Il libro scolastico: una questione complessa.

L'asino vola
27 min readNov 2, 2017

Alcuni spunti per un ragionamento.

Di Gigi Livio

A Guido Baldi amico e compagno di lavoro.

Anche quest’anno, come tutti gli altri, all’apertura delle scuole è saltata fuori la questione del libro scolastico. E ecco una profluvie di “pareri”, vuoi di esperti, vuoi dell’”uomo della strada” interrogato, al solito, al momento e, normalmente, per la strada, appunto. Tutti dicono la loro ma molti non sanno nemmeno di cosa parlano: e questo vale tanto per il succitato uomo della strada quanto per certi esperti.

Il primo ostacolo a una corretta impostazione del problema è dato dal fatto che per tentare di dipanare la matassa intricata, come per qualsiasi altra cosa che si presenti come una matassa e, per di più, come intricata, bisognerebbe partire con l’andare al sodo, come si dice. E cioè essere concreti e non esternare pseudoragionamenti che fondano le proprie radici sulle nuvole. A questo punto mi pare necessario ricorrere a Marx; e ciò sia detto non tanto, o non solo, per chiarire fin dall’inizio un’appartenenza politica, ma proprio perché Marx è alla base di molti scritti in cui si affrontano i problemi con i piedi sulla terra e non camminando sulle nuvole.

Andare al sodo e ragionare coi piedi sulla terra sono metafore che vogliono poi semplicemente esprimere la necessità della concretezza, del realismo con cui è certamente giusto affrontare i problemi concreti e reali. E quella del libro scolastico è una questione concretissima e molto reale. Per dirla proprio apertis verbis ci sono in gioco dei soldi, e molti soldi. E quindi degli interessi ben precisi da parte delle case editrici scolastiche e delle altre case editrici su cui -proseguendo in questi “spunti per un ragionamento”, nulla di più ma anche nulla di meno, perché al contrario sarebbe opportuno un lungo e articolato saggio- sarà necessario tornare.

Dicevo, Marx. Chiunque voglia affrontare problemi e questioni di questo tipo da un punto di vista concreto non può che ricorrere a lui. È proprio lui, spesso con l’apporto di Engels, lo studioso che imposta l’interpretazione di questi nodi problematici partendo dalla base reale da cui è necessario muovere per cercare di scioglierli. Insomma, detto in una parola, si tratta di “togliere il velo” e, cioè di “svelare” ciò che sta sotto ai fatti della storia e della cronaca. È ben noto, ma mai abbastanza, quel brano del Manifesto del partito comunista, scritto da Marx e Engels, dove i due filosofi sembrano prorompere in un elogio della borghesia che, dialetticamente, si capovolge in accusa feroce subito dopo:

“La borghesia [corsivo di M. e E.] ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi”.

E, subito dopo, gli autori usano proprio il termine di cui ci siamo appena appropriati:

“La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro”:

ha cioè “svelato” ciò che, appunto, sta sotto il velo ideologico che intende rendere gradevole una realtà altrimenti difficilmente accettabile.

Per cercare di seguire questa strada, cosa certamente non facile ma indispensabile per approfondire la nostra questione, è forse il caso di partire proprio dalle condizioni reali in cui si radica ciò che riguarda la fabbricazione, la distribuzione e la vendita del libro scolastico. Viviamo in una società capitalistica dove la borghesia, tornando a poche righe sopra ciò che già abbiamo citato, “non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti»” e in questa società, in cui ciò che Marx e Engels esprimono con tanta precisione, è sempre più vero dato il rincrudimento della bramosia capitalistica degli ultimi trenta quarant’anni oggi più che mai evidente.

E allora, è di lì che bisogna partire. È ancora proprio Marx a distinguere, in Teorie sul plusvalore del 1862/63, tra lavoratore improduttivo e lavoratore produttivo. Sarebbe lungo, ancorché interessantissimo, ripercorrere la strada che porta Marx al punto che a noi interessa. Ma, per non abusare della pazienza della lettrice o del lettore, mi limiterò a citare poche righe in cui si affronta l’importanza della storicità dove avviene un determinato fenomeno al fine della sua vera comprensione:

Per esaminare la connessione tra la produzione intellettuale e la produzione materiale, è anzitutto necessario concepire anche quest’ultima non come categoria generale, ma in forma storica determinata [corsivo di Marx]. Così, per esempio, al modo di produzione capitalistico corrisponde una specie di produzione intellettuale diversa da quella corrispondente al modo di produzione medievale.

Da questi presupposti Marx passa a esemplificare la differenza di cui abbiamo detto tra i due tipi di lavoratori. E qui viene fuori il famoso, famoso per chi si occupa di cose marxiane naturalmente, esempio incentrato su Milton che fu un lavoratore improduttivo:

“Il Milton produsse il Paradiso perduto per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta. Era una manifestazione della sua natura”.Per contro “il proletario letterario di Lipsia, che fabbrica libri (per esempio compendi di economia politica) sotto la direzione del suo editore, è un lavoratore produttivo; poiché fin dal principio il suo prodotto è sussunto sotto il capitale, e viene alla luce soltanto per la valorizzazione di questo”.

E, poiché Marx sembra non essere del tutto soddisfatto dell’esempio dello scrittore proletario che scrive, per così dire sotto dettatura, compendi di economia, aggiunge per spiegare meglio:

“Una cantante che vende il suo canto di propria iniziativa è una lavoratrice improduttiva. Ma la stessa cantante, ingaggiata da un imprenditore che la fa cantare per far denaro, è una lavoratrice produttiva; poiché essa produce capitale [anche in questi ultimi casi, i corsivi sono dell’autore]”.

