Filippo Tommaso Marinetti

Les Dieux s’en vont, Sorrentino reste.

L'asino vola
11 min readAug 28, 2017

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Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto di dieci anni fa morivano Michel Serrault, Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni.

di Gigi Livio

Nel 1908 Marinetti dà alle stampe un pamphlet dal titolo emblematico: Les Dieux s’en vont, D’Annunzio reste (Gli Dei se ne vanno, D’Annunzio rimane). Siamo a un anno dalla pubblicazione del Manifesto del Futurismo che darà il via alla grande stagione dell’avanguardia storica non solo italiana. Il volume è costituito da saggi che l’autore ha pubblicato su riviste a partire dal 1900 e gli dèi di cui si parla nel titolo sono Verdi e Carducci morti nel 1901 e nel 1907. Lo scritto è importante perché si apre a un concezione decisamente moderna dell’opera d’arte proprio nel momento in cui l’industria culturale, cui in qualche modo Verdi e Carducci avevano resistito, si appropria del mondo della letteratura: e D’Annunzio è il primo letterato che non solo cede, fingendo di opporsi, ma promuove l’industria culturale.

Ed è proprio qui che Marinetti appunta la sua attenzione. Ecco un passaggio di una recensione alla Città morta di D’Annunzio contenuta in Les Dieux s’en vont:

D’Annunzio può contare oggi su un pubblico enorme di snob e di falsi intellettuali, assolutamente incapaci di giudicare un’opera di stile, che acclamano per partito preso tutte le sue opere teatrali. Tanto che il pubblico elegante del teatro Lirico [di Milano dove avvenne la rappresentazione della Città morta], decisamente persuaso del genio dell’autore, gli ha prodigato i suoi applausi bevendo, a bocca aperta, la sua prosa armoniosa e cesellata.

Eleonora Duse in una scena della Città Morta di d’Annunzio

Come si vede l’attenzione di Marinetti si incentra sul pubblico più che sull’opera, che egli può anche apprezzare dal punto di vista letterario, e cioè sul “dannunzianesimo”, che è forse in Italia la prima espressione compiuta dell’industria culturale poiché dalla letteratura si espande al costume divenendo così un’ideologia.

Ma l’industria culturale aveva bisogno di ulteriori e più consoni mezzi per potersi espandere e divenire ideologicamente egemone; infatti, a questo punto, nascono prima il cinema e poi la televisione e, infine, internet che, a differenza del teatro che si rivolge a un numero di spettatori ristretto e che propone un “evento” sempre diverso di sera in sera, sono mezzi di comunicazione di massa tanto per il largo pubblico cui si rivolgono quanto per il fatto di offrire un “prodotto” sempre uguale e ripetibile. Il cinema diventa quindi immediatamente un fatto di costume nel doppio senso di influenzare il costume e di esserne influenzato anche perché richiede un vasto impiego di capitali proponendosi da subito come “industria”, l’industria del divertimento e dei sogni, appunto. Ecco pertanto che i vertici culturali, o addirittura artistici, sono assai rari nel cinema sempre che si intenda la cultura come portatrice dello spirito critico nei confronti di un’arte arresa al mercato e del mercato tout-court. Il pensiero critico esercitato su qualsiasi cosa e massime sull’arte, se questa viene intesa come divertimento dello spirito, non fa sognare ma mette in crisi lo spettatore, non lo diverte ma lo costringe a pensare; come già sapeva bene Baudelaire:

“Voi non amate la discrepanza, la dissonanza. Indietro gli indiscreti che turbano la sonnolenza della vostra felicità. […] Indietro tutti questi poeti che hanno le tasche colme di pugnali, di fiele, di fiale di laudano. Quest’uomo è triste, mi scandalizza. […] Viva Orazio che beve il suo latte di gallina, il suo falerno, voglio dire, che pizzica da galantuomo le grazie della sua Lisette, da bravo letterateggiante senza diavolerie e senza furore, senza oestus [fuoco poetico]!”.

