Ironia. Due parole su Café Society
di Gigi Livio
“Qualcuno dirà che non c’è niente di «nuovo» in questo film, né la riflessione sulla fragilità dei sentimenti umani né i compromessi che la vita spinge ad accettare […] ma è la grazia e la comprensione con cui Woody Allen guarda alle debolezze umane che conquista. Oltre naturalmente alla sua inesauribile ironia” (Paolo Mereghetti, Corriere della sera, 11 maggio 2016).
Ecco, ci siamo: “ironia”, e per di più “inesauribile” oltretutto coniugata con “grazia” e “comprensione” con cui il regista di Café Society guarderebbe alle “debolezze umane”. Forse sarebbe ora di finirla con l’ironia che giustifica ogni cosa, anche la più ambigua e discutibile: domina, nel linguaggio corrente di questa società il dire “Ma era una battuta!” che intende giustificare qualsiasi ingiuria anche quando di “battuta”, nel senso tecnico e cioè motto di spirito, non c’è neanche l’ombra: “Sei un cretino!” “Ma cosa dici, mi hai offeso” eccetera; il primo: “Ma era una battuta!”. Questo per capirci su ciò che avviene sulla piazza del mercato o in un salotto ‘buono’ o chissà dove tutti i giorni. Ma nel mondo “dell’arte” le cose sembrano diverse e invece non lo sono affatto. (Ho scritto “arte” tra virgolette perché oggi lo statuto semantico di questo termine è, come tutti possono constatare, piuttosto traballante).
Continuo con un’altra citazione questa volta però dal saggio di Pirandello L’umorismo, che è del 1908, centootto anni fa:
“L’ironia come figura retorica, racchiude in sé un infingimento che è assolutamente contrario alla natura dello schietto umorismo. Implica sì, questa figura retorica, una contradizione, ma fittizia, tra quel che si dice e quel che si vuole sia inteso. La contradizione dell’umorismo non è mai, invece, fittizia ma essenziale […] e di ben altra natura”.
Lasciamo ora stare il problema dell’umorismo e di ciò che intende Pirandello con questo termine e fermiamoci invece sul fatto che egli affermi che l’ironia contiene in sé “un infingimento” e che la sua contraddizione con la materia trattata sia una contraddizione soltanto “fittizia” e cioè, aggiungo per meglio precisare, apparente e quindi falsa.
E, infatti, cosa succede in questo film in cui trionfa proprio la falsità? Una storia mielosa e sentimentale viene raccontata con un’impostazione appunto ironica, impostazione che dovrebbe distanziare (il termine giusto è “straniare”, ma è una parola che oggi non è più di moda) lo spettatore dalla materia trattata. Ma proprio perché si tratta di un distanziamento fittizio questo non avviene affatto perché non c’è “dolore”, come invece nella parodia quando quest’ultima consuoni con l’umorismo pirandelliano, ma solo piacere di sentirsi, parlo degli spettatori, molto intelligenti e raffinati nel capire le “sottigliezze” del regista celebrato proprio per questo e che per questo fa parte dello star system hollywoodiano assai saldamente. La banalità di questo film, perché è un’opera anche banale, è tutta qui: Allen ci racconta una storia, ovviamente d’amore, lacrimevole, tipo “il primo amore non si scorda mai”, con tanto di “passato che ritorna”, e via canzonettando, filtrandola attraverso un vago senso ironico che, essendo fittizio appunto, non la strania per niente. Così lo spettatore può tranquillamente lasciarsi andare al proprio sentimentalismo “romantico” -per come questo termine lo si intende oggi e come lo si intendeva centootto anni fa, cito ancora Pirandello e cioè “tutto ciò che vi è di più arcadico e sentimentale, di più falso e barocco”- una volta tanto senza sensi di colpa nei confronti di quel residuo di cultura scolastica che ancora gli fa disprezzare, almeno a parole, le sdolcinature delle canzonette.