C’è un termine, nelle citazioni appena riportate, su cui mi sembra valga la spesa di soffermarsi ed è quel “sussunto” che la dice lunga nell’impostazione, ancora generale, della nostra questione. La parola, forse non ‘bella’ (nella nostra lingua) è, per contro, estremamente significativa. Infatti, nel linguaggio filosofico/economico marxiano questo termine indica

il condizionamento che l’economia capitalistica esercita sul modo di produzione, nel nostro caso quella intellettuale, condizionando e cambiando, oltre al resto, anche il modo di svolgere un determinato lavoro e, ed è ciò che più importa, la sua finalità.

Come dimostra il caso della cantante che, entrata alle dipendenze di un imprenditore, sarà costretta anche a modificare la finalità del proprio canto che diventerà, da “manifestazione della sua natura” che ella vende, come Milton fece per il Paradiso perduto “per cinque sterline”, ma successivamente (ecco le parole di Marx: “Egli vendette successivamente il prodotto per cinque sterline [questa volta il corsivo è mio]”, rimanendo così un lavoratore improduttivo perché non aveva prodotto alcun guadagno se non quel misero reddito per se stesso) cambiando così la funzione e la finalità del suo canto. Insomma, per concludere con le parole dirette del filosofo e economista che abbiamo preso a base del nostro tentativo di approfondimento, il lavoro improduttivo è “lavoro che non si scambia con capitale, ma che si scambia direttamente con reddito”: invece la cantante che vuole diventare lavoratrice produttiva dovrà, per produrre denaro all’imprenditore, oltre a una piccola parte per sé, piacere al pubblico sottomettendo il proprio gusto a quello del pubblico stesso e così, ovviamente, andare contro la propria natura.

Ed eccoci, con queste brevi note, già in medias res. Mettiamoci dalla parte, ora e per cominciare, dell’autore. Infatti, l’autore di un libro scolastico deve avere ben chiaro che non può non essere che un lavoratore produttivo nel momento in cui affida la propria opera all’industria il cui fine, in regime capitalistico ça va sans dire, è quello di produrre utili per l’imprenditore. Vedremo subito come questa affermazione vada articolata. Ma, per rimanere sempre alla concretezza, non pensare ai clienti, deputati a acquistare il proprio prodotto, lo porterebbe al fallimento. Perché scrivere un libro scolastico se poi nessuno lo pubblica, tranne che non si tratti di un editore suicida, e che, di conseguenza, nessuno comprerà?

Infatti il prodotto dello scrittore, per come è e per la finalità che gli viene attribuita dall’editore, è “fin dal principio sussunto sotto il capitale, e viene alla luce soltanto per la valorizzazione di questo”.

Nessuno scampo dunque per lo scrittore di libri scolastici? Cerchiamo ora di partire dalla constatazione che essere concreti vuol dire anche essere altrettanto dialettici e illuminare il problema da tutti i punti di vista e non solo da uno, anche se fosse, come è, quello principale che serve a far camminare il ragionamento sulle gambe e non sulla testa. E allora qui niente di più utile e di meglio chiarificante che un passo del discorso tenuto all’Istituto per lo studio del fascismo di Parigi da Walter Benjamin nell’aprile del 1934,

Walter Benjamin

intitolato L’autore come produttore, nel periodo cioè dell’adesione al marxismo del filosofo e critico della letteratura e dell’arte tedesco. Egli prende le mosse da Brecht che ha coniato il concetto di «cambiamento di funzione». Egli è stato il primo ad affermare, per l’intellettuale, questa importante esigenza: egli non deve rifornire l’apparato di produzione senza nello stesso tempo trasformarlo, nella misura del possibile, nel senso del socialismo.

E prosegue, dopo essersi soffermato poche righe su un problema squisitamente artistico che qui sono costretto a mettere in disparte:

vorrei accontentarmi di sottolineare la differenza decisiva che esiste fra il semplice rifornimento di un apparato produttivo e la sua trasformazione; aggiungendo poco dopo, questa volta tra parentesi “(nella misura del possibile)”.

I punti salienti di queste poche, ma densissime, righe sono questi: 1) l’intellettuale deve cambiare funzione e cioè divenire un produttore di stimoli di trasformazione di un apparato produttivo; nel nostro caso del “prodotto” libro scolastico; 2) questa trasformazione può essere inoculata nell’apparato produttivo soltanto “nella misura del possibile”; 3) questa trasformazione deve procedere, sulle orme di Brecht, “nel senso del socialismo”.

Sgombriamo subito il campo dal terzo punto: qui Brecht e Benjamin parlano di socialismo ma accetterebbero certamente oggi qualche formulazione meno radicale come quella di “pensiero critico”: che poi il pensiero critico possa sfociare nell’ideologia, in senso positivo, socialista è cosa che giudica ciascuno di noi, ma che qui non ha rilevanza. Ciò che invece mi sembra essenziale è sottolineare il fatto che esercitare il pensiero critico sul mondo e su noi stessi deve portarci a una migliore conoscenza di noi stessi e del mondo strappando i veli a tutto ciò che costituisce l’ideologia, in senso negativo e cioè la falsa coscienza e quell’apparato di menzogne, distorti sentimenti e inganni che l’ideologia dominante, che è l’ideologia delle classi dominanti, mette in opera per dirigere, e così alienare, le menti dei suoi ‘sudditi’ dopo averne “utilizzati”, e alienati, i corpi.

