Lettera aperta a Guido Baldi sull’articolo “Le incognite inquietanti del qualunquismo grillino”

L'asino vola
14 min readJun 20, 2016

di Gigi Livio

Caro Guido.

Il tuo articolo sul pericolo del grillismo, che propone come soluzione di votare i sindaci Pd secondo la politica del “meno peggio”, francamente non mi convince. Per risponderti preferisco scegliere la via dell’implicito e cercare di illustrare la mia posizione al proposito che, essendo diversa dalla tua, contiene in sé la risposta.

Intanto allego un articolo di Aldo Carra, uscito sul “manifesto” del 17 giugno e riportato al fondo di queste note, che fa parte di una serie di scritti di approfondimento sui temi che ci interessano. E tanto forse basterebbe non fosse che mi pare giusto integrare questo articolo con alcune considerazioni che cerchino di illustrare la mia posizione in merito. Ti prevengo però che procederò piuttosto per schemi e non sempre per ragionamenti articolati fino in fondo perché lo spazio e il tempo mi spingono a adottare questo sistema; ritengo però che l’essere schematici non voglia dire necessariamente rimanere alla superficie dei problemi.

La situazione è grave e seria e, insieme, estremamente complessa: la nostra generazione, formata da chi è nato un po’ prima o durante la guerra, si trova per la prima volta a dover constatare, questo il mio parere ovviamente, che il “meno peggio” non esiste più. Se in altre occasioni ce la siamo cavata seguendo questa linea, questa volta proprio non ci siamo perché il meno peggio, intendo per un comunista naturalmente, non è più possibile da individuare visto che esiste ormai soltanto il peggio. Il meglio esisteva, e esiste, ed è, forse –rimando all’articolo di Carra- Sinistra Italiana che però né a Torino, dove io ho votato per Airaudo, né a Roma è giunta al ballottaggio: inutile dire, in linguaggio giornalistico, “è la democrazia bellezza” perché semmai è proprio alla mancanza di democrazia cui si deve questo risultato.

Quest’ultima affermazione pretende una breve spiegazione che schematizzo così: per ciò che riguarda le votazioni oggi negli stati borghesi-capitalistici a struttura sé dicente “democratica”, la sovrastruttura culturale è divenuta quasi più importante della struttura.

Nuovo problema complessissimo che comporterebbe molte pagine di chiarificazione. Ancora una volta schematicamente: in questa notte della ragione dialettica in cui tutti i gatti sono diventati neri la réclame risulta più importante dell’oggetto, o dell’idea, reclamizzata. È chiaro che questa affermazione prevede un’ulteriore articolazione: come è possibile che basti proporre, attraverso gli strumenti di comunicazione di massa, modelli di comportamento e subito la maggioranza della popolazione ci caschi e vi si immedesimi al punto da divenire uguali a quei modelli? Altra articolazione: la scuola e la cultura.

L’abbassamento della cultura, che dà luogo a sfoghi moralistici tipo “i giovani non sanno più parlare e scrivere italiano”, non è certo un fatto casuale né tanto meno un evento determinato meccanicisticamente da fattori sociali o addirittura genetici, ma risponde, proprio al contrario, a una ben precisa pianificazione ideata e messa in atto dall’industrialismo attraverso e grazie l’industria culturale; un piano che parte dalla scuola materna e dall’asilo e che allunga la sua ombra sinistra fin sull’università.

Si sa, ed è stato detto e scritto mille volte, che il potere vuole sudditi e non cittadini. E quale sistema migliore per trasformare quel residuo di coscienza di sé, del proprio ruolo nella società e, dunque, dell’esercizio di un pensiero, ancora almeno potenzialmente critico, che deprimendo la cultura? Perché la cultura o è nutrita di pensiero critico o semplicemente non è. Ecco allora l’importanza dei mezzi di comunicazione di massa che imbottiscono le menti di persone ormai prive di pensiero critico, e cioè inermi, e li trasforma in sudditi.

