Buster Keaton e Charlie Chaplin sul set del film Limelight.

In ricordo di Buster Keaton e della sua influenza sull’avanguardia italiana in tre momenti

L'asino vola
7 min readMar 11, 2016

di Gigi Livio

Il cinquantenario della morte di Keaton offre il destro a ripescare, nel dimenticatoio della storia delle espressioni artistiche, un’intervista televisiva a Carmelo Bene, dove l’attore-regista e scrittore esprime il suo punto di vista sull’arte di Keaton attore, soprattutto, ma anche regista. Il documento è eccezionale perché mette in luce alcuni punti essenziali del dibattito non solo sul teatro e sul cinema di quegli anni, siamo nella prima metà degli anni settanta, ma sull’arte tutta di quel periodo così ricco di fermenti.

Presentiamo la trascrizione in tre tranches perché il pensiero di Bene è complesso e articolato e richiede, soprattutto oggi, un commento approfondito.

Chaplin e l’avanguardia

Come si vede dal nostro rapido excursus, Chaplin torna alla fine del discorso e, ancora una volta, in senso non parzialmente ma totalmente negativo: l’altra faccia della medaglia che vede nel suo recto Keaton, l’artista vero, e nel suo verso Chaplin, l’impostore e il venduto all’industria culturale che fornisce “prodotti” utili a divertire ma non innocentemente perché attraverso il divertimento quel tipo di industria trasmette messaggi –ed è ciò che l’arte non deve e non può fare, ancora secondo Bene e certo non solo per lui- e induce stati d’animo artatamente alienanti: non svaga, quindi, solamente, ma veicola vagonate di ideologia inverando così il fatto che se l’arte non è deputata alla propaganda è però ‘politica’ sempre e comunque perché che

“a ogni opera d’arte, a ogni epoca artistica siano intrinseche delle tendenze politiche, è — dal momento che esse sono configurazioni storiche della coscienza — una verità lapalissiana” (Benjamin, 1927).

E questa ideologia, complice dell’industria culturale, che l’amministrazione delle coscienze perseguita dal capitalismo intendeva inculcare nei cervelli dei ‘sudditi’ risulta evidente -così la pensava Bene e tutti quelli che erano d’accordo con lui in quello straordinario, per l’arte e la critica della stessa, periodo storico- in molti fenomeni artistici e dunque anche, e forse soprattutto, nel sentimentalismo che certamente intride molte opere di Chaplin.

E qui si apre un altro problema, ben vivacemente presente allora non solo all’intelligenza di Carmelo Bene ma anche a quella di chi sosteneva posizioni analoghe, e cioè quello della politica culturale dei vari partiti comunisti europei, tra cui, è bene ricordarlo, il più importante era quello italiano, che, per dirla ancora una volta in breve,

in ossequio alla linea culturale dell’Unione Sovietica, quella del realismo socialista, sposavano spesso e volentieri i gusti borghesi; e ciò avveniva anche nel caso di Chaplin e di quel sentimentalismo lapposo di cui abbiamo detto.

Questa linea di politica culturale metteva in grave imbarazzo non solo chi, come Bene, nulla aveva a che fare con il partito comunista e col comunismo, ma anche quelli che, invece, dal punto di vista politico-sociale guardavano con simpatia a quel partito, che su certi piani combatteva realmente l’ingiustizia sociale e l’emarginazione; di qui un’opposizione violenta nei confronti di quelle operazioni artistiche che erano compromesse con la tradizione tutta borghese e niente affatto socialista di sfruttare la parte meno nobile del sentimento per coprire realtà estremamente sgradevoli: il “poetico” — che nulla, ha a che fare, lo scrivo soltanto per scrupolo di chiarezza, con la grande poesia contro la realtà del reale. Di qui una posizione antichapliniana per nulla dialettica perché, in quel momento storico, misconosceva i notevoli pregi artistici di Chaplin e cioè di quel côté comico-grottesco che, pur coesistendo col sentimentalismo, risultava di tutt’altro stampo, spessore e valore ‘politico’, nel senso in cui usa questo termine Benjamin nel brano citato, tanto da piacere a molti artisti e critici che si ispiravano al marxismo come, per citarne solo due oltre a Benjamin, Ėjzenštejn e Brecht. Sul versante della comicità grottesca emergeva il Chaplin ‘crudele’ che si paleserà poi in tutta la sua grandezza quando abbandonerà i panni di Charlot e si presenterà come attore drammatico-grottesco negli ultimi film, Monsieur Verdoux e Un re a New York.

Inoltre Keaton aveva dalla sua, per piacere agli artisti e ai critici che intendevano contraddire e opporsi al gusto borghese dominante, una storia artistica, come si sa, particolare che lo poneva su un piano di eccezionalità non certo da lui voluta ma semmai subita. Nell’autobiografia intitola il capitolo in cui parla della sua crisi umana e artistica, che lo portò a bere fuori misura, Il capitolo che odio scrivere e dove attribuisce alla cattiva sorte e a se stesso la colpa di quel che successe

e cioè di quello che fu non tanto un vero e proprio declino, che sarebbe stato graduale e lento, ma un’emarginazione cui lo condannò l’industria hollywoodiana perchè il tipo di comicità di Keaton ora non le serviva più.

