In ricordo di Buster Keaton e della sua influenza sull’avanguardia italiana in tre momenti

L'asino vola
5 min readMar 11, 2016

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di Gigi Livio

Il cinquantenario della morte di Keaton offre il destro a ripescare, nel dimenticatoio della storia delle espressioni artistiche, un’intervista televisiva a Carmelo Bene, dove l’attore-regista e scrittore esprime il suo punto di vista sull’arte di Keaton attore, soprattutto, ma anche regista. Il documento è eccezionale perché mette in luce alcuni punti essenziali del dibattito non solo sul teatro e sul cinema di quegli anni, siamo nella prima metà degli anni settanta, ma sull’arte tutta di quel periodo così ricco di fermenti.

Presentiamo la trascrizione in tre tranches perché il pensiero di Bene è complesso e articolato e richiede, soprattutto oggi, un commento approfondito.

“La terra si è completamente unta di sapone”

Nella seconda parte dell’intervista, girata all’esterno della stanza in cui è stata registrata la prima, l’intervistatore ha appena il tempo di accennare al fatto che Keaton si presentava come un incapace che un cartellone (per altro leggero) dove campeggia il volto di Keaton cade addosso a Carmelo Bene; quest’ultimo, prontissimo, borbotta sardonicamente qualcosa, come un “a mezza voce” teatrale, tipo: “ecco, la realtà accade” dove è sottinteso “come stavo dicendo”. Riprende l’intervistatore: “… incapace, poi diventa bravissimo, navigatore, cameraman. Secondo te questa inettitudine è un modo di criticare la realtà o è un vezzo suo di attore?” La domanda è rozza e piuttosto mal posta; ben altro, infatti,

ci sarebbe da dire del rapporto che l’arte attorica di Keaton instaura con la realtà, un rapporto estremamente mediato e che parte comunque e in ogni caso dallo specifico del genere da lui frequentato e cioè da un’opposizione a certo cinema,

opposizione necessaria a Keaton per riuscire a ritagliarsi uno spazio di eccezionalità; quanto al “vezzo” poi ci sarebbe soltanto da ridere non fosse che definire vezzo una tecnica raffinatissima elaborata con estrema sapienza fa parte del solito modo, tipico del nostro tempo, di ridurre i fenomeni dell’arte, che dovrebbero essere analizzati con estremo rispetto e molta umiltà, a schemini che non vogliono dire nulla. Carmelo Bene però non si lascia irretire in una inutile polemica con chi non potrebbe comunque capire e sfrutta l’occasione per esporre con chiarezza il suo pensiero:

“…è una formula antichapliniana, anti Chaplin proprio, è una formula acritica, se vogliamo, perché non di forma ma di formule si può parlare… è un modo acritico, poi se vuoi stirneriano, cioè non c’è né eroe negativo né eroe positivo, né bene né male, in questo mondo assolutamente la realtà non esiste o almeno non esiste come ‘noi’, quindi ‘noi’ non siamo sostanzialmente in questa realtà, ma esistiamo anche solo noi quindi siamo l’unica realtà su una terra che, immaginandola sferica, colombiana, rotonda, si è completamente unta di sapone e si scivola, si scivola continuamente [qui Carmelo Bene mima lo scivolare, la mancanza di equilibrio]. Qualche momento uno può anche dimostrare e fare un et voilà e questo Keaton lo fa, ogni tanto tutto sta in piedi, riesce, ma decisamente è bravura, eh, eh, a che, a che…”. Interviene l’intervistatore: “Lo fa per dimostrare che si potrebbe anche…”; Bene gli dà sulla voce: “… che si potrebbe fare i furbi, cioè Chaplin…”; intervistatore: “… ma che non ne vale la pena…”; Bene: “… a meno che non lo si faccia per avere successo o soldi”.

Questa lunga tirata beniana, in cui l’intervistatore non sa più come intervenire per interrompere il flusso assai poco comunicativo, soprattutto per la televisione, dell’attore-regista, meriterebbe una lunga analisi che non è possibile affrontare qui e ora. Non resta che schematizzare e poco più che enucleare i temi affrontati, nell’ordine in cui Bene vi accenna, lasciando per ultimo l’atichaplinismo per approfondirlo almeno un poco. Dunque, 1. l’“incapacità”, termine dell’intervistatore, di Keaton è, per Bene, una “formula acritica” nel senso che esclude quell’arte critica propria della modernità e che Bene ha frequentato e teorizzato e di cui ora invece nega il valore; 2. “non di forma ma di formule si può parlare”: l’apparente, e anche reale, gioco di parole nasconde un antico rovello dell’avanguardia in tutta la sua estensione temporale:

si tratta della lotta titanica, e comunque parzialmente destinata al fallimento, di rifiutare di formare perché la forma è storicamente determinata e porta ineluttabilmente con sé questa storia artistica, che è proprio quella cui gli avanguardisti si oppongono e che vorrebbero eliminare;

3. “stirneriano”: il riferimento a Max Stirner e al suo libro L’Unico e la sua proprietà, vera e propria bibbia dell’anarchismo individualistico, serve a Bene per introdurre il concetto che “la realtà non esiste” quindi noi siamo fuori di questa realtà ma, contemporaneamente, siamo anche “l’unica realtà”: qui l’individualismo beniano, via Stirner, tende a estrarre il soggetto, che nel suo caso è egli stesso inteso come artista eccezionale, dalla realtà per reimmergervelo subito dopo ma, appunto, come “Unico” e, in qualche modo, inesistente a sé e dunque tanto più agli altri, al mondo, un mondo, “una terra”, che [4.], nel frattempo,

“si è continuamente unta di sapone” e “si scivola, si scivola continuamente”: il “nel frattempo” è mio ma il modo di esprimersi di Carmelo Bene è inequivocabile poiché egli non dice “l’unica realtà su una terra […] unta di sapone” ma “che si è completamente unta di sapone”:

senza sottilizzare troppo è evidente il senso del procedere e, dunque, sempre senza approfondire troppo, notiamo qui una contraddizione nel dire beniano che, mentre caccia la storia dalla porta questa gli ritorna dalla finestra essendo egli un artista, almeno fino a questi primi anni settanta, che struttura un’arte disperata e disperante, liquidatrice di quella consolatoria continuamente proposta dall’industria culturale del mondo capitalistico, un’arte che lacera lo spettatore teatrale o cinematografico e che vigorosamente, e disperatamente, si oppone all’arte di intrattenimento e cioè all’“arte” come l’intende il filisteismo borghese. 5. La bravura di Keaton arriva, sempre secondo la lettura che Bene fa della sua arte di attore e regista, anche a fare un et voilà a dimostrare che, malgrado la pars destruens della sua recitazione, “tutto sta in piedi”; ma è solo abilità d’attore che non incide il nocciolo della sua poetica; infatti, “a che, a che”, a che pro, cioè, perché farlo tanto non serve a nulla se non, come ha detto prima, a mettere in luce la sua maestria; a questo punto Bene approfitta di un’interruzione dell’intervistatore per concludere dicendo che questa bravura serve a dimostrare “che si potrebbe fare i furbi, cioè Chaplin” che finge un mondo conciliato inesistente, sempre che non lo si faccia “per avere successo o soldi” e cioè per far parte di quell’industria culturale garante dell’una cosa e, di conseguenza, dell’altra.

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