foto di Juliano Ribeiro Salgado

La destra, in America Latina, e il populismo

L'asino vola
11 min readMay 11, 2016

di Gigi Livio e Ariela Stingi.

Apparentemente potrebbe stupire il fatto che i nostri giornali a grande tiratura e le televisioni si siano improvvisamente accorti che qualcosa sta succedendo in America Latina dopo una quindicina di anni in cui le notizie da quella parte del continente americano risultavano quasi totalmente assenti; proprio come se là non stesse avvenendo nulla degno di nota. In fondo, questo il sottinteso al motivo del silenzio, erano cose di pertinenza degli “americani” e cioè degli statunitensi che si arrogano il diritto di ergersi a eponimi di tutto un continente. Si tratta di nient’altro che del proseguimento della dottrina di Monroe, presidente degli Usa, che nel 1823 dichiarò che l’America Centrale e quella Latina erano “il cortile di casa” degli Stati Uniti, dottrina che noi, servi dell’impero, accettiamo senza nemmeno discutere.

Il quindicennio in questione, che più o meno coincide con quello del nuovo millennio, vede, a partire dal Venezuela, la vittoria di quello che il presidente di quel paese, eletto la prima volta nel 1998, definirà come “socialismo bolivariano” o “socialismo del XXI secolo” e che dilagherà in varie forme in molta parte del continente avendo come base una unione economica sud-sud che tende a rendere l’America Latina autonoma dal punto di vista del mercato oltre che da quello politico. (Il discorso sarebbe lungo e qui sintetizziamo al massimo per ovvie ragioni). Addio, quindi, al “cortile di casa”.

Questo è il periodo storico in cui nasce nuovamente, ma in forma diversa, una speranza per gli oppressi di tutto il mondo perché il socialismo, bolivariano o no, è per sua natura internazionalista.

Si capisce l’interesse statunitense a mettere sotto silenzio e a combattere in ogni modo questa poderosa ondata anticapitalistica; e l’anticapitalismo coincide oggi, come ieri per altro, con l’antiimperialismo per cui è del tutto evidente il motivo per cui Obama ha dichiarato che “il Venezuela rappresenta una minaccia inusuale per gli Stati Uniti” e ha prolungato le sanzioni a quello stato fino al 2019.

Poi però, per ragioni che abbiamo letto nell’intervista a Frei Betto, assistiamo oggi a un’inversione di tendenza: le destre, tutte filostatunitensi e largamente finanziate e supportate da quel paese in funzione di difesa degli interessi della multinazionali, conoscono ora successi elettorali impensabili solo fino a qualche anno fa: vincono largamente in Venezuela, meno largamente ma vincono pur sempre in Argentina, il Brasile è in bilico e, ovviamente, diventano sempre più minacciosi i paesi governati da personaggi di destra apertamente schierati dalla parte degli Usa. È venuto il momento, secondo i servizi più o meno segreti statunitensi, di tornare a parlare di quel subcontinente (meglio sarebbe scrivere ”sudcontinente” a eliminare quel “sub” che sa troppo di subalternità): e i nostri giornali “indipendenti” si adeguano; e con largo anticipo.

Rimandiamo a una pagina di “Repubblica”, del 4 dicembre 2015, in cui compare un articolo che dovrebbe illustrare le condizioni di totale oppressione in cui giacerebbe il popolo venezuelano sotto la “dittatura” di Maduro, per altro, come Chavez, presidente regolarmente eletto. Non vogliamo farla troppo lunga visto che i lettori possono benissimo giudicare da sé, ma certo che quel ‘povero’ macellaio che si asciuga “le lacrime con la carta che usa per impacchettare la carne” ricorda proprio tanto, nel paese di De Amicis e del mandolino, i ‘poveri’ scolaretti di Cuore, anche se poi, “ricevuta una partita di carne bovina”, la venderà, si badi bene “un po’ di nascosto”, a chi?, ovviamente, “ai suoi clienti migliori”. È chiaro che qui il povero, senza virgolette, giornalista non si accorge di fare l’elogio di quella che, durante la guerra, si chiamava “borsa nera” e cioè una truffa che, al solito, privilegiava i ricchi sui poveri, quelli veri. Lasciamo anche stare quella ‘povera’ moglie di barbiere che dichiara che la sua famiglia sopravvive con i vecchi risparmi e che ha due figlie laureate in medicina: ma lo sanno, lei e il giornalista, che in Italia laurearsi in medicina costa l’iradiddio? e come hanno fatto il barbiere e sua moglie a far laureare in medicina le loro due figlie? Integriamo noi il ‘silenzio’ del giornalista: nel Venezuela socialista le scuole, università compresa, sono completamente gratuite: ecco è tutto qui, altro che informazione libera. Ultimo punto: l’“autogolpe”. Bene, nel frattempo le elezioni ci sono state, la destra ha vinto ampiamente, e Maduro e tutti i chavisti hanno riconosciuto il verdetto popolare; semmai, da allora, le uccisioni di esponenti chavisti sono riprese; anche in questo caso è tutto qui.