Quanto invece al primo punto questo mi pare si debba prendere alla lettera e, immediatamente, farlo nostro all’interno del ragionamento che stiamo imbastendo: l’intellettuale in genere, e nel nostro caso l’autore di testi scolastici, deve secondo Benjamin -e quell’imperativo morale si spiega bene tenendo conto dell’anno, del luogo e del pubblico cui egli si rivolge- e può, secondo noi, rifornendo l’industria o il mercato tout court, tentare di trasformarlo proprio cercando di aprire le menti dei destinatari del proprio prodotto al pensiero critico; ma tutto ciò può essere fatto soltanto però, nel limite del possibile.

Notato subito che l’interrogativo disperante (“Nessuno scampo…?”), che abbiamo posto quasi all’inizio di questa parte del discorso, non è disperato come sarebbe potuto sembrare ma che semmai tende, a questo punto, a rivelarsi quasi un interrogativo retorico, passiamo ora al secondo punto così icasticamente condensato da Benjamin, sempre sulla scorta di Brecht, con quella locuzione “nel limite del possibile” che la dice lunga, anzi lunghissima, sulla dialettica dei due scrittori. Perché il nodo è proprio qui: un autore di libri scolastici, rimaniamo al nostro assunto, può, se vuole ovviamente, immettere elementi di trasformazione nell’oggetto “libro scolastico” ma è costretto a farlo tenendo ben conto dei limiti che non può superare: il che significa poi, in parole molto povere, che per immettere in un prodotto industriale elementi di critica all’ideologia industriale stessa bisogna ‘saperlo fare’, pena il fallimento e dell’operazione e del libro stesso. Infatti l’industria, per esistere, prevede un mercato e un mercato, per funzionare, prevede clienti che però sono anche fruitori del valore d’uso del prodotto e non soltanto del suo valore di scambio. A questo proposito è ancora Marx a insegnare che nessun prodotto può essere tale senza possedere un valore d’uso anche se in tanti casi il valore di scambio risulta di gran lunga superiore al primo. Nel caso del libro scolastico l’autore che si prefigge, scrivendolo, solamente ed esclusivamente di conseguire un buon guadagno per sé dovrà, per forza, come la cantante dell’esempio marxiano, andare incontro ai gusti del pubblico e rifornire il cliente, soprattutto per non inquietarlo ma anche per coccolarne la pigrizia mentale, proponendo il già detto e cioè il ritorno del sempre uguale e di tutto ciò che non turbi l’ideologia dominante. Ma su questo tipo di autore mi sembra di aver detto fin troppo; e abbandoniamolo pure al godimento del frutto del suo conformismo, divenuto ora tangibile e monetizzabile.

Veniamo ora, e invece, all’autore che ha intenzione di immettere elementi di trasformazione del mercato in un prodotto destinato al mercato stesso. Anche questi, per giungere allo scopo, dovrà tenere ben conto, se pure in modo diverso, del cliente.

Ma chi è il cliente? Teoricamente dovrebbero essere gli studenti; si tratterebbe, quindi, di mettere in grado questi di capire concetti complessi e, di necessità, difficili -difficili anche perché, di solito, contrari all’ideologia corrente e dominante-: e questo è un compito assai arduo.

Ma l’autore, che intende impegnarsi per cercare di promuovere negli studenti il senso critico, si adoprerà in ogni modo per farlo e così conseguirà lo scopo, anche nel campo di cui ci stiamo occupando, che è stato di Brecht e Benjamin in altri campi.

Su questo argomento ci terrei a esemplificare, ma per cercare di essere chiaro a mia volta e non per indicare una strada: questa deve essere propria di ciascun autore perché, mi sembra inutile dirlo ma lo dico ugualmente, ogni uomo è diverso dagli altri e, di conseguenza, altra cosa è proporre una tendenza, che poi ognuno possa interpretare come vuole e sa fare nel concreto operare, e altra cosa indicare una norma che, oltretutto, semplicemente non esiste perché non può esistere.

Ecco, allora, un esempio: il pensiero critico non è certo monopolio dei filosofi/sociologi appartenenti alla Scuola di Francoforte -perché, se no, dove mettiamo Socrate e Dante, per fare soltanto due esempi, anche se eccezionali, del passato più o meno remoto- però nel novecento sono i pensatori legati a questa scuola, e alla sua rivista la “Zeitschrift für Sozialforschung”, quelli che più si occupano e meglio approfondiscono la teoria critica (e Teoria critica è il titolo che Horkheimer dà al libro in cui, nel 1968, raccoglie i suoi saggi scritti tra il 1932 e il 1941). Alcuni di questi autori si occupano anche di filosofia estetica e sono critici della letteratura e dell’arte di grande valore: primi fra tutti, probabilmente, Adorno e Benjamin. Ora, poiché Adorno ha scritto cose importantissime su Beckett e Benjamin su Baudelaire, la tentazione sarebbe quella di mettere brani a commento dell’uno e dell’altro per spiegare allo studente il significato profondo della loro arte. L’autore di un libro scolastico che cedesse a questa tentazione sbaglierebbe pesantemente -e qualcuno in questo errore è caduto- perché Adorno e Benjamin sono insieme filosofi e critici e ambedue si esprimono in modo complesso -e assai arduo, a volte, da comprendere anche per chi li legge con strumenti adeguati per capirli- e pertanto risulterebbero, come risultano, del tutto incomprensibili per gli studenti.