Woody Allen è certo astutissimo perché conduce questa operazione alla perfezione: è veramente sottile, ma finché qualcuno non va a vedere il suo gioco. Per fare un solo esempio, pensiamo alla battuta più celebrata del film “La vita è una commedia scritta da un sadico”: in questo caso non si tratta che di un altro modo di esprimere il concetto sintetizzato nella famosa espressione “la vita è una valle di lacrime”, concetto che, come ben si sa, risale all’ Antico Testamento. Certo Allen è ebreo e ha tutto il diritto di frequentare una cultura che si basa sulla Bibbia, ma altra cosa è appartenere a una certa cultura e altra è gabellare la tragedia della vita in forma ironica -oltretutto fingendo di ‘inventare’ una battuta che ‘inventata’ non è affatto- e dunque “fittizia”, e “leggera” dove la leggerezza, parola oggi veramente alla moda perché non vuol dire nulla o serve a nascondere significati tremendi, non è certo applicabile alla tragedia vera della vita. Quest’ultimo termine, infatti, contiene in sé la propria contraddizione, e cioè la morte perché non si può morire se non si è vivi. Beckett, in quello straordinario capolavoro della nostra epoca che è Finale di partita mette in bocca a Hamm le parole ben note, rivolte al padre: “Maiale! Perché mi hai fatto?”: qui siamo alla parodia, straziata e dolorosissima, l’unica struttura formale che permette, oggi, di esprimere il tragico, di portare in scena l’osceno: e con ciò intendo anche dire che l’apparente ontologia di quella battuta (nel senso teatrale, ovviamente) rivolta a un padre ficcato in un bidone ne mostra, invece, la profonda storicità grazie alla sua declinazione parodica e di quel tipo di parodia, dove la falsità dell’ironia si dissolve e viene negata. Attraverso la forma la poesia, mentre propone questioni radicate nell’essenza stessa dell’uomo, si storicizza: quell’eterno problema, di cui ci parla già, tra gli altri, il poeta greco Teognide e che Sofocle mette in bocca a Edipo nella terza tragedia della trilogia a lui dedicata, e cioè che la cosa migliore per l’uomo è non essere mai nato, oggi non può essere proposto che così: in forma parodica dove non c’è niente da ridere ma soltanto da piangere, sotto l’apparente comicità della battuta (battuta teatrale ancora una volta, s’intende) perché qui la contraddizione è vera e reale e non certo fittizia com’è nel caso dell’ironia.
In conclusione due parole sulla forma in cui il film è girato. Ho scritto che Allen è astuto e sottile; si deve aggiungere che possiede in alto grado l’uso della forma cinematografica. Il film è certamente “bello” se per bello si intende lucido, pulito, scintillante con un sacco di belle donne e begli uomini e con alcuni brutti e brutte che stanno, naturalisticamente e cioè rispondendo alla regola del physique du rôle, al posto giusto; i costumi e le scene sono altrettanto piacevoli allo sguardo dello spettatore normalizzato dalla cultura tardoborghese, le luci vengono usate con grande sapienza a rendere ancora più gradevole il tutto così come il trucco degli attori che, a loro volta, recitano in modo perfettamente coerente alla poetica naturalistica dove alcune punte anticonformistiche di questa recitazione sono appunto tali e cioè altrettanto ‘normali’. Tutto ciò favorisce l’identificazione dello spettatore nel personaggio che ciascuno si sceglie secondo il solito processo tanto utile, e che ha procacciato tanti utili, all’industria cinematografica in generale e a quella hollywoodiana in particolare. Ma anche questa forma è ironicamente falsa: le parole di certi personaggi condannano la vuotezza del mondo del cinema ma questo mondo, fin che si vuole frivolo e crudele (come mi pare di ricordare dica a un dipresso il protagonista rinfacciando alla sua amata di essersi lasciata catturare da quello stile di vita), ci viene poi presentato, attraverso la fotografia di Vittorio Storaro, come una society affascinante e attraente soprattutto per la mentalità conformata dei piccolo borghesi, o di tutti coloro che ormai la pensano in questo modo anche se tanto piccoli magari non sono.
Care lettrici e cari lettori (per quanti siete, ovviamente) se andate a vedere questo film munitevi di tutti i vostri strumenti critici e non date retta ai vari cantori e esaltatori del vigente: poiché il vigente, nel caso del cinema e di altre espressioni che si giovano di strumenti “artistici”, è quasi sempre, oggi, nient’altro che industria culturale.