Bergman e Antonioni sono morti il 31 luglio e il primo agosto del 2007. Non certo a caso, stimolato da questi eventi, il 29 agosto Galli Della Loggia pubblica sul “Corriere della sera” un suo articolo sul cinema dove, al solito, si parla di fine delle grandi ideologie novecentesche, che sarebbero il motivo della crisi del nostro cinema, mentre quello americano sarebbe vivo e vegeto data la sua capacità di interpretare lo spirito dell’“uomo comune” in modo sostanzialmente a-ideologico. A queste banalità ha risposto da par suo Mino Argentieri in un bellissimo articolo comparso su “Liberazione” il 5 settembre e rimando quindi a quello scritto non avendo qui lo spazio per una polemica per altro già chiusa in modo definitivo da Argentieri. Quello che invece intendo sottolineare è che allo scritto del Della Loggia abbiano risposto anche altri tra cui Scalfari il quale, sulla “Repubblica” del 2 settembre, giustamente nota che “un dibattito sul cinema riguarda la rappresentazione d’un paese o addirittura d’una società, ma può anche riguardare l’uomo, la sua essenza, quello che si chiama il suo fondamento” e che quindi “la vastità delle opzioni consente che possano interloquire persone che si occupano di cinema professionalmente ma anche persone che professionalmente indaghino sul carattere nazionale, sull’evolversi di una società e infine sui problemi dell’uomo in quello specifico contesto storico”. Ha certamente ragione Scalfari: un dibattito sul cinema riguarda tutti proprio perché il cinema, per i motivi cui ho accennato prima, è rappresentazione di una società ed è contemporaneamente espresso da una società.

Ed ecco che il giorno della morte di Bergman il “Manifesto” ripubblica un articolo di Rossana Rossanda uscito l’8 novembre 1973. È uno scritto eccezionale che, sia detto di passata, dovrebbe essere dato in lettura a tanti, tantissimi, professori di università tutti chiusi in uno specialismo fine a se stesso (e a se stessi) che trasmettono ai loro studenti la loro resa all’esistente e al mercato, e cioè all’industria culturale, attraverso ragionamenti solo apparentemente sottili e specialisticamente mirati e invece di fatto assai banali e superficiali. Ma di questo, se ci sarà l’occasione, altra volta. Ho definito “eccezionale” l’articolo di Rossana Rossanda perché ritengo che tale sia letteralmente: un’eccezione, appunto. Un’eccezione nella critica cinematografica. L’autrice recensisce Sussurri e grida uscito quell’anno. E sa cogliere con grande finezza un’occasione unica: quella di fare il punto sulla politica culturale del PCI e sulle diverse prospettive che si aprono a una visione adeguatamente articolata del problema dell’individuo così come viene posto dai tempi. Lo scritto sarebbe da trascrivere per intero ma, per ovvie ragioni di spazio, mi limiterò a citarne una parte decisamente significativa. Dopo aver messo in luce lo schematismo della sinistra che pensa di poter risolvere il problema dell’uomo con le barricate e la lotta contro l’organizzazione capitalistica del lavoro, Rossana Rossanda scrive:

Duro, ma adulto, sarebbe riconoscere che la condizione dell’uomo, appeso fra vita e morte, questo suo dato biologico, astorico, il residuo indistruttibile di individualità della sua sofferenza, è il limite oscuro che incontra, al limite del suo cammino, una emancipazione politica: la cui forza e missione non sta nel restituire l’uomo alla felicità, ma soltanto (soltanto!) liberarlo dall’intollerabilità dell’ingiustizia.

Il corsivo è mio e intende mettere in evidenza il punto in cui la filosofia dell’esistenza si interseca con la meditazione marxiana: che è poi l’unico modo per uscire dalle panie di una contrapposizione rigida e assai poco concreta nell’interpretare la realtà dell’uomo dei nostri tempi. L’autrice chiude il suo scritto anche qui in modo straordinario perché, dopo aver detto della reazionarietà di Bergman e della sua capacità di investirci “in quella parte di noi che nella crisi profonda e storica della persona è dentro fino al collo, anche se vorrebbe non accorgersene” conclude con adorniana secchezza: “Bergman lo sa meglio di tutti; visto che di queste sofferenze, assolute, fa un prodotto perfetto, e ce lo vende(anche in questo caso il corsivo è mio).

