Le incognite inquietanti del qualunquismo grillino
di Guido Baldi
Sulla newsletter di «Micromega» del 30 maggio 2016 è comparso un articolo di Paolo Flores d’Arcais dal titolo Amministrative, M5S unica alternativa al renzismo. L’occhiello così sintetizza, molto chiaramente, la tesi di fondo:
Nelle elezioni di Roma e Torino si gioca la prima partita decisiva (la seconda sarà il referendum) tra la colonizzazione schiacciasassi delle istituzioni da parte della Nuova Cricca o la possibilità che si riaprano gli spazi per un’altra politica. Chi è incapace di restare indifferente alla resistibile ascesa dell’ex sindaco di Firenze, filiazione e sintesi di Craxi e Berlusconi, ha una scelta obbligata: votare per i candidati Cinque Stelle.
Verrebbe da ridere dinanzi alla capriola ideologica di questo campione del salto dalla padella nella brace. Ma di ridere non c’è proprio motivo, perché il problema è ben serio. Che persone orientate a sinistra (e purtroppo sono molte, a quanto constato) possano provare simpatie per il grillismo o addirittura votare per i Cinque Stelle lascia stupefatti. Troppi italiani sembrano non aver capito che cosa sia il movimento e quale pericolo rappresenti per il paese: è un esempio di cecità politica incredibile, oltre ad essere indizio di una grave carenza di cultura storica.
L’ “antipolitica”, la denigrazione dei partiti che fa di ogni erba un fascio e le ingiurie violente nei loro confronti non sono una novità dell’oggi: chi conosce un poco la storia sa che era un clima diffuso nell’età giolittiana, durante la Grande Guerra e nell’immediato dopoguerra (l’analogia è opportunamente sottolineata da Angelo d’Orsi nel bel libro L’Italia delle idee, Bruno Mondadori, Milano 2013, p. 140 e 142), e si è visto a che cosa ha portato.
I grillini proclamano: «Non siamo né di destra né di sinistra»: che è la più classica manifestazione di posizioni di destra, una destra di tipo qualunquistico. Il qualunquismo è sempre di destra, come ci ricorda un altro fenomeno storico più recente, il movimento dell’«Uomo Qualunque» di Guglielmo Giannini nel secondo dopoguerra, in cui confluivano rigurgiti di fascismo piccolo borghese protestatario. Che cosa possa scaturire dal grillismo, specie se (Iddio non voglia) dovesse impadronirsi del potere, è un’incognita inquietante. In primo luogo per il becerume demagogico del leader, a volte squallidamente razzistico (vedi la battuta sul sindaco mussulmano di Londra che potrebbe far saltare in aria il Parlamento), demagogia che è potenzialmente capace degli esiti opposti e più imprevedibili. E poi non si dimentichi che dietro Grillo c’è comunque un’azienda, la Casaleggio & Associati, per cui ci si ritrova nuovamente dinanzi a un Partito Azienda, dopo anni di berlusconismo. Ma soprattutto inquieta la struttura autoritaria, si potrebbe dire dittatoriale, del movimento, dove sono due a comandare e a decidere, senza essere stati eletti da nessuno, e uno dei due detiene persino il potere per successione dinastica: manco fossimo nella Corea del Nord. La loro linea e le loro decisioni sono indiscutibili, non tollerano opposizione, chi dissente è sbattuto fuori senza complimenti (con poi magari il placet del pecorame della rete). È avvenuto ormai in un numero impressionante di casi, ultimo quello del povero Pizzarotti, che è stato sospeso sui due piedi da un motu proprio dei capi, senza neanche essere ascoltato: in nome di quale investitura, di quale legittimazione? In una struttura di partito democratica sarebbe una decisione da prendere da parte di un comitato di probiviri regolarmente eletti. Pensare a che cosa potrebbe succedere se questa gente, dotata di tanta sensibilità democratica, fosse mandata al potere dalle elezioni fa venire i brividi nella schiena.
Le grandi crisi economiche e politiche recano sempre in sé il pericolo di esiti autoritari o dittatoriali: vedi Italia 1922 e Germania 1933. Oggi che ci dibattiamo in una delle crisi più lunghe e devastanti dopo quella del ’29, si profilano molte potenzialità di questo tipo, la Le Pen in Francia, Trump in USA, Salvini in Italia (Putin è già una certezza da tempo), senza contare paesi minori come Austria, Ungheria e Polonia. Non è affatto escluso che il grillismo possa confluire in questo alveo, perché, ribadisco, quei tipi di movimenti, che nascono da rabbie e proteste “antipolitiche” e che sono ideologicamente ambigui, sono disponibili a tutte le soluzioni. Anche il fascismo sansepolcrista del ’19 sembrava avere in sé elementi di sinistra, e poi si sa come è andata a finire.
