Lettera a una professoressa, mezzo secolo dopo
di Guido Baldi
1. L’importanza storica e i meriti del libro
1. 1. La selezione classista
La prima cosa da riconoscere è che Lettera a una professoressa ha rivestito un’importante funzione storica: ha avuto il merito di denunciare, con straordinaria chiarezza e grande forza incisiva, il carattere classista della scuola e della selezione in essa praticata attraverso le bocciature, in particolare nella scuola dell’obbligo. Spezzava così l’illusione, largamente dominante nella scuola di ogni ordine e grado, della neutralità delle bocciature, la convinzione che esse colpissero inevitabilmente e doverosamente solo i non adatti agli studi e i fannulloni, a prescindere da ogni provenienza di classe: mentre il libro sosteneva, con formula sintetica estremamente efficace, «non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti eguali fra disuguali». Anche l’intellettualità di sinistra, che avrebbe dovuto aver coscienza del problema, non ne aveva un’idea così chiara. La scuola di Barbiana lo mise in evidenza in modo traumatizzante, grazie alla particolare prospettiva adottata, non quella degli addetti ai lavori, i pedagogisti e gli studiosi dei problemi della scuola, ma un punto di vista dal basso, quello delle vittime stesse della selezione classista, i figli dei contadini di una zona arretrata e povera, secolarmente esclusi dall’istruzione e dalla cultura. E lo fece con un linguaggio semplice, diretto, efficace, chiarissimo, affidandosi non solo alle argomentazioni e alle denunce, ma alla nuda eloquenza dei dati statistici, delle cifre e dei diagrammi, che dimostravano inoppugnabilmente come la selezione colpisse in misura macroscopica proprio i ragazzi delle classi subalterne, i figli dei contadini e degli operai, e più ancora i primi che i secondi. Siccome era impossibile che i non adatti agli studi e i fannulloni nascessero tutti nelle classi inferiori, era evidente che era il modo stesso in cui il meccanismo scolastico era congegnato a espellere quei ragazzi dall’istruzione.
I ragazzi che stesero il libro, sotto la guida del loro maestro (nel senso più ampio del termine) don Milani, mettevano in evidenza che, espellendo dalla scuola dell’obbligo i figli dei proletari, li si privava di un diritto fondamentale e irrinunciabile, per di più sancito dalla Costituzione, quello di frequentare otto anni di scuola e di ricevere un minimo bagaglio comune di istruzione. In tal modo li si respingeva indietro, semianalfabeti o analfabeti del tutto, nel lavoro dei campi e delle officine, impedendo qualsiasi forma di promozione sociale e di crescita culturale. Non solo, il libro mostrava con indiscutibile evidenza che era un’operazione indirizzata a conservare il predominio delle classi dirigenti, impedendo alle classi subalterne di impadronirsi degli strumenti che potevano loro consentire di accedere alle «leve del potere; inoltre denunciava il fatto che l’insegnante che bocciava senza darsi pensiero delle conseguenze, nella convinzione di essere nel giusto, di compiere bene il proprio dovere, era l’«utile idiota» che a tal fine il «padrone» aveva armato di registro e di pagelle, mentre il suo stipendio era proprio pagato da coloro che respingeva dalla scuola. Gli estensori affermavano che quella fra la scuola e i ragazzi proletari era una vera e propria guerra, come indicava il verbo tecnico usato nel linguaggio scolastico, «respingere», che apparteneva al vocabolario militare, «respingere» un nemico.
1. 2. Battere la selezione classista: il recupero degli svantaggiati
Ma il merito ancora maggiore del libro fu l’aver indicato la possibilità di superare quella selezione classista, rispettando i diritti dei più svantaggiati. La scuola di Barbiana mostrò concretamente come si potevano recuperare ragazzi che la scuola pubblica espelleva con la motivazione che erano «cretini» o «svogliati», portandoli a un livello di istruzione soddisfacente. Il presupposto era che non esistono ragazzi «inadatti», «negati» agli studi, che in tutti ci sono le facoltà per acquisire un’istruzione: basta trovare il metodo efficace. La teoria delle differenti attitudini, che era il credo comune fra gli insegnanti, veniva definita «razzista» («Non vi potete più trincerare dietro la teoria razzista delle attitudini»), visto che, come dicevano i dati statistici, tutti i «cretini» erano guarda caso concentrati nelle classi inferiori.