Il problema, come subito si vede, è di trovare il modo di comunicare agli studenti pensieri ineluttabilmente difficili per loro; d’altronde la stessa espressione “pensiero critico” contiene in sé due concetti fondamentali: quello di “pensiero”, che nel caso dei francofortesi, per continuare nel nostro esempio, si identifica, per metterla giù schematicamente, con quello di “ragione”, e l’altro di “critico”: e, ben si sa, che la critica è sempre critica di qualcosa e, nel nostro caso, del pensiero corrente e dominate.

Si tratterà quindi di trovare il modo che ciascuno elaborerà a modo suo (il bisticcio è chiaramente voluto), ma senza perdere mai di vista il fatto che, come si espresse Carmelo Bene in un suo scritto giovanile:

“D’accordo, conta il “come”. […] Dunque “modo”./ Significare un “modo” — MODIFICAR”.

Scrivere quindi in un certo modo vuol dire modificare; e ciò non vale solo per l’arte, è il caso di Bene come è evidente, ma per qualsiasi forma di scrittura compresa quella usata per stendere un libro scolastico. E il modo, in questo caso, non può che essere quello dettato dalla didattica perché ogni buon professore sa benissimo che è importante adattare il proprio linguaggio in modo che risulti comprensibile ai propri studenti; e, anche qui, ogni caso è un caso a sé perché non tutte le classi scolastiche sono uguali anzi variano moltissimo da una all’altra, come, d’altronde, esiste un’evidente diversità da studente a studente all’interno della stessa classe.

Il primo ostacolo per uno scrittore di libri scolastici sarà dunque proprio quello di escogitare, mettendo insieme la sua esperienza didattica con quella di studio, il linguaggio giusto per comunicare con la maggior parte degli studenti possibile poiché con tutti è impossibile. Ecco una prima declinazione del beniaminiano “nella misura del possibile”. Ma qui siamo ancora nel campo generale del discorso, che può anche prescindere dalla questione del pensiero critico; fino a un certo punto però perché già la scelta di un testo di un determinato poeta, romanziere, eccetera compiuta dall’autore del libro di testo, o la scelta all’interno dell’opera dello scrittore stesso, e la sua spiegazione letterale -le “note a pie’ di pagina”, le introduzioni, eccetera- costituiscono una base fondamentale per mettere lo studente in grado di comprendere perché quel testo, e non un altro, per esempio. Se poi quel poeta o quel romanziere è a sua volta portatore di pensiero critico o, al contrario, si tratta di uno scrittore che tende a ‘velare’ le cose stendendo una cortina fumogena sulla realtà, è fin troppo ovvio affermare che la comprensione del testo proposto nel libro sia il primo passo, fondamentale e ineludibile, per giungere a una critica dello stesso.

Ma torniamo al modo, al modo cioè per riuscire a trasmettere allo studente il pensiero critico nell’interpretazione, non necessariamente e sempre positiva, degli autori e dei brani delle loro opere proposti. Partiamo dal presupposto, che non do per scontato certo, che anche il pensiero più astruso sia comunicabile sempre qualora si trovi il “come” e il “modo”. Il problema è un altro: e cioè quello che questo “modo di procedere”, l’unico possibile per un buon didatta, comporta un prezzo da pagare che può essere, in certi casi, anche alto. È il prezzo dovuto a un abbassamento del livello ‘scientifico’ ineluttabile cambiando il modo di esprimere determinati concetti: “modificare”, appunto, può voler dire anche, in certi casi, “svilire”. Ma non sempre e non comunque. Qui, è molto chiaro mi sembra, che non esistano perché non possono esistere regole e norme per il semplice fatto, già richiamato più sopra, che nessuna persona è eguale a un’altra per cui ciascuna tesserà la tela col filo che ha. Si può però cercare di delineare una tendenza tenendo conto del fatto che c’è una grande diversità tra semplificazione e semplificazione. Infatti, se io sono cosciente che per semplificare sono costretto a usare parole meno difficili nel passare da un linguaggio specialistico a quello corrente per trasmettere pensieri elaborati da critici e storici a impianto filosofico e se voglio andare contro il senso comune strappando tutti i veli che ci sono da strappare, non posso anche non sapere che le parole hanno una storia e che, quindi, quelle comuni, conosciute dagli studenti, oltre al loro significato letterale (“cane” vuol dire qualcosa tipo “animale a quattro zampe”) assumono un significato ulteriore che si è agglomerato su di loro attraverso la storia (“La storia della gente è la storia della lingua”: Joyce).

A questo punto lo scrittore di libri per la scuola, constatato il nesso tra “parole e storia” -è il titolo di un utilissimo libro di Bruno Migliorini, illustre linguista e storico della lingua-, deve tener conto che le parole non sono affatto neutre e che il vero significato di “cane” in un’epoca di frainteso amore per gli animali (ci hanno fatto pure un neonato partito) assumerà immediatamente una sfumatura positiva, e anche più che positiva, tipo “il miglior amico dell’uomo”, eccetera. (Non può interessare se non indirettamente il nostro argomento, ma proferire oggi le imprecazioni “Mondo cane!” o “Porco cane!” rischia l’incomprensione più profonda). Questa situazione storica della lingua condiziona, dunque, senza via di scampo il significato di tutto ciò che diciamo o scriviamo. È chiaro che la coscienza che le cose stiano così, perché così stanno, sarà il primo passo per un’azione didattica corretta che, se non può portare alla soluzione del problema che ho cercato di sintetizzare scrivendo “prezzo da pagare”, sarà proprio la coscienza di doverlo pagare a far sì che sia l’autore di testi scolastici come chi utilizzerà questi libri per far lezione, potranno limitare al massimo la ‘dispersione’ di significato cui si è costretti dal fatto che non potendo proporre cose per lo studente incomprensibili si è tenuti a “modificar” ma cercando di non perdere, proprio “nella misura del possibile”, il significato profondo di ciò che si vuole trasmettere.

