L’ignoranza della storia genera mostri di Angelo d’Orsi.
Breve introduzione di Ariela Stingi e Gigi Livio
Proponiamo ancora una volta ai nostri lettori la lettura di un articolo di Angelo d’Orsi, L’ignoranza della storia genera mostri, pubblicato sul “manifesto” del 16 Giugno.
Questo nostro insistere con gli articoli di d’Orsi è dovuto a un fatto molto semplice: ci sembra che d’Orsi, oltre a essere un ottimo storico delle idee e delle ideologie, sia anche altrettanto chiaro nel perseguire determinati obbiettivi che sono propri anche di questa nostra rivista e cioè, primo forse tra tutti, quello di
cercare di strappare il velo di quella falsa coscienza che copre le vicende reali della storia e della cronaca.
Partiamo da una questione di metodo: a un certo punto d’Orsi scrive
“La storia, per essere «maestra» pretende non soltanto di essere conosciuta, ma si aspetta che noi si impari da lei, ovvero pretende che tutto quanto precede il nostro presente venga conosciuto e tenuto in conto da chi non soltanto aspiri a vivere il proprio tempo, ma ambisca a interagire con esso, ad operare per migliorarlo, magari, o addirittura per rovesciare le sue coordinate se appaiano inique”.
Si tratta di un’affermazione molto importante in un tempo come questo. Viviamo infatti in un’epoca, genericamente definita post-moderna, in cui la liquidazione della storia (“a cosa serve la storia?”, “perché studiare la storia?”, “perché gli studenti debbono riempirsi la testa di dati e di date?”: queste domande retoriche provengono tutte dal senso comune), nasconde, non lo diciamo certo noi per primi né per la prima volta, proprio il desiderio di far sì che la storia non sia più maestra di conoscenza, di quella conoscenza indispensabile per giudicare in che senso vadano le scelte operate nel nostro tempo. Ciò che accade oggi non era così difficile da prevedere cinque anni fa a patto di non conoscere la storia. Il più vecchio di noi non intende impancarsi certo a profeta, anche perché al contrario l’Italia sarebbe stata piena di profeti, ma vuole ricordare di aver scritto proprio cinque anni fa nell’aprile del 2013 e su questa rivista, un breve articolo dal titolo Del conformismo, ovvero di Grillo. Ovviamente scriviamo questo senza tenere in alcun conto coloro che dicono che chi afferma “l’avevo detto un tempo” è soltanto una persona noiosa, perché sotto questo atteggiamento frivolmente leggero -e “leggerezza” è parola molto amata, come è ben noto, dai post-moderni- si nascondono pesanti manganelli, anzi, mazze ferrate: ancora una volta, infatti, si tratta di liquidare la storia per evitare che troppi, soprattutto i giovani, possano imparare a leggere i movimenti reali e, di conseguenza, comprenderli. Ecco dunque:
“Quello dei grillini è un populismo che mette radici nelle adunate oceaniche del fascismo dove, secondo i fascisti ovviamente, il capo (duce) dialogava direttamente con il Popolo per poter prendere le sue decisioni, così voleva far credere, in favore di detto Popolo.”
Oggi coloro che appartengono al Movimento Cinque Stelle, e che lo dirigono, sono finiti rapidamente subalterni, malgrado abbiano avuto voti quasi doppi a quelli della Lega, nelle braccia dei fascisti della Lega stessa. La questione è semplice: chi dichiara di essere contro le ideologie e non essere né di destra né di sinistra è per forza di cose di destra o comunque favorevole, come sta avvenendo, ad essere fagocitato dalla destra.
In questo senso la storia può essere maestra di conoscenza del proprio tempo proprio perché certe ideologie ben radicate nella mente dei vari popoli, cioè di quella massa indistinta di persone che appartengono un po’ a tutte le classi sociali, sono durissime a morire.
E l’ideologia fascista in Italia non è morta mai.
Senza affrontare ora in quattro parole un argomento importantissimo noi possiamo dire che gran parte degli italiani che si ribellavano al fascismo all’indomani dell’8 settembre 1943 lo fecero non per antifascismo reale, questi ci furono e furono pochi gloriosi combattenti, ma perché il fascismo aveva portato l’Italia al disastro promettendo un impero e, con la guerra, aveva causato la distruzione del paese stesso, distruzione che portava con sé un carico spaventoso di morti e di sofferenza per quelli che morti non erano.
Nell’ articolo che riportiamo d’Orsi prende spunto dalla questione della via che si sarebbe dovuta intitolare a Giorgio Almirante, a Roma, per svolgere il suo ragionamento.