L’Avanguardia come incompiuta
Con questo titolo diverso continuo qui le riflessioni che sto cercando di imbastire sull’avanguardia (e per questo motivo riprendo la numerazione progressiva delle “parti”). Il primo titolo, Cauto omaggio a Edoardo Sanguineti, aveva un significato poiché la mia intenzione -dichiarata nel sottotitolo: A proposito di due libri che lo riguardano- era quella di occuparmi di due volumi uno di e l’altro su Sanguineti. La necessità, però, che mi sembrò impellente, al fine di poter parlare di quei due libri, di chiarire il mio punto di vista metodologico e storico sui vari problemi posti da ciò che siamo soliti definire come “ avanguardia”, e di segnarne i confini nei confronti della falsa avanguardia, ha iniziato a occupare uno spazio, al momento, imprevisto. E poiché mi sembra, per ciò che oggi ne posso sapere, di essere ancora lontano da una conclusione, se pure provvisoria e comunque non concludente nel senso comune del termine, mi pare giusto cambiare il titolo perché questo corrisponda meglio a ciò che sto facendo.
Unica novità strutturale di questa nuova impostazione è quella costituita dall’esplicitazione delle note che evidenzierò, per evitare fraintendimenti, con parentesi quadre e con la normale numerazione progressiva.
Settima parte.
Nasce un diverso sublime.
These fragments I have shored against my ruins
Thomas S. Eliot, The Waste Land.
[1. Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine; trad. di Angelo Tonelli.]
Prima sezione.
L’analisi, che ho condotto in chiusura della sesta parte di questo scritto, del monologo finale di Franklin, in un certo senso portavoce dell’ideologia dell’anonimo autore di Arden of Feversham, necessita però ancora di un approfondimento. Perché se è vero, come è vero, che la nascente borghesia intende rivendicare a sé una cultura e un’arte che siano portatrici dei suoi ideali e della sua morale è altrettanto vero che questa operazione non poteva non comportare, di necessità si potrebbe dire, il tendere verso una nuova forma di sublime che sapesse contrapporsi a quello classico e contemporaneamente assolvere al compito di cui ho appena detto.
Ma nel momento in cui si affronta il problema costituito dal sublime è necessario mettere in opera una serie di cautele critiche che debbono tenere conto di una lenta trasformazione -lenta come quella dell’ascesa della borghesia prima che la stessa possa essere considerata a tutti gli effetti classe dominante- tra la concezione classica del sublime e quella borghese che si affermerà in tutta la sua forza soltanto più di due secoli dopo per conoscere però ben presto la sua ineluttabile degradazione. O addirittura il suo annullamento come, al solito in modo tanto sintetico quanto chiaro, affermerà Adorno:
Quando l’arte borghese ha allungato le mani sul sublime e ha preso in tal modo consapevolezza di se stessa, le era già inscritto il movimento del sublime verso la propria negazione.
[2. T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. di Giovanni Marcucci, Torino, Einaudi, 2009, p.266.]
Ma, forse, non sempre e comunque non allo stesso modo. E, dunque, come ipotesi di lavoro, mi pare sia da prendere in considerazione -nella prospettiva di chiarire la forte carica contraddittiva che porta alcuni artisti, quelli più sensibili naturalmente, a opporsi alla cultura dominante- l’evoluzione del concetto e della pratica del sublime nelle arti e nella cultura secondo la gradualità e anche l’ambiguità, addirittura passibile di sfociare in forme antitetiche, che conobbe questo svolgimento.
Sarà dunque necessario, per seguire questa traccia, tornare al monologo finale di Arden of Feversham e cercare di indagarlo proprio in questa prospettiva e cioè esplorare le parole dell’Anonimo per ottenere una conferma teorico-metodologica che cerchi di scoprire in quei versi una certa impostazione tendente al sublime di tipo diverso da quello classico e, quindi, per ciò stesso nuovo. E, per fare questo, è necessario ricorrere al testo originale perché la tendenza al sublime è certamente sorretta da una spinta ideologica e di poetica di cui è espressione lo stile in cui questa tensione diventa testo. Trascrivo pertanto gli ultimi versi, quelli in cui Franklin si rivolge direttamente agli spettatori e che costituiscono il momento più opportuno per l’autore di esplicitare la propria poetica, per vedere se l’ipotesi, e cioè quella di trovarci qui di fronte a un’intenzione di cercare un sublime diverso confronto a quello classico che permetta alla poetica preborghese, o già, se pure in nuce, borghese tout court, di mettere gli spettatori di fronte a questa concezione nuova della sublimità:
Gentlemen, we hope you’ll pardon this naked tragedy,
Wherein no filèd points are foisted in
To make it gracious to the ear or eye;
For simple truth is gracious enough,
And needs no other points of glosing stuff.