Mi pare di aver detto abbastanza a proposito della difficoltà dello scrittore di libri scolastici a immettere concetti nuovi, diversi e, quindi, ineluttabilmente non conformati, nei propri lavori. È un tipo di difficoltà che può addirittura essere rivoltata in potenza, come spesso succede nella vita e nel mondo, purché si parta da presupposti corretti e non offuscati dall’ideologia dominante che, proprio perché è, come abbiamo già detto, l’ideologia della classe dominante, non può non essere contraria a tutto ciò che è veramente “non conformistico”.

Ma il cliente chi è poi alla fine? Finora ho parlato di studenti e, certamente, i destinatari finali di un libro scolastico sono loro e i libri li pagano loro e i loro genitori o chi per essi. Ma i libri, per essere poi venduti agli studenti, debbono prima essere adottati dai professori.

E, come le persone sono tutte diverse le une dalle altre, così anche i professori e le professoresse lo sono, naturalmente. E questo vale anche per i conformisti perché il mercato deve essere vario e variegato. Ma, in questo caso nuovamente, si tratta dello stesso discorso fatto per gli studenti: infatti gran parte (che non so quantificare) delle professoresse e dei professori non si oppongono allo spirito del tempo e, dunque, anche questo volta è necessario partire dalla “misura del possibile” che dovrà investire, oltre al campo linguistico, di cui ho detto prima, anche quello della tendenza ideologica. Magari tenendo anche ben conto di quella parte di insegnanti che, invece, attendono cose nuove, diverse e non necessariamente conformate all’ideologia dominante.

Mi rendo perfettamente conto che tutto ciò che ho scritto fin qui non è assolutamente facile da mettere in pratica. E lo si vede, di volta in volta: ci sono libri, magari buoni su certi piani, che non hanno alcun successo di vendite e altri, scorretti e approssimativi, che il successo lo conoscono. Qui la fenomenologia del successo e della tenuta negli anni dei libri per la scuola è molto varia e, spesso, è difficile capire i motivi di un successo o di un insuccesso; o il fatto che certi testi durino assai poco e altri molto a lungo. Ma esiste un dato di fondo: più o meno difficili o più o meno comunicativi, quelli che hanno successo sono libri comunque interessanti o per il loro valore ‘scientifico’ o per quello didattico; e quelli che più a lungo durano nel tempo sono i testi che sanno ben equilibrare i due valori.

Ho parlato di “successo” come di un dato positivo e credo di dover chiarire. In questa società quasi mai il successo risulta, a ben guardare, un fatto positivo perché la società stessa, e nel caso nostro l’industria culturale, premia soltanto chi rafforza il suo potere e non certo chi intende metterlo in discussione. Ma nel caso del libro per la scuola il successo registra semplicemente il fatto che molti studenti sono stati costretti a usarlo e molti insegnanti l’hanno trovato un buon “prodotto”, nel senso in cui questo termine definisce un “prodotto dell’ingegno”, ottenuto all’interno di un “prodotto industriale” perché, nella società capitalistica, qualsiasi tipo di “prodotto”, compreso quello dovuto all’ingegno, se ha successo diventa fonte di utili, nel nostro caso per l’editore e, in parte, per l’autore: questo è quel mondo e l’innovazione e la diversità per potersi rivolgere al maggior numero di destinatari -al solito: nella misura del possibile- debbono essere anch’esse vendute.

E qui avrei finito non fosse che una recente polemica, quella che torna tutti gli anni come dicevo, anche quest’anno si è svolta sui vari mezzi di comunicazione di massa. In questi scritti -non li ho letti tutti perché sono una profluvie e inutilmente ripetitivi- vengono dette, a volte e sporadicamente, cose giuste e spessissimo vere e proprie stupidaggini. E poiché non ho nessuna intenzione di annoiare oltre la lettrice e il lettore che sono giunti fin qui la farò (relativamente) breve prendendo a esempio di queste sciocchezze banali e superficiali quella che a me pare se non la più grossa almeno una delle maggiori e cioè quella che propone come alternativa al libro di testo, considerato da molti come “superato”, il libro ‘fai da te’ che, con termini inglesi tanto per essere alla moda (e cioè trendy) viene rubricato come book in progress.

“Il venerdì di Repubblica” del primo settembre dedica un focus, se così si può definire, al problema intitolato, in modo ammiccante come è evidente, Mal di testo.

Copertina del Venerdì di Repubblica, del 1 settembre 2017.

Nelle pagine dedicate alla questione sono presenti tre articoli di ‘esperti’ oltre a quello introduttivo del curatore della rubrica, Giacomo Papi, che contiene brani di un’intervista a Massimo Bergamini, autore, con la moglie, di un libro di matematica per le superiori che risulta il più venduto. Non intendo dilungarmi su tutti gli aspetti di questo focus magari a partire dalla fotografia di copertina in cui si vedono due ragazzi e una ragazza onusti di libri scolastici da cui si desume che i libri di testo, tanto per incominciare, fanno venire mal di schiena e mal di gambe ai poveri, giovanissimi, soggetti. E via così, per tutte le fotografie che adornano le pagine che seguono e che, fin dall’inizio, sono deputate a far capire al lettore che questi benedetti libri di testo sono veramente una brutta cosa.