Il libro offriva esempi significativi di questo paziente lavoro di recupero di soggetti difficili allo studio. Sandro, a quindici anni, dopo varie bocciature tra elementari e medie, era considerato appunto un «cretino» dai professori, i quali volevano che ripetesse la prima media per la terza volta. Il suo destino era il lavoro in officina e il semianalfabetismo, o l’analfabetismo di ritorno. A Barbiana invece lo inserirono nella classe che gli spettava per l’età, la terza, e riuscirono a trovare il modo per interessarlo e appassionarlo a tutto, con argomenti più vicini alla sua esperienza reale. Il risultato fu che la mattina seguiva il programma di terza, e intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e di prima per colmare questi vuoti. A giugno il «cretino» fu promosso agli esami presso la scuola pubblica. Gianni invece era giudicato «svogliato» e «delinquente» ed era un soggetto più difficile, era uscito dalla scuola analfabeta e con l’odio per i libri. Con sforzi immensi arrivarono a fargli amare almeno qualche materia. Con un anno ancora sarebbero riusciti a fargli amare anche il resto, ma la scuola pubblica non lo passò in terza, e così fu perduto alla scuola. Finì a spazzare i pavimenti in un’officina, «nelle ore libere segue le mode come un burattino obbediente. Il sabato va a ballare, la domenica allo stadio».
La conclusione è che è vero che l’insegnamento con ragazzi così è più difficile, «ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile», invece di essere uno strumento di eguaglianza.
Oltre a partire dagli interessi e dalle esperienze reali dei ragazzi, l’insegnamento della scuola di Barbiana si fondava sulla collaborazione reciproca, sulla ricerca fatta tutti insieme, sul’assenza di interrogazioni, compiti, voti e pagelle, sull’aiuto prestato dai più grandi ai più piccoli. Chi era in difficoltà perché senza basi, lento o svogliato non era abbandonato a se stesso e poi giudicato, ma era il preferito: la scuola era tutta per lui, finché non aveva capito anche lui non si andava avanti. Ma il mezzo principale per colmare le differenze era l’estensione del tempo dell’istruzione. Il presupposto era che i figli delle classi colte anche fuori della scuola potevano godere di un ambiente ricco di stimoli e di occasioni culturali, e per questo erano avvantaggiati. Si trattava di offrire un ambiente analogo anche agli svantaggiati, non limitandosi alle poche ore di lezione al mattino. Difatti la proposta fondamentale che il libro avanzava per una riforma della scuola dell’obbligo era quella del tempo pieno, proprio per colmare la differenza di occasioni culturali tra classi privilegiate e classi inferiori.
1. 3. Gli effetti del libro e le “bocciature bianche”
L’impatto del libro sulla scuola fu molto forte. Arrivò anche nel momento in cui stava esplodendo il Sessantotto, che nelle università prese l’avvio proprio dalla contestazione delle discipline e dei metodi tradizionali, della “scuola di classe”, e pochi mesi dopo l’agitazione si trasferì anche nelle medie superiori. Lettera a una professoressa entrò con una posizione importante nel dibattito sulla scuola e sull’università e nelle lotte studentesche che ne seguirono, fu molto citato e discusso da studenti e professori. Il libro colpì a fondo la coscienza degli insegnanti più consapevoli e più sensibili ai problemi sociali connessi con l’insegnamento. Allora l’espansione della scuola media inferiore e superiore, generata dal boom economico degli anni precedenti e dalla riforma della nuova media, aveva consentito l’ingresso di molti giovani insegnanti, insofferenti della scuola che avevano conosciuto o patito e pronti a elaborare e sperimentare modelli di insegnamento alternativi, nuovi principi didattici e nuovi metodi. Per loro Lettera a una professoressa fu importante, fu un costante punto di riferimento, stimolando a una riflessone critica sulla scuola tradizionale.
Molti insegnanti, però, non intesero correttamente il principio «non bocciare» che veniva dal libro. Non bastava cioè far passare automaticamente i ragazzi svantaggiati alla classe successiva, come troppi fecero. Barbiana insegnava che occorreva “promuoverli” sostanzialmente, non solo formalmente, cioè far superare loro le difficoltà, farli crescere culturalmente, dotarli di un solido patrimonio di conoscenze, in primo luogo linguistiche, indispensabili per colmare il divario dalle classi superiori. Altrimenti mandarli avanti senza “promuoverli” effettivamente non differiva in nulla dal bocciarli: era insomma una “bocciatura bianca”, con le stesse conseguenze sociali e culturali della bocciatura vera e propria, quindi non si faceva che riprodurre le differenze classiste di partenza e la collocazione subalterna degli svantaggiati. Lungi dall’essere un’azione “progressista” o “rivoluzionaria” era un’operazione conservatrice dell’esistente, se non reazionaria. Questo non fu capito a sufficienza, cioè non fu colto l’altro fondamentale insegnamento della scuola di Barbiana, soprattutto nella sua grande forza di contestazione del carattere classista della scuola: la necessità di recuperare all’istruzione chi era in difficoltà.