[3. Arden of Feversham, a cura di Ronald Bayne, London, J.M. Dent and Co., p.106. Il volume è consultabile in rete all’indirizzo Archive. Org.]
Balza subito agli occhi la ripetizione dell’aggettivo “gracious” nel terz’ultimo e penultimo verso del brano riportato che ci immerge in pieno clima manieristico anche se non tanto ci pone di fronte a un wit vero e proprio [4. “Gli ultimi decenni del Cinquecento segnano il trionfo del wit eufuistico, nel senso di un uso ed abuso continuo di un linguaggio metaforico fiorito di concetti e di preziosismi verbali.” G. Melchiori, John Donne, in J. Donne, Selected poems. Death’s duell, a cura di Giorgio Melchiori, Bari, Adriatica editrice, 1957, p.31.] nel senso nostro di “concettismo” o in quello spagnolo di “acudeza”, ma comunque a qualcosa di simile unito all’intenzione dell’Anonimo di dare allo spettatore un’impressione di ricercata raffinatezza formale, che funziona decisamente come spia stilistica dell’epoca in cui il testo viene scritto e rappresentato.
Ma ci sono poi due altri termini, che potremmo definire come lessemi chiave o spie stilistiche -quest’ultima locuzione l’ho, appunto, appena usata- che, come subito vedremo, si collegano a quello precedente: si tratta dell’aggettivo naked qui strettamente congiunto al sostantivo truth, questo il secondo termine chiave, che ulteriormente lo qualifica e che l’anonimo già mette in risalto nel primo verso del monologo: “Thus ave you seen the truth of Arden’s death” e che già, nell’edizione originale del 1592, compare anche nel titolo: The Lamentable and True Tragedie of M. Arden of Feversham in Kent. Al titolo segue, sempre in copertina, uno stringato sommario della vicenda opportunamente, ai fini dello scopo che si prefiggono a questo punto non solo l’autore ma anche l’editore, e elegantemente bipartito in due “blocchetti” in cui nel primo vengono rapidamente elencati i vari ammazzamenti mentre il secondo è deputato alla morale della favola:
“Dove è esposta la grande malignità e dissimulazione di una donna depravata, l’insaziabile desiderio di un’oscena libidine e l’ignominiosa fine di tutti gli assassini”.
[5. La copertina e tutta la tragedia si trovano al sito segnalato alla nota precedente nel volume The Shakespeare Apocrypha, a cura di C.F. Tucker Brooke, Oxford, Clarendon Press, 1918; questo libro raccoglie più testi attribuiti a Shakespeare e si apre proprio con la tragedia di cui ci stiamo occupando.] E benché l’editore non sia da considerarsi sempre come il trasmettitore fedele delle parole dell’autore, in quelle parti del libro utili alla vendita dello stesso naturalmente, in questo caso però risulta comunque, anche se il sommario in questione non fosse dell’Anonimo ma suo, un interprete fedele dello spirito dell’opera o, almeno, di come sto cercando di delinearlo e interpretarlo.
Infatti, quando Franklin si rivolge direttamente agli spettatori il concetto di verità del primo verso, “avete visto la verità della morte di Arden”, viene ripreso con forza e rilanciato verso una significazione ulteriore con quel naked, nuda, con cui, anche tenendo conto di diverse sfumature di significato del termine come “palese”, “lampante”, l’Anonimo mostra di voler rafforzare questa idea di verità senza orpelli di sorta in modo da poterlo riprendere nel penultimo verso in funzione di elemento fondante della poetica da lui seguita nel comporre l’opera. Ma non basta perché l’autore coniugando ancora truth con gracious mostra chiaramente quale intenzione lo spinga a metterlo in evidenza perché la verità è graziosa come, per opposizione, graziosi sono gli abbellimenti e le attenuazioni della crudezza della stessa che altri drammaturghi metterebbero in atto per renderla più gradita agli occhi e alle orecchie degli spettatori; l’Anonimo crea così un’opposizione tra i due termini che tiene molto, come tra poco vedremo, del concettismo barocco.