Ci sarebbe molto da dire sui tre scritti che seguono. Mi limiterò a accennare a quello di Asor Rosa e poi mi fermerò su quello di Eraldo Affinati, fautore del libro ‘fai da te’; e su un altro ancora. Quanto a Asor Rosa: consiglio a tutti quelli che sono interessati al problema di leggerlo perché, al solito, intelligente e anche dettato dall’esperienza nel campo, del suo autore. La conclusione poi è, per me, decisamente condivisibile:

Ci sono innumerevoli modi di pensare un libro di testo, non v’è dubbio. Tuttavia, se la risposta alla richiesta comporta un sempre più generalizzato abbassamento della proposta, vuol dire appunto, che andiamo male, molto male. Su questo […] sarebbe opportuno combattere una battaglia.

Asor Rosa qui tocca un punto dolente dell’editoria scolastica cui ho appena accennato più sopra parlando dell’autore che, come fine del proprio lavoro, si ripromette esclusivamente di ricavare da questo buoni utili. Associarsi a questo dire di Asor Rosa mi pare sia non solo un dovere culturale ma anche etico.

Veniamo ora a Affinati. Oltre che scrittore, egli è stato “insegnante di lettere” a lungo “per quasi trent’anni negli istituti professionali per l’industria e l’artigianato” e lì ha maturato il suo rifiuto del libro di testo giudicato del tutto inadatto (non senza una marcata sfumatura deamicisiana:

“[un allievo] non portava in aula nemmeno la penna e il quaderno, figuriamoci se potevo chiedergli di farsi acquistare dalla madre […] i tre grossi volumi previsti: antologia, storia e grammatica”:

ma certo, piangiamo pure sugli “umili”, ma continuiamo a tenerli nella loro ignoranza anziché ricorrere a qualsiasi mezzo per poter dotare il povero scolaro degli strumenti per emanciparsi, almeno dal punto di vista culturale, dalla sua condizione -par di capire- di sottoproletario!). Anzi: la dialettica affinatiana rivolge in positività la negatività: è proprio la mancanza di un libro di testo che spinge l’Affinati, professore “alternativo”, a una scelta altrettanto “alternativa”. Nasce così l’idea del libro ‘fai da te’ pensato per i propri studenti e cioè calibrando il linguaggio e i concetti sul loro linguaggio e sui concetti che possono capire attraverso “schemi scritti col gessetto alla lavagna” (ma con cosa si scrive se non col gesso su una lavagna?) “fotocopie di racconti e poesie” e “classici che mi andavo a comprare direttamente in magazzino e poi regalavo ai miei alunni”.

Proviamo a accettare tutto ciò: l’obiezione però è fin troppo facile: quello che il professor Affinati avrà fatto leggere ai suoi studenti l’avrà poi sistemato egli stesso in un discorso che desse loro la possibilità di comprendere ciò che avevano studiato; e certamente l’avrà fatto benissimo. Ma non è che tutti i professori posseggano un bagaglio culturale che permetta loro di fare altrettanto; sarebbe bello se fosse così, ma così non è. E allora? Il discorso sarebbe lungo e richiederebbe ben precisi approfondimenti che magari tenessero conto, oltre al resto, che ciascuno di noi ha frequentato l’università, mi fermo qui alle facoltà umanistiche, in cui ha dovuto sostenere esami specifici su corsi monografici per cui può succedere, anche se non dovrebbe essere così ma così è, che un professore di storia dell’arte sappia tutto su Cimabue ma ben poco sulla rimanente storia della disciplina; o, e siamo già a un caso migliore, che conosca a fondo una corrente e solo superficialmente le altre.

Il vantaggio del libro scolastico è che di solito viene scritto da specialisti della materia possibilmente anche dotati di una buona esperienza d’insegnamento; e quest’ultima cosa dovrebbe garantire che gli autori siano in grado di rendersi conto delle necessità specifiche dei vari tipi di scuola ai cui discenti intendono rivolgersi.

C’è poi un’altra obiezione, più di fondo, ed è questa: il libro scolastico è normalmente molto ricco di testi proprio per permettere al professore di fare ciò che auspica Affinati e cioè di poter scegliere scrittori e brani di testi secondo le proprie tendenze culturali e tenendo conto del livello linguistico e concettuale dei propri scolari. Nel momento in cui un insegnante, invece, elimina dalla classe il libro di testo e lo sostituisce con uno “fai da me” impone i propri gusti agli studenti; gusti che, nel caso di Affinati come di tutti, non possono non essere parziali. E ciò è dimostrato molto chiaramente dagli esempi che fa il nostro articolista: Rimbaud, Baudelaire, Kafka, Thomas Mann, Jack London, Verga, Poe, Günther Anders e Unamuno per lui vanno bene mentre per “l’alfieriano tormento interiore di Saul” e per il “romanzo-poema manzoniano” il pollice dell’Affinati si inclina verso il basso: ed è il pollice verso. La condanna si estende a Wilbur Smith e Joanne Rowling.