Antonioni, al contrario di Bergman, è più congeniale allo sguardo degli specialisti. Anch’egli è un interprete dei problemi dell’esistenza ma la forma in cui struttura i suoi film si differenzia da quella del suo collega svedese non in raffinatezza, dal momento che Bergman non era secondo a nessuno da questo punto si vista, ma in astrattezza. Dopo un esordio che risente ancora dell’impostazione neorealistica ma già inclinandola a indagare soprattutto i problemi esistenziali (Cronaca di un amore, 1950; La Signora senza camelie, 1953; Il Grido, 1957), nel 1960 realizza L’Avventura, il suo vero primo successo se non di pubblico certamente di critica. Questo successo è sanzionato da una lettera di molti critici francesi che difendono il film fischiato dal pubblico a Cannes. D’altro canto è lo stesso regista a dichiarare, l’anno prima in una lettera a Renzo Renzi, di godere “la stima di tanta gente, oggi soprattutto in Francia”. Non è un dato da poco se si tiene conto che il 1959 è l’anno in cui trionfa, proprio a Cannes, la Nouvelle Vague e che la Francia è il paese dove prima che altrove si affermano lo strutturalismo, la semiologia (poi semiotica) e l’ermeneutica. Torneremo subito sull’argomento. Intanto all’Avventura il regista fa seguire in breve torno di tempo La Notte (1961) e L’Eclisse (1962) e completa così quella che venne definita, un po’ sbrigativamente, la trilogia dell’“incomunicabilità”. Questo è il momento in cui per i film di Antonioni si parla molto di “alienazione” di “reificazione” e cioè di una critica del mondo borghese, centro del suo interesse. Sembra però più interessante la posizione dialettica di Guido Aristarco che, a proposito dell’Eclisse parla della “lacerante contraddizione di questo film: Antonioni, moralista, lotta contro la morale volgare, convenzionale, contro i pregiudizi borghesi, ma in nome di una libertà nella quale egli stesso senza dubbio non crede più”: non quindi un Antonioni “marxista”, come certa critica affrettatamente e superficialmente tendeva a affermare, ma piuttosto un Antonioni che veste il ruolo, in quegli anni partecipato con Moravia, del “borghese onesto”.

Ma forse questo tipo di interpretazione, pur nella sua nobiltà esegetica, risulta oggi parziale. Sono gli anni in cui, riprendiamo ora il discorso, dopo il fervore del dopoguerra, nasce, attraverso lo strutturalismo, la semiologia e l’ermeneutica, quello che più tardi verrà poi definito il postmoderno soprattutto a partire dal libro di Lyotard dal titolo emblematico: La condizione postmoderna la cui prima edizione è del 1979. E’ forse qui che va cercato il senso profondo dell’operazione artistica di Antonioni e il motivo del suo successo partito non a caso, l’abbiamo già sottolineato, dalla Francia che è il paese dove inizia e si sviluppa quel movimento culminante nella definizione del pensiero e dell’ideologia postmoderni che dichiarerà la fine della storia come svolgimento basato sulla causalità, la fine dell’uomo come centro della stessa storia, la fine delle “grandi narrazioni”, illuminismo, idealismo, marxismo, che avevano dominato la scena del XIX e del XX secolo: tutte queste convinzioni si basano sulla coscienza che la verità non sia conoscibile perché per quei pensatori non esiste la realtà ma solo l’interpretazione che ciascuno può darne. La sequenza finale della Notte in cui la macchina da presa seziona e analizza frammentandoli, per ben sette minuti, il luogo e gli oggetti del posto dove i due protagonisti del film si sono dati appuntamento, e dove nessuno dei due andrà, possono anche essere considerati, come è stato fatto, “uno dei momenti più misteriosi e più alti di tutta l’opera di Antonioni” ma certamente significano l’impossibilità di conoscere la realtà e di rapportarsi correttamente a questa.

Il 1966 è l’anno di Blow up il film che meglio mostra questa posizione del regista. Ecco come lo stesso Antonioni interpreta il suo lavoro:

Io non so com’è la realtà… ci sfugge, mente di continuo… Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine ci mostra, perché immagino ciò che c’è al di là; e ciò che c’è dietro un’immagine non si sa. Il fotografo di Blow up non è un filosofo, vuole andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce. Quindi c’è un momento in cui si afferra la realtà, ma nel momento dopo sfugge. Questo è un po’ il senso di Blow up.

un fotogramma di Blow Up

Non è tanto importante notare il palesarsi della reazionarietà di Antonioni in questo film poiché anche Bergman era reazionario, quanto piuttosto rendersi conto che questo essere reazionario diventa un nodo tematico nei lavori del regista italiano vero e proprio profeta dell’ideologia postmoderna: l’elaborazione formale di questo nucleo generativo è tutta tesa a interpretare questo pensiero e risulta dunque, al di là delle apparenze “avanguardistiche” soprattutto dal punto di vista formale, profondamente conformista e arresa all’esistente.