Ma rimanendo ancora sul termine in questione sarà inoltre da notare come la poetica dell’anonimo drammaturgo divenga ancora più esplicita se si pone attenzione alle varie significazioni che può registrare gracious, qui usato in senso variato di verso in verso. Infatti se nel terz’ultimo di questi l’aggettivo ha il significato di “piacevole”, “degna di grazia” o, come traduce Baldini “gradita” all’occhio e all’orecchio, nel verso successivo acquista un valore semantico decisamente diverso, come si diceva appunto, molto più ampio e, vorrei dire, solenne. Se ora ricorriamo al New English Dictionary on historical principles, pubblicato nel 1933, troviamo che il quinto significato è così formulato:
“Of the Deity, Christ, the Virgin Mary: Disposed to show or dispense grace, merciful, compassionate, benignant”
e già qui si apre la possibilità di un’interpretazione più pregnante del verso in questione perché quel gracious unito a simple truth attribuisce a quest’ultimo sintagma un significato particolarmente ricco di ulteriori sensi connotativi. Se poi continuiamo nell’escussione di detto dizionario troviamo addirittura in 5.b: “ellipt. as a substitute for the name of God” con esemplificazioni quali God gracious! ancora appartenente alla lingua viva e altre, invece ormai cadute in disuso, ma non certamente in quel 1592 in cui venne stampato per la prima volta Arden of Feversham, come Goodly and gracious!, O my gracious! Dal canto suo Samuel Johnson , autore del Dictionary of the English Language, pubblicato nel 1755, della voce grace dà, come secondo significato, “Favourable influence of God on the human mind” e come primo esempio riporta una preghiera popolare: “The grace of God, that passeth understanding, keep your hearts and minds”. Il terzo significato, sempre per il dizionario di Johnson è il seguente: “Virtue; effect of God’s influence”.
È dunque questo intervento del divino nel qualificare la verità che ci porta in un campo semantico e concettuale limitrofo a quello che prima avevo segnalato come il desiderio, e la pretesa, da parte della borghesia nascente di creare una propria arte e una propria cultura, ma diverso, più pregnante e più solenne, appunto, rivendicando a sé, attraverso questa solennità conferitagli dall’aura divina, anche il sublime, ma un sublime che sappia adattarsi ai nuovi tempi e rispondere ai bisogni di quella che diverrà più tardi la classe dominante, ma che fin dal periodo in cui la regina Elisabetta ne favorisce l’ascesa, intende piegare le cose della cultura e dell’arte a divenire funzionali al proprio potere.
Arden of Feversham ci mostrerebbe dunque come il sublime antico, a questo punto dello sviluppo storico, non sia più praticabile. Per contro, e quasi in opposizione all’ideologia veicolata da quel testo, stanno certi personaggi scespiriani la cui grandezza vertiginosa sta proprio nella sfasatura che vivono e soffrono tra l’essere spinti dalla propria cultura e dalla propria grandezza d’animo a tendere ancora a un sublime ormai impraticabile e la presa di coscienza della dura realtà dei tempi. Ciò è evidente nel conflitto interiore che tormenta il principe Amleto ben conscio, e anche qui sta molto della sua modernità, che per il fatto puramente casuale dell’esser nato figlio di re, spetterebbe a lui mettere “in sesto” i “tempi schiodati” in cui si è trovato a vivere. [6. La traduzione è quella, assai libera ma che a me pare efficace, di Cesare Vico Lodovici; W. Shakespeare, Amleto, Torino, Einaudi, p.35. “The time is out of joint; O cursed spite,/ That ever I was born to set it right!”, W. Shakespeare, Hamlet, in The complete works of William Shakespeare, London, Oxford University press, 1957, p. 878.] Sappiamo come andrà a finire, in una terribile carneficina, e sappiamo anche che il suo elogio regale (“Posto alla prova si sarebbe mostrato buona tempra di re”) [7. Ancora traduzione di Cesare Vico Lodovici a pagina 131. Ecco il testo shakespeariano: “[…] had he been put on, / To have prov’d most royally”, W. Shakespeare, Complete Works, cit., p.907.] lo pronuncerà Fortebraccio, personaggio estraneo alla vicenda.