E qui bisognerebbe forse ricordare che esiste una disciplina che viene definita “sociologia della letteratura” la quale, oltre a prendere in considerazione le opere dei grandi artisti, trova un ottimo campo d’indagine nei lavori, letterari o altro, di grande successo: quale è stata e qual è l’influenza sul mondo immaginario degli studenti di questi anni della saga di Harry Potter, per esempio? Proporre ai giovani un brano di quei romanzi può essere utile anche se, al solito, conta il modo in cui lo si fa.

E, per la discussione sulle scelte di Affinati resterò a questi brevi cenni anche se molto, moltissimo altro ci sarebbe da obiettare per articolare meglio il discorso. Mi limiterò soltanto a notare che le scelte in questione sono non solo personali, ma personalissime, e come tali assai opinabili. Dire che nel novecento molti scrittori italiani andrebbero rivisti nel giudizio di valore che si dà su di loro è piuttosto ovvio -qui ci sarebbe da parlare della questione del canone, che comporterebbe però un discorso troppo lungo e che, pertanto, rimando, eventualmente, a altra occasione- ma non sapere, o non volersi rendere conto, che la tradizione esiste, piaccia o non piaccia, e che ci condiziona nel nostro modo di essere e di scrivere vuol anche dire, per esempio, che il fatto di non accorgersi che per capire Ungaretti o Montale è necessario conoscere, almeno scolasticamente, Dante e Petrarca si rivela come un errore piuttosto pesante che costituisce, insieme a altri, una delle cause del disastro culturale che stiamo vivendo.

Ci sarebbe molto da dire ancora su questo articolo esemplare di un certo modo di guardare alla scuola e alla sua funzione. Per esempio sul fatto di identificare “la piaga purulenta dei nostri tempi” nel libro scolastico perché, sempre secondo Affinati,

in nessun “altro luogo culturale possiamo misurare uno scarto parimenti doloroso fra quelli che dovrebbero essere i doveri dell’istruzione nazionale e le attese delle giovani generazioni”.

E vada per la “piaga purulenta”; ma: è proprio sicuro il professore in questione di sapere quali siano veramente “le attese delle giovani generazioni”? Io, malgrado una lunghissima esperienza didattica dovuta a un’età ormai matusalemmatica, no, o non del tutto o non per qualsiasi luogo e ciascun paese o regione di un solo paese. E non saprei nemmeno distinguere quali possano essere queste attese per il figlio o la figlia di genitori alto borghesi e, invece, per gli studenti che provengono da una famiglia proletaria, con tutti gli ovvii gradi intermedi del caso.

Affronto ora l’ultimo argomento: i fautori del libro ‘fai da te’ non tengono conto di un dato fondamentale che è poi quello, cui ho già accennato più sopra, che l’ideologia dominante è l’ideologia della classe dominante e, nel nostro caso, che le tendenze culturali dominanti sono, come molte altre cose, “amministrate”. E se è vero, come è vero, che la cultura attuale è decisamente più livellata sul gusto che deriva dal senso comune (c’è infatti un senso comune anche per il gusto) di un tempo, quando era più variegata, non è altrettanto vero che tutti sappiano perché questo succede e cioè che si rendano conto che il fenomeno, insieme a altri fattori anche se meno importanti, affonda le proprie radici in cause economiche: i primi a non conoscere, o non voler conoscere, queste cause sono certamente i fautori del libro ‘fai da te’.

La lotta tra case editrici di ‘varia’, come si dice, e quelle scolastiche è oggi, in tempi di crisi del libro, spietata. Il libro ‘fai da te’, lo sappiano o no i suoi fautori, favorisce fortemente le prime. Infatti, cosa fa Affinati? Compra libri di ‘varia’ (è sottinteso “umanità” nel senso antico) e cioè classici, magari tascabili, e mette da parte i libri scolastici che sono stampati da case editrici che, appunto, vengono definite scolastiche in quanto specializzate in quel tipo di libri.

Questi “innovatori”, nel proporre un prodotto “alternativo”, vanno semplicemente nella direzione del mercato che tende, spinto dalle grandi concentrazioni industriali degli editori di ‘varia’, a ridurre il più possibile il potere di quelle scolastiche.

E qui bisogna almeno notare, se pure di passata, che, al minimo c’è un’osservazione da fare su questo punto non certo di poco rilievo: le case editrici specializzate in libri per la scuola rappresentano appunto un settore specialistico che dovrebbe, il condizionale è naturalmente d’obbligo, almeno tendere a un prodotto più adatto alla scuola. Mi sembra che quest’ultima mia affermazione sia di un’ovvietà che grida; ma non sembra che gli “alternativi” abbiano orecchie sgombre dall’ideologia, nel senso di falsa coscienza e falso tutto, per sentirla.

Ma potrebbero obiettare questi soi disants innovatori: noi cerchiamo di rilanciare l’artigianato contro la grande industria, ecco perché siamo “alternativi”. Ora questa sarebbe, dal punto di vista socio-politico, un’obiezione forte; peccato però che non rientri affatto in un’operazione complessa e articolata che tenderebbe a sottrarre i produttori a almeno una parte dell’alienazione cui li condanna la catena di montaggio industriale.