Ma manca ancora un passaggio del ragionamento: la scuola da noi non è certo gratuita. Al solito, chi appartiene alle classi più economicamente elevate frequenta certi tipi di scuola che ancora, pur nella degradazione generale della cultura, aiutano il giovane a leggere la realtà in modo più approfondito di quanto possano fare i loro coetanei costretti dal censo della famiglia a altri tipi di scuola. Si porrebbe qui un altro snodo del discorso, incentrato sul problema della scuola di massa che, per dirlo in una formula, non esiste perché nelle democrazie capitalistiche, e sempre per lo stesso motivo, la scuola di massa è stata concepita come una scuola degradata nei contenuti e nei metodi (lascio qui stare la faccenda delle crocette, tanto utili ai professori per risparmiare tempo nella correzione degli elaborati, professori che anche in questo risultano correi del sistema degradatorio). Se tutto ciò è vero, come io credo sia vero, è evidente quanto oggi sia facile usare la sovrastruttura culturale per trasformare le coscienze ormai prive di cultura –sempre di pensiero critico si parla- e sviluppare e portare (quasi) a compimento quel processo operato dal fascismo di indottrinamento della nazione quando il capo e i capetti avevano a disposizione soltanto la radio per diffondere nel paese il verbo ducesco risonante nelle “adunate oceaniche”. In quel “quasi”, che ho cautamente messo tra parentesi, c’è tutta la speranza nel fatto che l’umano non abbia ancora abbandonato del tutto l’uomo. Ma perché questa speranza possa avere anche solo una parziale conferma nella realtà non si tratta certo di sperare che passi la nottata perché consolidando col voto chi, fingendosi di sinistra, altro non fa che rafforzare il capitalismo e aumentare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la nottata rischia di diventare una notte senza fine e l’alba sperata non sorgere mai.

E perché questo non succeda, sempre a mio parere, bisogna porsi un problema che è storico, etico e di costume e che può essere schematizzato in questo modo:

l’antipolitica, e cioè il qualunquismo, non nasce dal nulla; affermare questo vuole semplicemente dire che vanno ricercate le cause dei fenomeni e che, questa ricerca, può illuminare i fenomeni stessi di una luce diversa e così permetterci di interpretarli più approfonditamente.

Concedimi un breve scorcio autobiografico non per parlare di me, ché sarebbe povera cosa, ma per chiarire un punto che va ben oltre la mia persona. Nel 1972, stufo di far parte di quella sinistra extraparlamentare che sembrava avesse come primo scopo quello di criticare il Pci, giudicando quella posizione sterile e dettata da una forma di moralismo piccolo borghese, mi iscrissi al Pci per fare, uso termini attinenti il nostro mestiere, la critica del testo entrando nel testo. Erano gli anni che precedettero il momento in cui Enrico Berlinguer, divenuto segretario del partito nel ’72, avrebbe impostato quella che venne definita la “questione morale”. Subito, forse ancora spinto dal moralismo di cui ho appena detto, non capii; e interpretai la politica del segretario come una politica tutto sommato moralistica. Ben presto mi accorsi di sbagliare:

la “questione morale” di Berlinguer, infatti, era soprattutto una questione “politica” perché egli, genialmente lungimirante, aveva capito ciò che stava succedendo nel partito e cioè il fatto che ormai molti funzionari, quadri intermedi, funzionari comunali, provinciali e regionali erano compromessi con lo spirito del tempo che non era certo allineato al suo pensiero e al suo rigore etico, ma, prima, dalla falsa coscienza ideologica democristiana e, subito dopo, da quella craxiana.

La deriva “morale” di tutti questi signori ancora iscritti al Pci, ormai soltanto più per interesse, iniziò a portare le persone meno colte a pensare che fossero “tutti uguali” anche se non era vero affatto perché, se questo poteva valere per una larga parte, non valeva certo per “tutti”, visto che all’interno di quel partito c’erano ancora molti che frequentavano quella ‘diversità’ comunista, che consiste poi semplicemente nel concepire se stessi come parte di una collettività e non quali monadi solitarie e isolate dal mondo tutte tese a realizzare i propri interessi anche, o forse soprattutto, a scapito degli altri come è proprio, nella modernità, dei filistei di tutte le epoche e di tutti i paesi.

Ma intanto il pensiero conformistico del “sono tutti uguali” montava e divenne valanga dopo la morte improvvisa del Segretario, nel 1984, che aveva cercato in tutti i modi e con tutte le forze di porre un argine alla degenerazione del partito. Semplificando al massimo:

l’attuale Pd renziano, che intende solo rafforzare lo scettro ai regnatori e niente affatto mostrare di che lacrime grondi e di che sangue, è figlio legittimo della deriva di cui ho molto rapidamente detto.

Non però che il potere capitalistico stesse a guardare; infatti quelli tra i settanta e gli ottanta, sono gli anni, per ciò che riguarda la cultura, delle prime prove di quella filosofia tesa soltanto a confermare l’esistente cui affibbiamo l’etichetta di postmodernismo che intendeva -e c’è riuscita eccome godendo dei favori della borghesia capitalistica che detiene i mezzi di diffusione dei prodotti culturali (giornali, editoria in genere, televisioni, radio e, ora, internet)- eliminare la storia, combattere le grandi narrazioni -il plurale è puramente dettato dal fumo ideologico della falsa coscienza perché combattevano soltanto quella marxista- e invitare a evitare il conflitto, la lotta, quale fosse l’obiettivo da perseguire.

