù. Peraltro di quali celebrazioni stiamo parlando visto che in televisione non si è visto uno che fosse un accademico o studioso e non si è vista una che fosse una discussione sull’opera di Pasolini? Ma andiamo avanti: evidentemente Muccino è avvelenato da tempo, come rivela lui stesso: «Lasciatemi dire la mia, ciò che penso da quando iniziai a sognare di diventare, un giorno, regista. Avevo diciotto anni […]». Cioè dal 1985. Una lunga gestazione insomma.

Come avrete già notato il post di Muccino si commenta da sé. Credo però sia interessante soffermarsi su alcuni punti del suo (s)ragionamento, che dicono di lui più di quanto non voglia.

La prima cosa che va rilevata è il tipo di cultura cinematografica che informa le sue parole: da una parte infatti Muccino cita registi su registi, ma dall’altra dimostra una profonda confusione per ciò che riguarda la storia, affermando ad esempio che Pasolini ha aperto le porte «a quella illusione che il regista fosse una figura e un ruolo accessibile a chiunque», quando la sperimentazione con la macchina da presa è sempre esistita, anche da parte di esordienti totali come i surrealisti in Francia. Eppure questo non è nemmeno il caso di Pasolini, che ha lavorato a lungo nel mondo del cinema prima di esordire con Accattone nel 1961. Peraltro tra i «maestri» citati da Muccino c’è anche Bertolucci, ovvero un esordiente che ha fatto cinema grazie a Pasolini. Tutta la confusione e la debolezza della ricostruzione storica di Muccino appare allora per quello che è: un alibi meschino dietro cui nascondere un’invettiva che ha poco di storico e molto di personale.

Muccino sembra dividere i registi che hanno fatto la storia del cinema italiano in due grandi gruppi: i «registi improvvisati» come Pasolini, che con la loro «arroganza intellettuale» hanno ridotto il cinema un’arte d’élite, e i «maestri», i professionisti del cinema, custodi della sua «necessità […] POPOLARE» e alfieri dell’incasso al botteghino (perché anche di questo Muccino accusa, a torto naturalmente, Pasolini: di aver spinto il cinema italiano alla povertà materiale). E naturalmente Muccino è uno di loro, un professionista della macchina da presa, e quindi uno che ha diritto a dirigere film, a discapito di altri evidentemente non altrettanto titolati, come se il film fosse una cerimonia sacra che solo il sacerdote-regista, previa patente fornita da non si capisce chi (il botteghino? Il mercato? Il Centro Sperimentale di Cinematografia?), è autorizzato a celebrare.

Ancora una volta la visione di Muccino è veramente distorta: Decameron infatti è stato un successo incredibile al botteghino, mentre i film di Rossellini e De Sica, da lui citati senza cognizione di causa e da lassù certamente dispiaciuti di essere stati evocati a sproposito, incassavano pochissimo. In mezzo poi c’è il problema dell’egemonia culturale, su cui Pasolini ha riflettuto per tutta la sua vita, e quindi la lunga e continua riflessione su come si possa in Italia fare un cinema autenticamente popolare. Ma questo Muccino lo ignora, o finge di ignorarlo. Nelle parole di Muccino i registi sono dei fantasmi senza corpo, quelli odiati come quelli amati: nomi e non opere, non percorsi articolati nel tempo ma figure bidimensionali e monolitiche, secondo un modello televisivo che, mentre strumentalizza, non sente il bisogno di giustificare le proprie parole, ma solo di ripeterle (Fellini “il sognatore”, De Sica e Rossellini “i classici del nostro cinema”, Pasolini “il provocatore” e via dicendo). Dobbiamo davvero credere che un tecnico professionista come Muccino, che nel mondo del cinema ci lavora, abbia una visione del cinema così infantile e fuori dalla realtà? Io credo di no.

Ciò che resta, al netto degli svarioni, è allora un odio per l’intellettuale geniale, che merita odio proprio in quanto genio. Cosa sono i film di Muccino accanto a quelli di Pasolini? A cosa sono serviti gli anni spesi al Centro Sperimentale di Cinematografia e la lunga esperienza in RAI, a Ultimo minuto e Un posto al sole, il successo di L’ultimo bacio e il trasferimento negli Stati Uniti, lo smoking e la casa a Malibù, se Pasolini al suo primo esperimento con la macchina da presa ha realizzato un capolavoro che gli storici e i critici di tutto il mondo continueranno a interrogare anche quando di Gabriele Muccino non resterà che il ricordo custodito da un pronipote particolarmente devoto? Lo sfogo di Muccino non è che l’esplosione di una invidia pluridecennale verso il genio che ha osato metterlo di fronte alla sua piccolezza di uomo. Infatti, la grandezza del genio serve proprio a questo, a mostrarci i nostri limiti, a spingerci a migliorare noi stessi e il mondo di cui loro, meglio di noi, colgono i limiti e le ingiustizie. Ma questo per qualcuno è troppo duro da accettare.

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scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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