E questo avvenne in chi era in buona fede, e semplicemente non sapeva elevarsi a una visione più ampia e profonda dei problemi. Invece tanti scelsero di non bocciare non per autentica consapevolezza dell’intollerabile ingiustizia costituita dalla selezione classista e per convinzioni politiche, ma solo per opportunismo, pigrizia, lassismo: non bocciare era comodo, evitava di affaticarsi troppo nel fare lezione e nel correggere accuratamente i compiti, scansava problemi e conflitti con gli allievi e con le famiglie, assicurava anzi popolarità e considerazione, garantiva un tranquillo e indisturbato quieto vivere a scuola. Quindi l’insegnamento di Barbiana, non certo per colpa sua ma così travisato e stravolto dagli insegnanti peggiori, per una sorta di perversa eterogenesi dei fini contribuì a privare gli svantaggiati del sapere a cui avevano diritto, e più in generale diede impulso al degrado della scuola e all’abbassamento del livello complessivo dell’istruzione. A questo effetto distruttivo si associarono altri fattori, che scaturivano dal periodo di sconvolgimenti provocato dal Sessantotto, i cui principi anche in questo caso furono travisati e stravolti dal loro senso autentico e originario.
2. Limiti e posizioni inaccettabili
2. 1. La dedizione ascetica
Ricostruita l’importanza storica del libro e riconosciuti doverosamente i suoi grandi meriti, è impossibile però non sottoporre a critica i suoi limiti e le sue posizioni inaccettabili. La nascita del libro da un contesto religioso rende ragione di un suo aspetto appariscente: una visione rigidamente ascetica della scuola e dello studio, che nega ai ragazzi il diritto allo svago, al gioco, allo sport, alle feste, al ballo (e non parliamo del sesso), in una parola il diritto al piacere, alla gioia vitale tipica dell’infanzia e dell’adolescenza. Non devono esistere nelle ore di scuola momenti di ricreazione, l’insegnamento deve occupare tutte le ore del giorno, non solo le quattro del mattino, anche la domenica; non ci devono essere vacanze nemmeno a Natale, a Pasqua, durante i quattro mesi estivi, che lascerebbero i ragazzi nell’abbandono e farebbero dimenticare quanto hanno imparato. Tutto ciò perché il tempo dedicato allo svago è colpevolmente sottratto al compito totalizzante dell’apprendere, a sua volta finalizzato a sottrarre i diseredati alla loro condizione di inferiorità. Severissima è la censura delle «mode», che hanno corrotto il povero Gianni espulso dalla scuola:
«Le mode gli hanno detto che i 15–21 anni sono l’età dei giochi sportivi e sessuali, dell’odio per la scuola. Gli hanno nascosto che i 12–15 anni sono l’età adatta per impadronirsi della parola. I 15–21 per usarla nei sindacati e nei partiti. Gli hanno nascosto che non c’è tempo da perdere».
Il locutore (chiamiamo così la voce che parla nel libro, che sembra quella di un ragazzo solo, mentre gli autori sono otto ragazzi, come precisa la nota introduttiva) polemizza addirittura contro le vacanze concesse in occasione di feste religiose:
«Perfino S. Francesco vi serve da pretesto per rubare ai poveri un altro giorno di scuola. Dopo quattro mesi d’abbandono».
Arriva a negare che i ragazzi contadini amino il gioco e odino la scuola, mentre per loro la fatica dell’apprendere è una gratificazione, in confronto al duro lavoro della campagna:
«Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci avete interrogati. Ma siamo un miliardo e novecento milioni. […] Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi».
La stessa dedizione totale deve essere imposta agli insegnanti. E qui è bene lasciare la parola al libro, per dare un’idea di questa concezione ferocemente ascetica:
La scuola a pieno tempo presume una famiglia che non intralci. Per esempio quella di due insegnanti, marito e moglie, che avessero dentro la scuola una casa aperta a tutti e senza orario.
Gandhi l’ha fatto. E ha mescolato i suoi figli agli altri al prezzo di vederli crescere tanto diversi da lui. Ve la sentite?
L’altra soluzione è il celibato.
È una parola che non è di moda.
Per i preti la Chiesa l’ha capita circa mille anni dopo la morte del Signore. […]
Mao ha additato all’ammirazione dei compagni un operaio che s’è castrato (i “cinesi” italiani si vergognano a raccontarlo).
A voi vi ci vorranno altri mille anni per adottare il celibato. Ma c’è una cosa che potete far subito: cominciate intanto a dirne bene e valorizzate i celibi che avete. […] Perché non dire agli altri e a se stessi che non è una disgrazia ma una fortuna per essere disponibili alla scuola a pieno tempo?