Le Vallette, Torino

A questo punto l’antipolitica ebbe gioco facile proprio grazie a questi fatti, anche di qui l’enorme importanza della sovrastruttura culturale, cui si aggiungeva quello tutto strutturale per cui

i poveri divenivano, e qui la crisi manovrata c’entra, sempre più poveri e sempre più numerosi e i ricchi sempre più ricchi e sempre minori di numero.

A questo punto si innesta il problema della rabbia che spinge molti a aderire all’antipolitica qualunquistica. Ora tu scrivi che “in politica le viscere sono sempre pessime consigliere”. Due osservazioni: 1. È proprio vero? Quanti rivoluzionari (parlo delle vere rivoluzioni: oggi tutto è rivoluzionario anche una bevanda che sia un po’ più o un po’ meno gasata di un’altra; viviamo in un vuoto continuo di significato di cui la lingua che oggi usiamo è valido testimone) sono proprio spinti dalla rabbia?

Come si fa a non provare rabbia quando si deve constatare che tra chi abita alle Vallette (sto parlando di Torino) e chi invece nella zona residenziale di Piazza Hermada la vita si riduce di quasi quattro anni, da 82,1 a 77,8

(trovo questi dati sul “venerdì” del 3 giugno nell’articolo di Riccardo Staglianò dal titolo Sul tram che ti dice quanto vivrai): possiamo chiedere agli abitanti delle Vallette che vivono in Viale dei mughetti o in Via delle primule (l’ideologia, come falsa coscienza ovviamente, si nasconde anche nelle denominazioni delle strade) di non essere rabbiosi? E

quale cultura la società attuale ha dato a queste persone per sapere che la giusta e sacrosanta loro rabbia va canalizzata e sublimata in altro modo che affidandosi ai rappresentanti dell’antipolitica?

Precollina, Torino

2. Un tempo, per farla breve, questa canalizzazione avveniva proprio grazie al partito comunista che così otteneva anche lo scopo di sublimarla trasformandola in forza politica tesa a contrastare il dominio di chi, grazie alle proprie ricchezze, deteneva il dominio dei mezzi di produzione. Molte conquiste democratiche sono state ottenute proprio attraverso e grazie all’organizzazione politica della rabbia. Oggi questa organizzazione di sinistra non c’è più: e la rabbia viene indirizzata verso altre formazioni, mistificanti e mistificatrici fin che si vuole, ma oggettivamente legittime.

È ora di chiudere questi troppo lunghi appunti. Ma non posso tacere sulla questione degli “utili idioti” locuzione attribuita a Lenin e, da alcuni, a Stalin che serve a designare

“chi, pur non militando in partiti di sinistra, ne sostiene le idee e le iniziative, recando loro vantaggi senza saperlo” (Battaglia, vol. VII, p. 214):

ora io non credo affatto che Airaudo, Fassina, eccetera e chi ha votato per loro siano, o siamo visto che io ho votato per Airaudo, “idioti”, politicamente parlando naturalmente, e tanto più “utili” al nemico: penso al contrario che si tratti degli unici voti che abbiano cercato di opporsi alla conservazione reazionaria del renzismo che

“ripercorre le stesse linee che hanno alimentato il nostro declino nel passato ventennio: la ricerca della competitività fondata sulla riduzione del costo del lavoro; il contenimento della spesa sociale erroneamente vista come un lusso che non potremmo permetterci; le privatizzazioni anche in settori strategici e del welfare in omaggio ad una visione liberista dei rapporti stato-mercato che ignora anche l’evidenza empirica dei fallimenti del secondo accentuate dalla crisi” (Felice R. Pizzuti, Le vecchie ricette di Renzi e quelle indefinite dei 5Stelle, in “il manifesto”, 14 giugno).

Un caro saluto,

Gigi

P.S. Ma veramente trovi tanto strano che un Di Maio possa sedere al G7 o che un Di Battista possa dover trattare con la Merkel, eccetera? Ma Berlusconi, con le corna, il cucù, l’appello a “Barack” in piena cerimonia ufficiale, eccetera non ci ha vaccinati? E perché temere la Taverna ministra dell’istruzione se abbiamo già avuto la Gelmini in quel ruolo? (Per non parlare del Berlinguer Luigi –terrificante omonimia- cui dobbiamo l’aver portato al calor bianco lo sfascio dell’università, iniziato dal socialista craxiano Ruberti nel ’90, e portato a termine dalla suddetta Gelmini?).