Senza contare il rapporto diretto del Capo con le masse: in questo caso non folle «oceaniche» nelle piazze, ma il popolo della rete davanti ai computer. Il mito della democrazia diretta, insofferente delle mediazioni politiche, è pericoloso, perché fa leva non sulla razionalità ma sull’emotività, che è sempre facilmente manipolabile, specie da abili demagoghi che sappiano appunto giocare sulle emozioni e i furori della gente. Tanto più che i rappresentanti del movimento per ora eletti nelle istituzioni, ai quali toccherebbe il compito di operare quelle mediazioni politiche, sono individui privi di autonomia: si ricordi il “contratto” imposto ai candidati sindaci, che li vincola a un’obbedienza ferrea alle decisioni dei Capi, pena gravi sanzioni anche pecuniarie. La Raggi, candidata a Roma, ha proclamato di essere pronta a dimettersi se Grillo glielo chiedesse; e siccome pare che abbia buone probabilità di venire eletta, i brividi nella schiena corrono sempre più forti. Costoro dunque non sono rappresentanti della nazione senza vincolo di mandato, come vuole la Carta costituzionale, ma burattini i cui fili sono tirati da persone che hanno quel potere, insisto, senza che alcuna elezione democratica glielo abbia conferito.
Ma anche se gli esiti infausti che sono impliciti in una salita al potere del grillismo non si verificassero, resta comunque deprimente la statura politica dei rappresentanti del movimento, la loro sprovvedutezza da dilettanti allo sbaraglio. Siamo seri: ve lo vedete un Di Maio sedere al G7? Un Di Battista trattare con la Merkel, o con Putin, o con un qualsivoglia presidente USA? Una Taverna ministra dell’Istruzione? Come direbbe Leopardi, «non so se il riso o la pietà prevale». Pietà, si intende, per i poveri italiani (ma se lo sarebbero meritato, mandandoli al governo).
Davvero, come possano persone di sinistra votare i Cinque Stelle senza tener conto di tutto questo è un mistero. O si può spiegare con il prevalere della rabbia: che ha certo le sue motivazioni, nessuno lo nega;
ma in politica le viscere sono sempre pessime consigliere. Lo si è sperimentato con la Lega, che negli anni Novanta, accanto a spinte xenofobe e secessioniste, convogliò anche voti di protesta da sinistra, persino da parte operaia.
E si è visto come è andata a finire, con i diamanti in Tanzania, le lauree a Tirana, l’Italia spinta sull’orlo della bancarotta nel 2011, e ora con il lepenismo di Salvini.
Da tutto ciò consegue che la tesi di Flores d’Arcais andrebbe rovesciata: non i Cinque Stelle come unica alternativa a Renzi, ma il PD (purtroppo) come unica attuale diga contro la marea montante dell’iperqualunquismo grillino. Renzi (e si prega di tener conto della sofferenza che costa una simile ammissione), pur con quanto di estremamente negativo gli si può imputare da una prospettiva di sinistra, rispetto a Grillo resta il male minore; per cui è bene tenercelo stretto (sperando che prima o poi abbia «a passà a’ nuttata» del renzismo, e si dilegui il pericolo del grillismo), visto che caduto lui si andrebbe alle elezioni e a sentire i sondaggi salirebbero al potere i Cinque Stelle, e visto che la sinistra ora è debole, confusa, divisa, senza una linea chiara, ma soprattutto si rivela priva del necessario realismo politico: come è avvenuto nelle ultime elezioni regionali in Liguria, dove la scelta di dividere il fronte ha consegnato la regione alla Lega e a Toti, o come dimostra ora Airaudo, che con analoga operazione rischia di consegnare una città dalla tradizione di sinistra come Torino al grillismo (specie se al secondo turno non convoglia i voti sul PD). Una volta coloro che si comportavano così venivano chiamati “utili idioti”: utili al nemico, s’intende. Realismo politico vuol dire anche sapersi adattare a certe alleanze scomode. Si ricordi Togliatti, che in una situazione molto difficile, durante la guerra, fece quella che viene definita “la svolta di Salerno”, sollecitando la formazione di un governo di unità nazionale e accettando di collaborare con la monarchia, mentre gli altri partiti pretendevano l’abdicazione del re compromesso con il fascismo.