Direi che non c’è bisogno di commento, se non che si raggiungono livelli di integralismo estremistico e di sessuofobia da fare paura.
Il quadro è reso più cupo da un’altra proposta, quella di istituire due scuole diverse:
Una chiamarla «Scuola di Servizio Sociale» dai 14 ai 18 anni. Ci vanno quelli che hanno deciso di spendere la vita solo per gli altri. Con gli stessi studi si farebbe il prete, il maestro (per gli otto anni dell’obbligo), il sindacalista, l’uomo politico. Magari con un anno di specializzazione.
Le altre le chiameremo «Scuole di Servizio dell’Io» e si potrebbe lasciare quelle che c’è ora senza ritocchi.
La Scuola di Servizio Sociale potrebbe levarsi il gusto di mirare alto. Senza voti, senza registro, senza gioco, senza vacanze, senza debolezze verso il matrimonio o la carriera. Tutti i ragazzi indirizzati alla dedizione totale.
A parte la riproposizione dell’idea del vero insegnamento come totale autorepressione ascetica, l’idea della «Scuola di Servizio dell’Io» si chiarisce se si mette in evidenza un altro filone tematico del libro: la concezione di una cultura esclusivamente indirizzata al servizio degli altri, mai come appagamento personale, soddisfazione di un bisogno essenziale dell’individuo, finalizzato alla formazione della persona. Approdato alle magistrali il soggetto parlante è disgustato dai compagni qualunquisti e fascisti. Una sola compagna gli pare di animo elevato: studia per amore dello studio, legge buoni libri, si chiude in camera per ascoltare Bach. Ma la riprovazione severa non risparmia neppure lei:
È il frutto massimo a cui può aspirare una scuola come la vostra.
A me invece m’hanno insegnato che questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo.
«Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo».
È vero che una cultura esclusivamente solipsistica, non condivisa con gli altri, è sterile e condannabile. Ma il locutore non è neppure sfiorato dall’idea che la fruizione della cultura, oltre che a semplice appagamento di un bisogno individuale, possa essere indirizzata alla formazione armonica e completa della persona, per lui è solo chiusura egoistica, da condannare con rigido moralismo come «brutta tentazione». Mentre la formazione personale è il presupposto indispensabile per un’apertura sociale: chi non si è formato una personalità ricca e profonda, attraverso la fruizione culturale, non ha nulla da «dare» agli altri, non può essere un «maestro», in tutti i sensi della parola. Il portavoce della scuola di Barbiana non ha alcuna idea di questo principio, del valore formativo della cultura, che è la grande, irrinunciabile eredità dell’Umanesimo. E difatti polemizza aspramente, in tono sprezzante, contro questo concetto della formazione dell’individuo:
«Guai a chi vi tocca l’Individuo. Il Libero Sviluppo della Personalità è il vostro credo supremo. Della società e dei suoi bisogni non ve ne importa nulla».
Non arriva a capire che proprio l’individuo, perfettamente e liberamente formato, è la condizione necessaria di ogni azione nella società e di una società bene organizzata. Ed è una grave colpa da parte di un uomo colto come il priore non aver instillato nei suoi ragazzi questo principio fondamentale del’Umanesimo, prezioso per la maturazione di un adolescente. Ma è una grave colpa anche dei suoi insegnanti delle magistrali, i professori di lettere, filosofia e pedagogia, che non hanno saputo trasmettergli e fargli capire e amare questo principio. Anche per questo Lettera a una professoressa è una testimonianza del fallimento della scuola, non solo per ciò che denuncia, ma anche per la prospettiva da cui parte la denuncia, la visione così limitata e rozza dei ragazzi di Barbiana. È una constatazione che occorrerà ripetere altre volte.
2. 2. Un’istruzione esclusivamente finalizzata alla pratica
Dall’idea che il sapere serve solo per darlo agli altri discende la concezione della cultura che domina il libro, intesa come qualcosa che deve avere esclusivamente un’utilità pratica. Sin dalle prime pagine si sostiene che «c’è poco nella vostra scuola che serva nella vita», e la riprova è che «non c’è nulla sui giornali che serva ai vostri esami». Viene contestato il Monti della traduzione dell’ Iliade perché non usa «la lingua che occorre a noi», anzi impiega una lingua che «non era parlata neppure ai tempi suoi». Gianni, finito a lavorare in un’officina, «non ha bisogno di sapere se è stato Giove a partorire Minerva o viceversa», mentre nel programma di italiano ci sarebbe stato meglio il contratto dei metalmeccanici. In conclusione il locutore nega che i professori siano colti, perché non hanno letto quel contratto («Che siete colti ve lo dite da voi»). La matematica da insegnare a scuola deve limitarsi ai «calcoli che ognuno deve saper fare per le necessità immediate di casa o di un lavoro qualsiasi», quindi è bene eliminare «le espressioni numeriche e l’algebra»: non si concepisce che la matematica possa anche essere lo stimolo per un uso gratificante dell’intelletto nei campi dell’astrazione pura, o più banalmente che quelle parti del programma potranno essere indispensabili per il proseguimento degli studi (ma sugli studi superiori si vedrà qual è la posizione dello scrivente).