E veniamo al “populismo”. Alleghiamo un articolo di Loris Zanatta, professore d’università, in cui il populismo la fa da padrone: quel termine e i suoi derivati compaiono ben 23 volte (se abbiamo contato bene) in un articolo nemmeno poi tanto lungo (poco meno di 7.000 battute, circa due pagine di libro). Qui il discorso sarebbe lungo; al solito, lo sintetizzeremo in poche righe. Populismo è un termine di cui oggi molti si riempiono la bocca, anche coloro che non sanno bene cosa voglia veramente dire; questi ultimi non hanno nemmeno tutti i torti perché si tratta di un vocabolo a largo spettro semantico. Quello però che qui ci interessa è notare che viene usato come passe-partout per definire un fenomeno politico, culturale, economico che sfugge alla nostra comprensione e che non sappiamo come altrimenti rubricare: Berlusconi è populista come Renzi che ne segue le orme, populista erano sia Mussolini che Hitler, ovviamente populista era Peron e via elencando; dunque populisti sono, per Zanatta, anche i governi socialisti bolivariani e quelli che simpatizzano e collaborano con i primi. Si tratta di mettersi d’accordo su un punto e cioè quello che riguarda la prima e più ampia definizione di populismo. E qui si può riportare un’affermazione di Asor Rosa risalente al 1965:

Perché ci sia populismo, è necessario che il popolo sia rappresentato [in letteratura] come un modello” (il corsivo è dell’autore).

Fin qui il professor Zanatta non dice nulla di sostanzialmente diverso; il punto è un altro: eccolo esposto l’anno seguente nell’introduzione alla seconda edizione dello stesso libro, Scrittori e popolo che

“esamina specificamente uno dei valori, nei quali s’incarna la mistificazione della lotta di classe in varie forme operata durante la storia da parte dell’intellettuale progressista: quello, appunto, costituito dal concetto mitico di popolo”.

Lasciamo stare l’intellettuale progressista, perché oggi tutto ciò è patrimonio anche dell’intellettuale reazionario, e veniamo alla lotta di classe che il populismo, secondo Asor Rosa, mistificherebbe: ecco, appunto. In America Latina oggi è più viva che mai la lotta di classe che, puntualmente, viene definita e interpretata come populismo e così mistificata. Per fortuna una madre che fa parte del gruppo delle Madres de Plaza de Mayo, argentine, ha ben chiaro il problema quando dice che oggi il rigurgito delle destre è dovuto al fatto di “aver dato le cose per acquisite. Non abbiamo capito cosa sia davvero la lotta di classe” con quel che segue. Il discorso è già troppo lungo e le poche righe non sono più poche. Chiuderemo con un’osservazione tra le tantissime che si potrebbero (e, forse, dovrebbero) fare all’articolo di Zanatta: quando, egregio collega (parla ora il primo firmatario di questo articolo), propone come soluzione a quello che lei considera il populismo del sudcontinente “il razionalismo illuminista” e “la tradizione liberale che ne deriva” legga almeno La dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno così potrà a buon diritto ascrivere a quel clima politico e culturale “la nuova politica di buon vicinato degli Stati Uniti”, sempre parole sue, quella politica che aiuta in ogni modo le destre locali soprattutto con ricchi finanziamenti; cosa poi facciano le destre con quei soldi è noto: ricordate il colpo di stato in Cile? per fare solo un esempio, è chiaro; ma si tratta di un esempio terribile.