Il suo scacco, oltre a essere certamente anche un fallimento esistenziale, si rivela però soprattutto come un fallimento storico: i princìpi che muovono la
sua azione, princìpi improntati alla grandezza morale prevista per un principe, non sono soltanto conculcati dal re Claudio la cui brama di potere si contrappone alle giuste rivendicazioni, su questo piano, di Amleto dal momento che, in questo caso, si tratterebbe di un meccanismo già conosciuto nella scrittura drammatica del tempo, ma, e proprio qui sta la novità e la carica rivoluzionaria del testo, questa volta è il protagonista stesso a entrare in conflitto con se stesso e sono le sue contraddizioni che portano alla catastrofe finale che travolge con sé anche la tensione di Amleto verso un’eticità sublime mostrandone ormai l’impraticabilità. Forse, quindi, per l’Amleto potremmo anche parlare, senza dimenticare tutte le altre caratteristiche che lo distinguono, di uno scacco del sublime antico che, proprio perché a questo tende Amleto, si mostra ormai del tutto impraticabile nei “tempi schiodati” in cui il principe vive e che dovrebbe “rimettere in sesto”, proprio lui che non riuscirà nemmeno a “rimettere in sesto” se stesso. Ed è da questo scacco che scaturisce una scintilla di un altro tipo di sublime, più riposto, più interiore dove non tanto l’eroismo delle azioni eccezionali, ma proprio la disperazione per non riuscire a compierle, costituiscono il nerbo di quella sublimità che non può che essere conosciuta dopo la sconfitta dell’eroe e la sua morte. Sembrerebbe effettivamente essere questo tipo di sublimità a dettare a Foscolo, due secoli più tardi, una sentenza che ormai ha il carattere della definitività:
“A’ generosi / giusta di gloria dispensiera è morte”:
[8. U. Foscolo, Dei sepolcri, vv.220–221, in U. Foscolo, Poesie e prose d’arte, a cura di Enzo Bottasso, Torino, Utet, 1973, p.96.] soltanto ai nobili d’animo, pertanto, i “generosi” foscoliani come Aiace appunto, è la morte a rendere giustizia e onore dal momento che le loro virtù, in un mondo ormai deprivato dell’etica in cui questi personaggi si riconoscono, non possono più essere riconosciute durante la loro vita.
E appunto questo è ciò che succede al principe danese che non diverrà mai re, ma che con il sacrificio estremo della vita, non cercato anche se perseguito con tenacia, sa bene che soltanto Orazio, qui in funzione di personaggio-coro, potrà dire la verità su di lui (“Oh buon Orazio, che nome ferito, se le cose rimangono ignorate come ora sono, vivrà di me!” [9. Uso ancora la traduzione di Cesare Vico Lodovici a pagina 129; “O God! Horatio, what a wounded name, / Things standing thus unknown, shall live behind me.”; in W. Shakespeare, Complete Works, cit., p.907.]) e cioè svelare al mondo quale è stato il suo tormento di uomo vissuto in un’età di trapasso tra una di certezze e saldezze ben radicate e un’altra dove si va soltanto a tentoni in cerca della verità etica e non solo. Ma è proprio da questo tormento che sorge quel nuovo tipo di sublime, di cui dicevo, la cui sublimità sta dunque nel vivere quest’età con strazio alla inutile ricerca di quelle certezze che, venendo meno, hanno lasciato l’uomo in balia di se stesso e dei propri istinti che a loro volta, proprio perché storici essi stessi, non sono più riconoscibili grazie a un punto di vista etico universalmente riconosciuto. Per questo non tutto ormai può essere detto, ma è possibile soltanto accennarlo nel momento in cui Amleto, eroe non-più-(del tutto)tragico, affiderà a Orazio non la soluzione veritiera della sua intricata vicenda umana, ma l’impossibilità di conoscerla. Ed è proprio in questo frangente che la morte si svela come un mitologema che mostra chiaramente la sua valenza allegorica là dove la morte del corpo trascina con sé anche quella dell’animo mentre il gioco del teatro nel teatro giova a meglio rivelare il valore dell’ allegoria:
Voi che assistete tremanti, pallidi a questi casi, semplici spettatori o comparse in questa vicenda, quando ne avessi tempo — ché la morte, empio sbirro non allenta la sua ferrea tenaglia — oh, potrei dirvi… No, nulla.