Oggi, mentre sto scrivendo queste note, è il 19 giugno: non vado al mare perché non sono mai stato craxiano ma andrò a votare, come immagino faranno tutti i comunisti, scheda bianca per testimoniare l’impossibilità di scegliere tra un conservatore-reazionario e una sedicente “innovatrice” che di nuovo nel suo programma non ha nulla tranne che non s’intenda per nuovo il fatto di riproporre una vecchia politica di opposizione qualunquistica; si tratta, dunque, di un’altra conservatrice-reazionaria il cui ‘partito’ intende “istituzionalizzare” la rabbia a puri scopi di potere personale. (Ma perché in Francia, e malgrado la Le Pen, ciò sembra non avvenire?)

A presto, g.

Dal multipartitismo al multipopulismo

Ballottaggi. Quasi dovrebbe meravigliare la partecipazione al voto, la caparbietà di chi insiste e resiste. E’ lo zoccolo duro che deciderà l’esito dei ballottaggi. E se Renzi perde le città avremo più possibilità di vincere il referendum di ottobre

I ballottaggi hanno origine antica: ballotte erano le sfere di oro o argento usate per l’elezione del Doge; ballotta era sinonimo di castagna e queste venivano utilizzate per contare i voti ai Priori delle arti a Firenze. Nel sistema elettorale italiano il ballottaggio per i sindaci è stato introdotto dopo tangentopoli per favorire la scelta della persona a scapito dei partiti delegittimati dalla corruzione.

Nel 2015 la Regione Toscana ha previsto il ballottaggio nel caso nessuno dei candidati raggiunga il 40%. Oggi la corruzione è penetrata anche tra le persone, i partiti quasi non esistono più, ma i ballottaggi restano.

Anzi, con l’Italicum, si parteciperà e si accederà al premio di maggioranza a prescindere dalla percentuale di consensi ottenuti. I Toscani di oggi hanno superato tutti i loro predecessori!

Da rimedio ad una degenerazione della politica, i ballottaggi di oggi stanno diventando causa di ulteriore degenerazione della sua qualità. Guardiamo al dibattito di questi giorni. Non si confrontano programmi e progetti costruiti con la partecipazione dei cittadini e con i partiti che li rappresentano. Si confrontano persone che sembra non abbiano storia ed appartenenze. Tutti vergini. I grandi campi ideali sinistra-destra, progressisti-conservatori in un momento si rimuovono come vecchi arnesi per poter conquistare elettori di altri schieramenti, ma un attimo dopo si riportano in vita per fare appelli al campo di appartenenza e chiedere fedeltà. Formazioni politiche al primo turno disprezzate e considerate avversarie vengono corteggiate per avere i “loro” voti. Chi ha distrutto il centro sinistra adesso si appella al suo spirito (spirito appunto!). In alcuni territori alcune forze sono alleate ed in altri avversari feroci.

Le accuse più frequenti ai concorrenti non riguardano le differenze programmatiche, ma il ”guarda chi sta con te!”. E dietro queste accuse non si sa bene quanto ci sia di ostilità e quanto di gelosia o invidia perché si sarebbe preferito che un sostenitore dell’avversario fosse un proprio sostenitore. Il ballottaggio rende tutte le alleanze intercambiabili. Insomma le parole, le collocazioni, i giudizi perdono ogni significato e ne acquistano uno opposto secondo il luogo, la persona, il giorno in cui vengono pronunciati.

Che l’astensione aumenti al primo ed ancor più al secondo turno, in questo panorama non deve meravigliare. Quasi quasi dovrebbe meravigliare la partecipazione al voto, questa caparbietà di chi insiste e resiste. Cittadini sballottati, ma ancora fedeli alla democrazia, devoti dell’appartenenza. Ed è da questo zoccolo duro che dipenderà l’esito dei ballottaggi di domenica.

Ma come mai ci siamo ridotti così? E perché da noi i processi avviati spesso si risolvono nel contrario di quanto si prevedeva? Quando — età veltroniana — si teorizzò il maggioritario, l’intenzione era di favorire il passaggio dal multipartitismo del proporzionale ad un sistema bipartitico. Sempre per amore dei modelli stranieri, mai studiati fino in fondo e tradotti sempre in salsa italiana in base alle convenienze del momento e di chi in quel momento governava. E sempre in ritardo, naturalmente.