Si esaltano le esperienze compiute all’estero:
Nella nostra scuola l’andare all’estero equivale ai vostri esami. Ma è esame e scuola insieme. Si prova la cultura al vaglio della vita.
In conclusione è un esame più severo dei vostri, ma almeno non si perde tempo sulle cose morte.
Secoli di grande cultura, italiana ed europea, umanistica e scientifica, sono ritenuti «cose morte», a occuparsi delle quali si «perde tempo», e che occorre eliminare per tuffarsi nella «vita vera».
Difatti viene orgogliosamente esaltata, in contrapposizione a quella scolastica, la «nostra cultura». I suoi compagni «hanno sfondato da per tutto», il sindacalismo, la fabbrica, i partiti e le amministrazioni comunali:
«La nostra cultura regge da per tutto dove è vita vera. Alle magistrali non serve»; «La cultura vera […] è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola». Quindi «una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose».
Gianni è fortunato perché «appartiene al mondo grande», è «conoscitore da dentro dei bisogni dei più», mentre Pierino è «disgraziato» perché «ripete solo cose lette sui libri, scritte da un altro come lui. Lui chiuso in un gruppetto raffinato. Tagliato fuori dalla storia e dalla geografia». Costante nel discorso è questo disprezzo per «i libri», visti come qualcosa di vacuo, arido e inutile, in contrapposizione all’esperienza diretta della realtà: come se i libri nascessero in un vuoto pneumatico e non anch’essi dall’esperienza viva della realtà, e non fossero pieni di questa realtà viva, per chi sa leggerli. Non solo, i libri sono indispensabili proprio per allargare gli orizzonti e capire a fondo la realtà, una comprensione che l’esperienza diretta, non sorretta dalle necessarie conoscenze, non è in grado di fornire. Quindi chi li legge, come «Pierino», possiede comunque un’esperienza più vasta e profonda, non è affatto «tagliato fuori dalla storia e dalla geografia». A essere tagliato fuori è semmai Gianni perché, conoscendo solo ciò che ha appreso dalla cerchia ristretta della propria esperienza personale, senza allargare gli orizzonti con la lettura, ha una visione più limitata, parziale ed elemetare. Nel suo furore polemico lo scrivente arriva a proclamare vere e proprie sciocchezze. E questa non è la sola, come vedremo.
Nessuno si sognerebbe di sostenere che la scuola non debba insegnare cose utili alla vita. È vero che un totale distacco della scuola dalla vita pratica è deleterio e che la cultura in essa insegnata deve trovare il collegamento con la realtà esterna in tutti i suoi aspetti, anche quelli più materiali e pratici, se non vuole chiudersi in un universo sterile, privo di vitalità, falso e soffocante; ma soprattutto le materie di insegnamento devono trovare il contatto con l’esperienza vissuta dei giovani, perché possano stimolare il loro interesse e motivarli allo studio. Però, ed è questo che lo scrivente non riesce a concepire, la cultura, e in specie la letteratura, possono avere anche un valore autonomo, disinteressato, teso al godimento estetico personale (ma già, il piacere deve essere bandito secondo questa visione ferocemente ascetica e repressiva di ogni impulso istintuale).
L’idea della cultura e dell’insegnamento come qualcosa destinato esclusivamente alla pratica è meschina, squallida e impoverente.
Oltre alla lingua della tradizione poetica, condannata perché non serve alla comunicazione quotidiana, quindi è «morta», bersaglio polemico privilegiato è il latino: «Siete sicuri che per fare un buon maestro sia indispensabile il latino?». Il rifiuto è motivato dal fatto che è una materia che il maestro non insegnerà mai ai suoi allievi: «Da voi la materia più importante è quella che non dovremo mai insegnare». In realtà il latino è una materia che possiede anche una funzione pratica, nel bagaglio professionale di un maestro: non si può davvero dominare la lingua italiana se non si conosce il latino, e bene, e il maestro deve appunto per prima cosa insegnare l’italiano ai suoi ragazzi: è proprio il libro a insistere continuamente sulla necessità di possedere la lingua per essere «eguali».