[10. È sempre la traduzione di Lodovici a pagina 129. Così il testo originale: “You that look pale and tremble at this chance, / That are but mutes or audience to this act, / Had I but time, — as this fell sergeant, death, / Is strict in his arrest, -O! I could tell you- / But let it be.”, W. Shakespeare, Hamlet, in The complete works of William Shakespeare, cit., p.907].
La nostra attenzione critica, e estetica, viene attratta e si concentra su quei due lapidari emistichi, “O! I could tell you — Bet let it be”, perché è proprio lì che si condensa, nell’icasticità dello stile, il significato profondo di tutta l’opera: l’indicibile, l’irrapresentabile, l’ob-sceno. [11. Quest’ultimo termine viene qui usato nel significato che ha assunto nei vari scritti dei molti attori-registi-scrittori e critici dell’avanguardia teatrale degli anni sessanta-settanta in Italia e cioè quello di “ciò che deve (o: non può che) stare fuori scena perché non può essere rappresentato sul palcoscenico”. Si tratta, come è noto, di una falsa etimologia, ma il significato del termine che ne deriva riesce a restituire in tutta la sua pregnanza il concetto di cui qui mi sto occupando.] E sono proprio questi concetti quelli che mostrano come, a partire dallo sconvolgimento della società e delle coscienze dell’epoca manieristico/barocca, c’è e ci sarà sempre d’ora in poi, per chi lo vorrà intendere certamente, qualcosa di diverso e nuovo nella coscienza dell’uomo, qualcosa di terribilmente inquietante: il non potere mai esprimere fino in fondo lo strazio del proprio animo di fronte al crollo delle salde credenze d’un tempo: ciò che è ob-sceno non è la morte, che invece viene rappresentata, ma è ciò che causa l’incompiutezza, incompiutezza che qui, nell’Amleto, si vuole ancora legata alla morte del corpo e che più tardi potrà invece essere soltanto quella dell’animo sconvolto e lacerato. Ecco perché la morte, così come si presenta nei versi che ho riportato, risulta allegoria di tutto ciò che non si può più dire nel momento in cui mancano ormai all’uomo gli strumenti adatti a esprimere questa mancanza in una forma compiuta e cui si può soltanto alludere svelando questa incompiutezza: -O! I could tell you- / But let it be.
Giova, a questo punto, richiamare, anche se non in modo sistematico, il vario gioco delle traduzioni. Abbiamo visto che Lodovici traduce il but let it be con “No, nulla” e all’incirca così fanno gli altri studiosi che hanno voltato in italiano il testo scespiriano. Ma questo testo già si colora di un diverso tono nel “- ma lasciamo andare” di Raffaello Piccoli [12. W. Shakespeare, Amleto, trad., introduzione e commento di Raffaello Piccoli, Firenze, Sansoni, 1986, prima ed. 1927, p.247.] dove la stanchezza dell’uomo morente ben si coniuga con l’impossibilità di dire l’indicibile. E se ora, regredendo nel tempo, andiamo all’antica, ma storica, traduzione di Carlo Rusconi del 1838, rivista poi nel 1873–74, troviamo un “ma sia così…” [13. G. (W.) Shakspeare (sic), Teatro completo, tradotto da Carlo Rusconi, Roma, Carlo Verdesi, 1885, vol.X, p.161.] che si può interpretare tanto come una resa di un uomo morente di fronte al volere del cielo quanto però anche, nella direzione che sto cercando di imprimere a questo discorso, di “sia così” perché altrimenti non potrebbe essere e dunque rimanga inespresso l’inesprimibile.