Così mentre si pensava di semplificare dall’alto, in basso cresceva il malessere verso la politica e nasceva una forza, diversa e liquidata come populista, che oggi è diventata il primo “partito” d’Italia. Ed invece del bipolarismo ci troviamo di fronte ad un tripolarismo con un sistema che non lo contemplava. E per combattere il “nuovo populismo” invece di capirne le ragioni,i rinnovare se stessi e ritrovare radici, si è scelta la strada della concorrenza. Contro il populismo distruttivo di opposizione, dosi crescenti di populismo, ma di governo. Se il primo predica il reddito di cittadinanza, noi rispondiamo con gli ottanta euro ed alla politica dei no rispondiamo con la politica dei bonus. Su questo terreno, naturalmente, la destra non ha bisogno di riconvertirsi, ma di ritrovare se stessa. E così siamo passati dal multipartitismo al multipopulismo a tre. Troppi per un sistema con ballottaggi a due. Da qui incertezze, confusioni, imprevedibilità, incoerenze e contraddizioni di singoli e di formazioni politiche.

Cosa deve fare in questo scontro la terza grande forza che è esclusa? Ed ancor più cosa deve fare un’altra forza ancora più piccola, naturalmente esclusa? La sinistra ha scelto la terza via: non scegliere. Scelta comprensibile perché riflette travagli e rischi di ulteriori lacerazioni. Il momento è difficile e va bene. Ciascuno, poi, nell’urna farà la sua scelta.

Ma facciamola partendo da un fatto indubbiamente positivo: la cavalcata renziana è inciampata al primo ostacolo delle amministrative. Renzi voleva distrarci parlando di referendum, ma i fatti si sono imposti. Vedremo se si tratta di un semplice inciampo, di un arresto o di una inversione di tendenza. Ma senza dubbio siamo di fronte ad un fatto nuovo. E non è un caso che negli ambienti economici e di opinione prima schierati, qualcosa comincia a cambiare e la sua stessa immagine ad apparire ferma e ripetitiva. Renzi, insomma, comincia a stancare anche i suoi.

Se anche al ballottaggio subirà una sconfitta, potremo affrontare il referendum con maggiore energia e speranza. E la sinistra interna sarà spinta a scegliere ad impedire che Renzi vinca il referendum e ci porti alle elezioni con l’Italicum.

Sull’altro versante i Cinquestelle saranno chiamati comunque ad un salto di qualità: a responsabilità di governo, a politiche positive e costruttive, ad aprirsi, forti del loro successo, a relazioni con altri. Che la candidata sindaca a Roma si riprometta di avere come assessore all’urbanistica una persona come Paolo Berdini, tanto integerrima quanto di sinistra, già parla della fase nuova che si può aprire ed anche di una idea di città diversa ed alternativa a quella dei costruttori già pronti ai nastri di partenza delle olimpiadi.

Per la sinistra uscita non bene (ma non era facile in questa competizione dura affrontata col massimo di fragilità organizzativa e col minimo di leadership) si impone il salto di qualità: nel nuovo scenario tripolare non serve imprigionarsi nelle formulette rassicuranti del “mai col Pd” o del “salviamo il salvabile del centro sinistra” come non serve affiancare, senza riuscire né a fonderle né a moltiplicarle, le forze della sinistra che fu.

Escludendo di aggregarsi ad una delle macroforze esistenti, per la sinistra l’unica strada possibile è quella di costruire una “postazione” di iniziativa e di elaborazione, autonoma, ma aperta e dialogante, critica e costruttiva, che sappia muoversi nel panorama in movimento che la circonda, vivendoci dentro ed alimentandolo sia a livello sociale che politico.

Sinistra Italiana (per favore non cambiamo ancora nome) può esserlo. Se saprà nel vivo degli impegni dei prossimi mesi, evidenziare perlomeno tre pilastri del nuovo edificio (reddito di cittadinanza attiva, riduzione degli orari e redistribuzione del lavoro, intervento pubblico per la riconversione ed il rilancio) e far emergere il potenziale di energie affacciatesi in Cosmopolitica (magari evitando che anche le nuove forze si imprigionino in vecchie logiche di lotte interne, di potere e di cordate).

Se tutto questo non dovesse accadere Renzi rialzerà la testa. Già promette e minaccia di aggiungere alla prima legislatura senza essere eletto, altre due con la legge che si è fatto su misura. Ci basta la mezza legislatura fatta, penso.

Aldo Carra, Il Manifesto, 17.6.2016

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scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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