Ma anche in questo caso la risposta più forte, e persino scontata, a questo culto assoluto della pratica è che le materie di studio, oltre ad avere un’utilità nell’applicazione alla vita quotidiana, devono tendere come obiettivo finale e più alto alla Bildung, alla formazione della persona completa: un’idea che, come si è verificato, è totalmente estranea all’orizzonte mentale dello scrivente. In primo luogo concorrono a una formazione intellettuale, intesa come capacità organizzare in modo logico e consequenziale il pensiero, originalità e autonomia di giudizio, ricchezza di interessi, duttilità e apertura mentale. La formazione deve tendere altresì all’apertura umana e solidale, ad affinare la sensibilità: aumentando la capacità di capire aiuta a mettersi in relazione con gli altri, a interpretare le loro ragioni, induce a essere più attenti e comprensivi. Inoltre educa il gusto a comprendere e apprezzare le cose belle, e questo arricchisce la vita, sia nella propria interiorità sia nelle possibilità di mettersi in relazione con il mondo esterno.
L’uomo che sa solo pensare all’utilità pratica è un uomo dimidiato, rozzo e primitivo.
Non solo, ma il sapere acquisito dai libri, a scuola, serve anche alla formazione dello spirito critico, attraverso il vaglio e il confronto delle varie interpretazione di un fatto storico, di un testo letterario, di un concetto filosofico, di un’opera d’arte figurativa. Lo spirito critico è capacità di leggere la realtà andando oltre le apparenze, di dissolvere mistificazioni e menzogne, come quelle dei media e della rete, nell’era delle fake news e della manipolazione spudorata delle coscienze. Ed è triste constatare che è proprio questa funzione di formare lo spirito critico che viene negata dal locutore. La professoressa tiene in gran conto le opinioni personali degli studenti riguardo ai testi e ai problemi letterari. Ma questa impostazione didattica viene decisamente respinta:
Lei le opinioni personali le tiene in gran considerazione: «Secondo me il Petrarca…». Forse il ragazzo avrà letto due poesie, forse nessuna.
[…] Un ragazzo che ha un’opinione personale su cose più grandi di lui è un imbecille. Non deve aver soddisfazione. A scuola si va per ascoltare cosa dice il maestro.
Solo rare volte capita qualcosa di nostro di cui la classe e il maestro hanno bisogno. Ma non opinioni e non cose lette. Notizie precise su cose viste coi nostri occhi nelle case, nelle strade, nei boschi.
Come si vede, si impone sempre il pregiudizio riguardo al privilegio dell’esperienza pratica sui libri, ma qui esso si rivela oltre che ottuso assai pericoloso: si afferma una visione dell’insegnamento autoritaria e dogmatica («a scuola si va per ascoltare cosa dice il maestro»), che nega lo stimolo alla riflessione personale, all’esercizio dello spirito critico da parte dell’allievo, al dialogo che si deve instaurare tra docente e discente, alla classe come comunità interpretante, alla didattica come ricerca collettiva e non come trasmissione dall’alto di contenuti preformati. È chiaro che le «opinioni» non devono essere pura dóxa, del tutto soggettiva e arbitraria, per cui ogni lettura “selvaggia” dei testi letterari va combattuta, mentre l’interpretazione deve essere fondata su dati oggettivi sicuramente posseduti, sulla scepsi critica, sulla capacità logica e argomentativa. Sono tutte cose difficili da apprendere e da praticare, ma quelli sono gli obiettivi a cui ogni insegnamento deve mirare, se si vuole una scuola che formi la personalità critica, e non automi programmati dall’esterno. Una scuola come traspare delle righe citate fa paura. Anche in questo caso è grave la responsabilità del priore di Barbiana e dei professori delle magistrali, che non hanno saputo far assimilare questi principi, o, peggio, non se ne sono curati.
2.3. La celebrazione della cultura contadina
A chiarire l’origine di tutto questo disprezzo per i libri, di questo rifiuto radicale della cultura “alta”, provvede a un certo punto un’orgogliosa celebrazione del valore della cultura contadina. L’obiettivo polemico immediato è la maestra che ha usato la parola generica “albero” per indicare un ciliegio. Il giudizio è sprezzante:
«Avete dato l’abilitazione a lei e la negate a me che d’albero non gliel’ho mai dato a nessuno in vita mia. Li conosco per nome a uno a uno»; e poi continua: «Conosco anche i sormenti. Li ho potati, li ho raccolti, ci ho cotto il pane. Lei su un compito m’ha segnato sormenti come errore. Sostiene che si dice sarmenti perché lo dicevano i latini. Poi di nascosto va a cercare sul vocabolario cosa sono».