C’è infatti diversità tra un calzolaio artigiano, per fare un esempio, che, nel momento in cui procede nel suo lavoro e cioè nel fare una scarpa su misura, deve tenere in conto molti fattori come quelli di costruirla in modo che soddisfi le esigenze del suo cliente -esigenze di gusto, di comodità, a volte quelle dovute a leggere o meno leggere malformazioni del piede, in modo che il cliente possa camminare bene e essere contento, dal punto di vista del gusto, del tipo di pelle che ha scelto, consigliato dal calzolaio in questione, e dal modello, sempre da lui scelto e sempre consigliato dal calzolaio, che più gli è piaciuto- e un operaio impiegato in una fabbrica di scarpe il cui compito si risolve nel ripetere sempre le stesse operazioni o, al massimo, nel controllare le macchine che le svolgono per lui. Nel primo caso il produttore è legato al proprio prodotto in cui ha trasfuso la sua intelligenza e la sua abilità manuale, nel secondo il produttore, se ancora si può definire in questo modo, è ridotto a un’appendice della macchina e del tutto alienato dal proprio lavoro.

È chiaro che una lotta politica in favore della rinascita di un vero artigianato, qualora desse dei risultati, sottrarrebbe alcuni produttori all’alienazione selvaggia a cui oggi l’industrializzazione macchinistica dilagante li costringe.

Non si tratterebbe certo di una rivoluzione nei rapporti fra gli uomini, né tantomeno questa lotta porterebbe all’abolizione dell’industrialismo, ma comunque costituirebbe un passo avanti verso il graduale reimpossessamento del legame che l’uomo dovrebbe avere con ciò che fa: e questo vale per il calzolaio come per qualsiasi altro lavoratore, compresi ovviamente tutti coloro che in un ufficio sono costretti a rifare sempre la stessa operazione addirittura ripetendo lo stesso gesto (quest’ultima cosa la debbo a un impiegato di banca che un giorno mi disse essere un lavoro usurante non solo quello compiuto da un operaio addetto alle presse, ma anche il suo che doveva tutti i giorni e per tutto il tempo della giornata apporre timbri su moduli bancari).

Di quello che ho detto, e che dicono anche altri, oggi ci si incomincia a rendere conto ma, anziché essere nata una forte coscienza politica, ne è venuta fuori, manco a dirlo vista l’attuale cultura della società in cui viviamo, un tentativo di soluzione che mi pare di poter definire “snob” nella sua accezione più negativa e cioè quella di “sine nobilitate”. Priva di alcuna nobiltà culturale, cioè, perché superficiale e, anche qui tanto per cambiare, banalmente individualistica e che tiene conto soltanto di un’esigenza personale priva di alcun legame col resto della società. Oggi siamo pieni, anche a causa della crisi economica e della derivata mancanza di lavoro, di artigiani improvvisati che si ‘inventano’ oggetti vari e cose del genere senza mai porsi il problema della loro utilità reale, del loro valore d’uso ma semplicemente sperando che qualcuno li compri basandosi sul loro valore di apparenza, sempre che almeno questo ci sia.

Il libro ‘fai da te’ si inserisce proprio in questa tendenza perché non risponde a un’esigenza reale e concreta della scuola, che è, anche questo sembra banale dirlo, quella di elevare il più possibile il livello culturale degli studenti, ma a un’esigenza dell’insegnante che non trova nel libro ciò che vorrebbe ci fosse e da lui ritenuto utile da trasmettere ai propri allievi senza però dare a questi professori alcuna garanzia del fatto che il libro, se così si può ancora chiamare, che egli o ella propone loro poggi su basi scientifiche solide e su altrettanto solidi fondamenti didattici. Se si vuole una conferma di ciò che sto dicendo basterà pensare al fatto che i libri scolastici sono sottoposti al giudizio di tutti anche di chi, di scuola, ne sa molto poco: quella del libro ‘fai da te’ al vaglio di nessuno.

Infatti, se si prende un altro articolo del focus del “Venerdì” dove si trova lo scritto di Affinati ci imbattiamo in Tomaso Montanari, stimabilissimo, insieme a Anna Falcone, dal punto di vista politico, e, probabilmente ottimo docente universitario nel campo delle arti figurative, che può tranquillamente affermare cose assai lontane da un corretto discorso sui libri di testo. Egli, dunque, cita l’autore di un manuale recente di storia e antologia della letteratura italiana che se la prende con altri autori, non citati, che scriverebbero troppo difficile portando due esempi di “scuolese”, come lo definisce: uno dei due esempi è questo: scrivere “vi sono delle problematiche” anziché il più semplice: “ci sono dei problemi”. E, fin qui, per quel che può servire questa obiezione, potrei essere d’accordo con chi ha detto questa cosa. Diverso, e assai più pesante, è il secondo esempio. Per il giudice implacabile di questa neolingua scrivere che “i fattori di difficoltà posti dalla scrittura di Gadda sono numerosi” sarebbe scrivere, appunto, in scuolese mentre egli proporrebbe come ottima e comprensibile scrittura: “Gadda scrive spesso in maniera complicata”. Mi spiace veramente dover far notare queste cose a un collega -anche se io sono un povero untorello di storico del teatro mentre lui, e cioè l’autore citato da Montanari, storico è, sì, ma proprio di letteratura italiana- che Gadda, semmai, scrive in maniera “complessa” e niente affatto “complicata” e che i due termini significano altra cosa, ben altra, che non sto qui ora a specificare per non annoiare troppo la gentile lettrice e il simpatico lettore che, a questo punto, del mio dire ne avranno abbastanza.

Ho finito. Ciò che spero è di aver abbozzato, su quest’ultimo argomento e almeno a grandi linee, un ragionamento che più o meno può essere sintetizzato in questo modo: il book in progress si rivela, alla fine del discorso, nient’altro che un book in regress; con buona pace di tutti gli “alternativi”.

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L'asino vola
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Written by L'asino vola

scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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