E qui questa breve nota potrebbe anche chiudersi non fosse che è necessaria un’ultima osservazione. Il giorno prima della morte di Bergman è morto Michel Serrault. La cosa è passata del tutto inosservata in Italia dove sembra, e in questo la critica accademica e quella giornalistica sono perfettamente in accordo, che i film li facciano solo i registi. Ma le cose non stanno certo così e l’attore svolge, a seconda dei casi ovviamente, una parte fondamentale nella costruzione di quel testo complesso definito “film”. Serrault è stato un grande della recitazione sia teatrale che cinematografica francese e ha portato avanti con grande e sottile sapienza uno stile risalente a Jean Gabin e a Pierre Brasseur e che oggi trova i suoi moderni esponenti in Catherine Deneuve e ancora di più, in Isabelle Huppert, oltre che in Gérard Depardieu, in Daniel Auteuil e in Fabrice Luchini, per fare il nome di attori che mi sembrano particolarmente esemplari. Mi fermo qui accontentandomi di aver segnalato il problema e il fatto: tre dèi se ne sono andati, cosa rimane? Sorrentino, come un tempo D’Annunzio, è lì osannato dalle folle di spettatori e dal box office; ma, come Marinetti seppe appuntare la sua attenzione più sul dannunzianesimo che su D’Annunzio mi accontenterò, nel limite della mie forze, di far notare che c’è di peggio di Sorrentino; e questo peggio è il sorrentinismo e cioè la diffusione di un cinema che affonda ormai le sue radici nella civiltà, non più molto civile a dire il vero, postmoderna. Con qualche eccezione, ovviamente, come sempre succede e come succedeva anche al tempo di Marinetti visto che nel 1904 Pirandello, per non fare che un esempio, aveva già pubblicato Il fu Mattia Pascal. Ed è sempre lui, Pirandello, vera coscienza critica della resa dell’artista italiano all’industria culturale, che, già fin dal 1898, liquidava La città morta di d’Annunzio, la “tragedia” cui si riferisce Marinetti nella prima citazione di questo articolo e scriveva:

Nel caso della Città morta, se debbo dir con franchezza quel che penso, io la chiamerei semplicemente farsa: farsa per il modo com’è scritta, farsa per quel che rappresenta, farsa perché mi sembra fatta per ridere.

Non certo a caso ho aperto il breve discorso che ora sto chiudendo con due rimandi a d’Annunzio: l’estetismo, così evidente e ruggente, della Città morta rappresenta una punta, particolarmente significativa e assai celebrata, di quel modo di intendere la vita e il mondo che non è certo finito quando, nel 1938, venne celebrato “pompaticamente”, per usare un termine pirandelliano, il funerale del Vate.

Questa è una società in cui vincono sempre i peggiori: non ha certo vinto la sincerità e il rifiuto di tutto ciò che è falso che nutre l’opera di Pirandello ma, appunto, l’insincerità e la falsità di d’Annunzio e degli innumeri suoi seguaci,

utili anzi indispensabili all’industria non solo culturale, per stendere un velo sulle iniquità dell’industria stessa e usare l’estetismo, e dunque ciò che questi personaggi intendono per “bello”, per distrarre l’attenzione di un’umanità reificata dalla propria reificazione. Non so se qualcuno l’abbia già fatto, ma certamente usare questa chiave di lettura per La grande bellezza potrebbe svelare fino in fondo la profonda realtà che è alla base dell’estetismo di quel film; e di tutta l’arte che si definisce postmoderna, naturalmente.

Motivo di questo ricordo, a dieci anni di distanza.

Poiché, dal programma, sembra che la 74° Mostra Internazionale d’Arte cinematografica, intenda ricordare Michelangelo Antonioni a dieci anni dalla morte, riprendo qui un articolo che avevo scritto nel 2007 e, probabilmente, mai pubblicato. Ho mantenuto lo scritto come era salvo in un punto: quello che “restava” era allora Tarantino ma, discutendo con la redazione, quest’ultima, di fronte le mie perplessità su Tarantino i cui “prodotti” sembrano oggi caduti in disuso, almeno parzialmente, mi ha suggerito il nome di Sorrentino fulgido astro della cinematografia italiana di consumo con tanto di riconoscimenti internazionali (tra gli altri, e non a caso, un Oscar).

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Written by L'asino vola

scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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