In realtà in italiano si dice effettivamente sarmenti, mentre sormenti è dialettale: ed è grave la confusione per chi sostiene che occorre assolutamente imparare la lingua per essere eguali. Non si diventa certo eguali continuando a dire sormenti anziché sarmenti, o simili. Ma questo è ancora niente:
Io so leggere i suoni di questa valle per chilometri intorno. Questo motore lontano è Nevio, che va alla stazione un po’ in ritardo. Vuole che le dica tutto su centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami?
[…] Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei ama. Nove decimi del mondo l’hanno e nessuno è riuscito a scriverla, dipingerla, filmarla.
Siate umili almeno. La vostra cultura ha lacune grandi come le nostre. Forse più grandi. Certo più dannose per un maestro elementare.
Una piccola esperienza circoscritta e insignificante, chiusa in un ristretto mondo paesano, è celebrata come la cultura che «avrebbero voluto avere i poeti» e anteposta alla vastità di orizzonti intellettuali, spaziali, temporali della grande cultura: Dante e Leopardi, Baudelaire e Proust, Shakespeare ed Eliot, Goethe e Kafka avrebbero dunque dovuto parlare dei «sormenti» e di «Nevio». Si resta sbalorditi a leggere stupidaggini del genere, e ci si chiede come il priore abbia potuto avallarle. La summa di questa esaltazione della cultura contadina è:
Ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri.
Si ripropone il mito della sanità, della genuinità e della vitalità del mondo contadino, antidoto all’inaridimento e all’inautenticità di quello borghese, saturo solo di libri: un mito logoro e stantio, ma soprattutto mistificante. Come se tanta letteratura non l’avesse dissolto, mostrando in varie forme e da diverse prospettive la faccia reale e oscura della realtà rurale, spesso barbarica e violenta: le Novelle rusticane, La terre, le Novelle della Pescara e La figlia di Jorio, Il podere, The hamlet, Paesi tuoi, La malora, Il sorriso dell’ignoto marinaio, per citare solo i primi titoli che vengono in mente.
Non solo, a simili sciocchezze è facile rispondere che la cultura contadina, appunto, non ha prodotto Omero e Virgilio, Dante e Shakespeare, Leonardo e Michelangelo, Galileo e Newton, Bach e Beethoven, Kant e Marx, Einstein e Freud. Ed è questa la cultura che conta, che ha contribuito a muovere il mondo, non quella del contadino che sa che cosa sono i «sormenti». La cultura contadina è irrimediabilmente, irrecuperabilmente subalterna. Certo non va cancellata, va studiata, compresa, valorizzata, e a scuola, dinanzi a ragazzi che provengono da questi ceti e da questa cultura, occorre partire dalla loro esperienza vissuta: partire, per coinvolgerli, però poi è necessario e doveroso guidarli verso livelli superiori. È della cultura alta che i proletari devono impadronirsi, se non vogliono essere più subalterni. Chi intende sostituirla con la cultura contadina mantiene i proletari nella loro condizione di inferiorità e di sottomissione, cioè compie un’operazione assolutamente reazionaria. E chi, invece di far crescere la coscienza del valore politico della cultura alta instilla nei proletari simili idee con il suo insegnamento, o comunque approva quell’orgoglio contadino e radica nei proletari il rifiuto della cultura, come il priore-maestro di Barbiana, si assume una gravissima responsabilità politica e culturale e abdica al suo compito di insegnante. Non vi è infatti sostanziale differenza fra espellere i proletari dall’istruzione attraverso la selezione, come fa la scuola classista che boccia, ed escluderli dalla vera cultura, condannandoli a restare chiusi nella loro cultura subalterna. È anche questa è una forma di selezione classista, solo più subdola, meno scoperta.
2. 4. Estraneità e disprezzo per la cultura alta
Invece per tutto il libro si esprime ostinatamente un’estraneità nei confronti della cultura alta, che approda a un rifiuto sprezzante e totale, a una vera e propria repulsione. La repulsione si delinea perfettamente quando si parla di determinate opere letterarie. Si presenta come incomprensibile bizzarria la pretesa della professoressa, che «voleva a tutti i costi le strane fiabe di Omero». L’Iliade e l’Odissea «strane fiabe»: l’espressione si commenta da sé. E quanto alla traduzione di Monti si nota con tono di dileggio sprezzante, come una colpevole aberrazione, il fatto che «ogni tre parole due sono d’Omero, una è parto della testolina» del traduttore; non solo, ma si giudica intollerabile che venga impiegata una lingua fasulla, non usata mai da nessuno realmente, incomprensibile, che non serve oggi. Si depreca che vadano sprecati «tre anni su tre brutte traduzioni di poemi antichi (Iliade, Odissea, Eneide). Tre anni su Dante. Neanche un minuto solo sul Vangelo». E così viene sintetizzato l’episodio di Eurialo e Niso, nella traduzione del Caro:
Due farabutti sbudellano la gente tra il sonno. Elenco degli sbudellati e della roba rubata e di chi gli aveva regalato una cintura e il peso della cintura. Il tutto in una lingua nata morta.