Dicevo prima del tormento che svela, quanto più è aspro e violento “in questo mondo” [14. Ibidem.], la nobiltà d’animo di chi lo prova; unendo ora questa nobiltà d’animo all’impossibilità di rappresentarla, alla sua ob-scenità, ci accorgiamo che questa impossibilità aggiunge, se così si può dire, sublimità al già sublime tormento proprio perché indicibile, o indicibile fino in fondo -the rest is silence, appunto- e così relegandolo alla sfera di contemplazione dell’impossibile, di ciò che ormai non riesce più a rendere veramente umano l’uomo nella società dei rapporti che ormai iniziano a rivelarsi come amministrati o in via di divenire tali. E così, in questo pensiero-sentimento, troviamo la sorgente della malinconia. Ma di ciò a tra poco.
Mi pare importante notare a questo punto una discrasia, utile a meglio chiarire il discorso che sto cercando di imbastire, tra il sublime come lo propone lo Pseudo Longino nel suo Peri hypsous, scritto probabilmente nella prima metà del primo secolo dell’era nostra, e il sublime “moderno” come si viene delineando da questa indagine. Scriveva lo Pseudo Longino:
[…] allo slancio della contemplazione e della riflessione dell’uomo nemmeno l’universo è sufficiente, ma spesso la sua immaginazione tende a valicare i confini del mondo che ci circonda; e se uno volga lo sguardo tutto intorno alla nostra vita, e consideri il ruolo preponderante che ha per noi in ogni cosa quel che è fuori della norma, il grande e il bello ben presto scoprirà il motivo per cui siamo nati. Per questo, spinti da una sorta di istinto naturale, ammiriamo, per Zeus, non i piccoli corsi d’acqua, anche se limpidi e utili, ma il Nilo, l’Istro o il Reno, e ancor più l’Oceano; né codesta fiammetta che abbiamo acceso (benché pura conservi la sua luce) ci sgomenta più dei corpi celesti, benché spesso si oscurino; né la consideriamo più degna di meraviglia dei crateri dell’Etna, le cui eruzioni portano su pietre e interi blocchi rocciosi dall’abisso, e talvolta rovesciano fiumi di quel fuoco nato dalla terra e che obbedisce solo alla sua volontà. Ma da tutto ciò possiamo trarre la conclusione che quel che è utile e necessario è sì alla portata dell’uomo, ma solo quel che è inaspettato è in grado, in ogni momento, di suscitare la sua ammirazione.
[15. Pseudo Longino, Del sublime, a cura di Francesco Donadi, trad. dello stesso, Milano, Rizzoli, 1991, XXXV. 3,4,5, pp.341–343.]
Certo l’inaspettato risalta con molta evidenza anche nel finale dell’Amleto, ma non si tratta qui di un elemento ‘positivo’ bensì, e al contrario, di un momento eccezionale determinato da eventi fuori di norma, appunto, cui non è certo estraneo il Caso, che conoscono come sbocco la ben nota carneficina simbolo essa stessa del disordine etico cui allegoricamente rimanda. È sempre Orazio a descrivere e chiarire:
[…] lasciate ch’io dica al mondo che ancora non sa,
come queste cose avvennero; così udrete voi
d’atti carnali, sanguinosi, e contro natura,
di giudizi accidentali, ammazzamenti casuali,
di morti istigate dall’astuzia e dalla necessità,
e, in questo epilogo, di propositi mal compresi,
ricaduti sui capi dei loro inventori […]
[16. W. Shakespeare, Amleto, trad. di Raffaello Piccoli, cit., p.251. “And let me speak to the yet unknowing world / How these things came about: so shall you hear / Of carnal, bloody, and unnatural acts, / Of accidental judgments, casual slaughters; / Of deaths put on by cunning and forc’d cause, / And, in this upshot, purposes mistook / Fall’n on th’inventors’ heads”; W. Shakespeare, Complete Works, cit., p.907.]
Il sublime tragico nel senso antico, in questa desolata sintesi di Orazio, non ha più corso: ormai il Caso ha sostituito il Fato con tutto ciò che, ineluttabilmente, ne dovrà seguire.