Gli anni sessanta e settanta sono per noi italiani quelli della riscoperta di Keaton, grazie anche a Chaplin. La prima di Limelight nell’autunno del 1952 fu un evento non solo cinematografico e, alla fine della proiezione, molti giovani e giovanissimi (Carmelo Bene aveva 15 anni), infastiditi da tutte le mielosità contenute nel film, che pure veniva cinque anni dopo Monsieur Verdoux,

si trovarono di fronte a quello strano e particolarissimo duetto tra Chaplin e Keaton e scoprirono, anche se per pochi frammenti, che era esistito un altro tipo di comicità non solo riguardo a quella di Chaplin, nella scena in questione tecnicamente bravissimo e terribilmente patetico

(alla fine del duetto precipita nello spazio dell’orchestra e muore), ma anche a confronto degli altri comici che erano abituati a vedere come Stan Laurel e Oliver Hardy, Harold Lloyd, Gianni e Pinotto (Abbot e Costello)…: il fiele di Keaton si contrapponeva al miele di Chaplin.

L’ emarginazione di Keaton era dunque un fatto di mercato legato ovviamente all’ideologia che lo governa, ma i giovani che iniziavano a apprezzarlo, nei cineclub si proiettavano ora i suoi vecchi film, andavano al fondo di quell’emarginazione da parte dell’industria del divertimento e si chiedevano il motivo di questa. Ovviamente il motivo era semplice da capire: Keaton, che un tempo tanto era stato gradito al pubblico, ora non piaceva più perché i tempi erano cambiati, era sopraggiunta la grande crisi iniziata nel 1929, e gli spettatori non avevano più intenzione di trovarsi di fronte “una maschera tragica” ma volevano impiegare quell’ora e mezza passata in un cinematografo per dimenticare gli affanni e le angosce che le difficoltà economiche comportavano. Questo aspetto della questione non era il solo: il passaggio al sonoro aveva costituito anche per Keaton, come per altri, una questione non da poco per il suo tipo di recitazione; poi i problemi sentimentali e l’inabissamento dell’attore nell’alcolismo. E tutto ciò, compresa la parte di “maledettismo” che ogni tipo di avanguardia non può non comportare, affascinava quei giovani che, nel frattempo, iniziavano a operare nel campo dell’arte: per restare all’attore che qui ci interessa, Carmelo Bene aveva esordito a 22 anni nel Caligola di Camus e non certo in sordina. Nasceva un movimento, non organizzato come quello delle avanguardie primonovecentesche, ma con basi condivise che accomunavano quegli artisti e quei critici che non ne potevano più dell’arte amministrata proposta, organizzata e promossa dall’industria culturale: e fu il momento dell’avanguardia degli anni sessanta e settanta che vene anche definita, almeno nella sua parte letteraria, neoavanguardia.

Keaton divenne uno dei vessilli di questo movimento perché veniva visto come un artista di contraddizione che, oltre tutto, aveva pure pagato di persona.

Non è ora il caso di chiarire un punto nodale per la storia dell’attore cinematografico e cioè quale sia il tipo di coscienza artistica che egli mette in opera nel suo lavoro, perché qui soltanto ci interessa chiarire come fu recepito Keaton in quel clima avanguardistico. Basterà dire che il primo a non essere d’accordo con questa lettura sarebbe proprio lui, Buster Keaton. Per citare un solo esempio a supporto di questa affermazione basta leggere le prime tre righe dell’autobiografia:

“Nel corso degli anni la mia faccia è stata definita triste, priva d’espressione, glaciale, La Grande Faccia di Pietra e, liberi di non crederci, «una maschera tragica»”.

L’ironia nei confronti degli intellettuali che non capivano che egli voleva soltanto far ridere, come scrive in altra parte del libro, è piuttosto evidente. Sarebbe necessario un altro tipo di analisi ben più articolata e approfondita dal punto di vista dell’estetica per sciogliere questo nodo problematico;

quello che conta ai fini di questi appunti è notare che quel tipo di arte sopportava certamente non solo di fatto, ma anche teoricamente, il peso critico che Bene le impresse in questa intervista proprio perché rispondeva, così come si era manifestata in quegli anni, a un’esigenza precisa di quel presente.

Il che non è poco per permetterci di annoverarla come uno degli esiti più alti dell’arte recitativa del nostro tempo. Anche perché conoscere quel presente esaltante potrebbe costituire uno stimolo quando le cose, dell’arte e non certo soltanto quelle, riprenderanno forse un giorno il loro cammino.

Quel momento pieno di fervore e entusiasmo scomparve sopraffatto dalla palude putrida che ci ammorba a partire dagli anni ottanta e ripercorrerne frammenti, come qui abbiamo fatto, potrebbe forse un giorno (la ripetizione è voluta e cercata) avere una funzione propulsiva per riprendere un discorso che è quello eterno, nell’epoca della borghesia, di contrapposizione e dunque di contraddizione alla cultura dell’industria della stessa;

perché questa è poi l’unica strada possibile da percorrere per cercare di diradare le nebbie dell’ideologia in cui siamo da troppo tempo avvolti, apparentemente, senza speranza.

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scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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