I due articoli che segnaliamo, il primo costituito da un’intervista a una delle Madres e il secondo, di cui qui riportiamo solo il link, di informazione una volta tanto seria, riteniamo siano utili proprio a contestare l’ideologia, nel senso di falsa coscienza naturalmente, sparsa a piene mani nello scritto del professor Zanatta.

«Ancora in piazza per rinnovare il sogno dei nostri figli scomparsi»

«I nostri figli hanno dato la vita per un sogno e noi lo rinnoviamo ogni giorno». Non tradisce il peso degli anni, la voce di Hebe de Bonafini, storica dirigente delle Madres de Plaza de Mayo, classe 1928. Oggi, l’organizzazione che ha contribuito a fondare, il 30 aprile del 1977, compie 39 anni. Il 24 marzo dell’anno prima, una giunta militare aveva preso il potere in Argentina, scatenando una repressione che, in sei anni, provocherà circa 30.000 scomparsi.

Sfidando il pericolo, quel 30 aprile le Madres lanciano al mondo un simbolo di resistenza, come una bandiera: un fazzoletto bianco con su scritto il nome dei loro figli scomparsi, un pannolino di tela con cui li hanno fasciati da piccoli. Donne semplici, via via sempre più coscienti e organizzate, consapevoli del rischio e disposte a continuare a prezzo della vita. Il 10 dicembre del 1977, nella giornata internazionale dei Diritti umani, il giornale delle Madres pubblica l’elenco dei ragazzi desaparecidos.

Quella notte, l’operaia Azucena Villaflor, una delle fondatrici viene sequestrata da uno squadrone della morte e condotta in uno dei campi di sterminio, probabilmente l’Esma. I suoi resti sono ritrovati l’8 luglio del 2005, durante la stagione dei processi ai responsabili della dittatura. Le ceneri vengono sepolte ai piedi della Piramide di Maggio, al centro della Plaza de Mayo, l’8 dicembre del 2005, a conclusione della 25ma marcia di resistenza delle Madres.

Oggi, il pañuelo è diventato un simbolo nazionale dell’Argentina «e per tutti i popoli del mondo rappresenta la lotta, la resistenza, la trasformazione collettiva», scrive Kabawil, il gruppo di appoggio italiano alle Madres. Per il loro 39mo compleanno, Kabawil ha organizzato una carovana, che si conclude oggi a Mar del Plata.

Cosa ricorda Hebe di quel 30 aprile di 39 anni fa? Com’è cominciata quella battaglia?
Da mesi, ci incontravamo al ministero degli Interni, nelle caserme, tutte alla ricerca dei nostri figli scomparsi. Un giorno, che può essere considerato il punto d’avvio, eravamo andate alla chiesa della marina Stella Maris, dal vescovo Emilio Gracelli che poteva avere notizie. E Azucena Villaflor ha detto: basta, andiamo in piazza. Eravamo stufe di girare a vuoto. Così ci rechiamo a Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, il palazzo presidenziale argentino, con una lettera per il generale Videla. Era un sabato, e lì non c’era nessuno, mentre noi volevamo essere visibili. Qualcuna suggerisce di tornare il venerdì, ma c’è chi dice: no, venerdi è il giorno delle streghe. Così cominciamo a girare in piazza il giovedì alle 15,30: per rientrare prima del buio, perché eravamo seguite e perseguitate.

Quanti figli ha perso?
Due, più mia nuora, sposata al maggiore. Ma per le Madres la maternità è collettiva, abbiamo deciso di socializzarla, parliamo dei nostri figli per parlare della storia di questo paese, dei molti giovani coraggiosi che le famiglie non hanno voluto ricordare. Loro hanno dato la vita per un sogno, noi abbiamo deciso di condividerlo e di rinnovarlo, ogni giorno da allora. Per noi, non sono né vittime — perché hanno lottato, anche con le armi per i propri ideali — né tantomeno terroristi. Nessun terrorista dà la vita per amore degli altri. La rivoluzione è un atto politico d’amore: perché sempre i popoli hanno motivo di lottare e di guardare a quelli che lo hanno fatto prima di loro per costruire una speranza. In Argentina abbiamo avuto 12 anni meravigliosi con il kirchnerismo, la casa del governo era aperta, era parte della nostra vita. Con Nestor e Cristina, l’Argentina ha aperto la scatola nera del passato, ci sono stati i processi, si sono rimesse in moto le energie.