E qui è necessario sottolineare la colpa dell’insegnante, che non ha saputo far comprendere quanto fossero diversi i costumi, le usanze, la mentalità che vengono rispecchiati dall’epica antica, in un confronto con la nostra visione moderna, confronto che avrebbe indotto i ragazzi a rendersi conto del divenire storico e delle trasformazioni impresse dal tempo alle civiltà, e non ha spiegato come la lingua del Caro non fosse «una lingua nata morta», ma una lingua letteraria, che è necessariamente diversa dalla lingua comune, per le esigenze espressive della creazione artistica (e lo stesso valeva per la traduzione di Monti), non ha chiarito che l’arte ha finalità sue, che non coincidono con l’utilità pratica, quindi è inevitabile che la lingua letteraria non serva per la comunicazione quotidiana di oggi.
Ma il punto più basso toccato da queste manifestazioni di estraneità e di incomprensione nei confronti della letteratura è il racconto della fallimentare interrogazione sul passo delle «inaugurate immagini dell’Orco» nei Sepolcri:
Era vero. Non l’avevo studiato. Io non dirò mai ai miei scolari che inaugurare vuol dire augurare male. C’è scritto nella nota. Ma è una bugia. L’ha inventata il Foscolo perché non voleva bene ai poveri. Non ha voluto far fatica per noi.
Lei mi faceva tenere un quaderno sulle note per costringermi a imparare a mente quella lingua. E io dovevo imparare un’altra lingua per parlare a chi?
Quel «non voleva bene ai poveri» è impagabile. Ed è una colpa inespiabile del priore aver avallato idiozie del genere. Certo, l’intenzione era far sentire con forza l’estraneità di classe da parte del ragazzo contadino, la dura opposizione verso la cultura della classe dominante, verso l’aristocraticismo della tradizione letteraria: ma il punto che non bisogna mai stancarsi di ribadire è che approvare o addirittura esaltare quella estraneità e quel rifiuto significa riprodurre proprio una subalternità di classe, cioè compiere un’operazione reazionaria. Quello della lingua letteraria che è una lingua morta, che non serve oggi per parlare a nessuno, è un leitmotiv quasi ossessivo nel libro, come si è verificato. E susciterebbe il riso, se non implicasse una conseguenza pericolosa, buttare nella spazzatura secoli di grande letteratura, necessariamente non scritta nella lingua comune. Anche qui bisogna ribadire che è colpa imperdonabile della professoressa, che non è riuscita a far comprendere all’allievo alcuni concetti elementari: che non è che Foscolo «non voleva bene ai poveri», se scriveva in quel modo, perché l’artista è libero di scegliere lo strumento espressivo che si confà a ciò che vuole dire, e per altro verso si inserisce in un sistema letterario storicamente codificato; che la lingua letteraria, perciò, è del tutto diversa dalla lingua della comunicazione quotidiana, e a differenza di essa non ha l’obbligo di essere chiara e trasparente; e ancora, l’insegnante avrebbe dovuto dissolvere il pregiudizio che la cultura e la lingua debbano avere esclusivamente una funzione pratica («per parlare a chi?»). Ma evidentemente quell’insegnante non si è curata di capire le difficoltà del ragazzo che proveniva da una realtà sociale e culturale così estranea, non è stata capace di coinvolgerlo, di interessarlo, di fargli intendere il senso e l’importanza di quella cultura, la bellezza e la ricchezza umana dei poemi omerici e dell’Eneide, la profondità e anche l’attualità dei problemi affrontati da Foscolo nel suo carme. La scuola pubblica ha avuto una responsabilità enorme, ma una responsabilità simmetrica ha avuto la scuola di Barbiana, che ha mandato ad affrontare gli studi superiori ragazzi tanto sprovveduti e per di più deformati ideologicamente, quindi disarmati e condannati all’inevitabile fallimento scolastico, che li ripiombava nella loro condizione proletaria. E si prova pena di fronte a questi ragazzi, vittime della scuola di classe e della pretesa scuola alternativa, che restano comunque esclusi dall’appropriazione di un grande patrimonio culturale, dal godimento di straordinarie bellezze estetiche e dall’assimilazione del meglio delle idee prodotte dall’umanità.