Ma adesso è tornata la destra…
E siamo tutti responsabili. Certo, ci sono stati errori di tipo diverso: candidati che non sono stati all’altezza, la corruzione, ma il più grave è stato l’aver dato le cose per acquisite. Non abbiamo capito cosa sia davvero la lotta di classe. Abbiamo dimenticato che, senza un adeguato lavoro politico, la gente più umile quando ottiene dei benefici si rivolge verso l’alto e non verso il basso, pensa che chi sta più in alto possa darle ancora di più, senza capire che quello che ha avuto è perché se lo è conquistato. E così è arrivata la destra con le sue promesse megagalattiche di lavoro, felicità, parole vuote e demagogiche dirette agli strati più umili. Macri ha promesso di tutto, salvo quello che sta mettendo in atto: licenziamenti, pallottole per chi protesta, chiusura delle università popolari e delle mense scolastiche per i bambini poveri…

Le Madres sono nuovamente a rischio?
Sì, ci hanno minacciato di morte, telefonate continue in cui dicevano che ci avrebbero uccise. Quattro tizi armati sono entrati nella sede della nostra radio, hanno sfondato la porta, ferito un compagno. Io sono stata citata tre volte in giudizio per incitamento alla violenza. Una prima volta mi chiama il giudice e mi dice di andare a deporre. Rifiuto. Mi manda una citazione. Non vado. Mi dice: mandi il suo avvocato. Rispondo: non nomino nessun avvocato perché non ho commesso alcun reato. Se volete arrestarmi, fate. Sto aspettando. Un giorno ci hanno impedito di entrare in piazza, una camionetta di polizia proibiva l’entrata. Ma sono arrivati i compagni, insieme a 40 deputati.

La deputata Milagro Sala è in carcere per presunte irregolarità amministrative.
Sì, purtroppo. Mi ricordo che anni fa lavoravamo a un progetto di case popolari chiamato Il sogno condiviso. Con quello abbiamo fatto uscire dal carcere due detenuti e due emarginati che si trovavano in un ospizio. E questi, con la complicità di funzionari governativi hanno messo su una truffa con cui hanno cercato di screditarci. E un giudice ci ha obbligato a pagare i danni. Abbiamo capito che la politica non va mischiata con il denaro, con il capitalismo che non puoi controllare perché stimola solo gli interessi individuali, la politica va intesa nel suo senso più alto, come la migliore azione collettiva. Per questo, a differenza delle altre associazioni, abbiamo rifiutato risarcimenti economici per i nostri figli. Non c’è prezzo per la vita e non serve dedicare una strada a qualcuno degli scomparsi. I nostri figli non sono morti, vogliamo che vivano nelle lotte presenti insieme a tutti i 30.000 scomparsi. Per via dell’età, siamo sempre di meno, ma il nostro impegno è lo stesso: mostrare ai giovani che la lotta non è inutile, neanche il sangue versato è inutile e che non bisogna sentirsi vittime.

Lei è tornata in piazza per difendere il socialismo bolivariano e ha denunciato i golpe istituzionali in marcia in America latina.
Sì, bisogna difendere Nicolas, Dilma… Prima, per eliminare i presidenti le destre usavano l’esercito, oggi si servono dei giudici, dei grandi media e degli imprenditori. Nel governo Macri sono quasi tutti imprenditori, schierati per riconsegnare il paese ai fondi avvoltoio. E la sinistra non capisce che deve riformulare il proprio pensiero politico. Ma il popolo, durante gli anni del kirchnerismo ha imparato a scendere in piazza. Macri ha fatto un decreto per impedirci di scendere in piazza, ma il 24 marzo eravamo un milione di persone a rendere carta straccia il suo decreto. Uno tsunami. Il popolo è uno tsunami e uno tsunami non si ferma per decreto. In America latina si è aperta una speranza, dobbiamo lottare perché diventi realtà, senza delegare tutto ai politici. Loro fanno il possibile, il popolo deve fare l’impossibile e lì stanno le Madres.

Geraldina Colotti, il Manifesto ,30.04.2016

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