Michelangelo Antonioni

L'asino vola
11 min readJun 5, 2019

Linguaggio e poetica

di Nicola Ranieri

«I miei film sono sempre lavori di ricerca. Indago e studio i miei contemporanei. Cerco in loro le tracce del sentimento. In un mondo in cui tali tracce sono state sepolte. Perché i sentimenti sono diventati una sorta di pubbliche relazioni».

In tutti i film Antonioni ha sviluppato questa sua indagine con un proprio metodo: Fare di un pieno un vuoto: creare condizioni sperimentali in situazioni reali. In ciò egli è inarrivabile maestro — si pensi a L’eclisse, al minuto di silenzio in Borsa. Un silenzio ottenuto per svuotamento del vociare inarrestabile, del frastornante rumore.

Antonioni detesta la musica nel film, non la sopporta, perché essa lo trasforma in un melodramma. Anche per questo de-drammatizza gesti e azioni, nonché qualsiasi crescendo esplosivo. Tende perciò a privilegiare le implosioni, e senza spettacolarizzarle.

La colonna sonora, invece, ha per lui una enorme importanza.

Proprio perché detesta la musica nel film, il suo cinema è una potente costruzione sonora e insieme visiva.

Da un lato, egli si rammarica di non aver potuto esplorare a fondo la misteriosa arte dei suoni, poiché abbandonò gli studi musicali intrapresi da bambino.

Dall’altro, ha trascorso buona parte della vita a selezionare musiche appositamente scritte da diversi compositori per i suoi film, ma soprattutto a scegliere suoni e rumori, riprodotti e montati in colonne sonore interagenti a tal punto con le colonne visive da risultare da queste inseparabili. E tutto ciò, forse, a partire da quel vuoto che gli lasciò l’amore perduto per la musica, che da bambino aveva iniziato a studiare.

Dalla mancanza, dall’assenza nascono sempre grandi cose.

Innanzitutto nasce un interrogarsi senza fine — entro una struttura narrativa impropriamente definita “giallo alla rovescia” — insieme al fatto che il film è soprattutto un audiovisivo: ciò che si sente e ciò che si vede in un modo il più possibile asciutto, sincero, limpido, sobrio, discreto. Non assordante, non rutilante di immagini sovrabbondanti. Ma essenziale.

Un audio-visivo scevro da effetti speciali, finalizzati a frastornare lo spettatore attraverso mezzi che hanno una straordinaria potenza mistificatoria, è costruito per farsi ascoltare e vedere, al buio e in silenzio, affinché ogni elemento possa venir percepito nella sua singolarità timbrica e tonale — o meglio atonale — e al contempo nel suo interagire con tutti gli altri elementi di una costruzione astratta. Calata però sempre in una situazione reale, in un contesto di sentimenti e paesaggi che siano figure dei cambiamenti interiori e sociali.

Tanto è importante il vuoto — creato in maniera da far reagire fra loro elementi diversi — quanto lo è il silenzio, sia nel senso musicale sia nel senso del non dire o dire il meno possibile. I silenzi (come le pause in una partitura) danno respiro e ritmo al film. Ma soprattutto consentono di poter ascoltare e vedere, in uno spaziotempo costruito in condizioni non naturalistiche, ovvero al contrario di quelle “naturali” — che sono invece il regno dell’amalgama indistinto.

Bisogna togliere, sottrarre tutto ciò che disturba l’ascoltare e il vedere; che obnubila l’attenzione acustico-visiva, ottundendola.

Il cinema è occhio e orecchio. Deve quindi tenersi alla larga da qualsiasi funzione esaltatrice o soporifera.

Le immagini devono suscitare di per sé emozioni. Solo in virtù della loro intrinseca potenza. Non per l’esterno ausilio di una musica che, servilmente o spadroneggiando, stia lì a sostenerle.

Tuttavia le immagini son fatte anche di suoni, rumori, silenzi. Ossia di musica, intesa quale loro organizzazione sonora. Suono organizzato dunque, con una precisa funzione narrativa e strutturale nella architettura visiva del film.

Suono organizzato, in diversi modi.

A volte come musica, per così dire, della psiche (o soggettiva) del personaggio: ne Il grido (a esempio) essa dà voce al cupo sentire di Aldo, lungo il suo doloroso peregrinare sotto il segno della perdita di Irma.

Altre volte la musica — come autonoma composizione — si tace del tutto per lunghissime sequenze. Ne L’avventura sparisce, insieme alla scomparsa di Anna. E il silenzio, il vento, il suono del mare dominano.

Oppure si riduce pressoché solo a una musica suonata (dalla Band di Giorgio Gaslini) come intrattenimento durante il lunghissimo party de La notte.

Ma spesso, o quasi sempre, finisce per essere un insieme che comprende la colonna musicale e la articolata totalità di quella sonora, fatta di suoni naturali o artificialmente creati; di voci, dialoghi, grida, rumori scelti e montati come tutto ciò che meglio si adatta alle immagini, sotto la direzione del regista. Il quale orchestra materiali fra loro eterogenei, facendoli reagire mentre si deformano in sede di registrazione e diventano astratti rispetto alla loro provenienza magari naturale.

Si tratta di un vero e proprio esperimento scientifico, estetico e poetico, che recepisce e trasforma — secondo il gusto, la sensibilità, l’originalità espressiva — tutto ciò che proviene dalle neoavanguardie degli Anni Cinquanta e Sessanta. Che a loro volta affondano le radici nelle avanguardie dei primi del Novecento, in particolare nelle concezioni musicali della Scuola rumoristica di Luigi Russolo, o in generale in quelle che rimandano alla atonalità.

Il film, insomma, non egemonizzato da un tema musicale o dai modi compositivi della tonalità, diviene piuttosto un campo visivo-sonoro, secondo una costruzione spazio-temporale in cui interagiscono — per assonanza o dissonanza con le immagini — frammenti musicali, suoni, rumori, come materiali astratti posti in situazioni reali ma non naturalistiche.

Il cinema (come si sa) intrattiene rapporti con molte arti, svariate tecniche, alcune scienze e le più diverse forme espressive. E proprio in tal senso si caratterizza l’intera filmografia di Antonioni.

Ma ogni singolo film nasce e vive prima di tutto quale audiovisivo. Posto perciò sotto il segno del silenzio per poter ascoltare, del buio per poter vedere. Come del resto avviene in genere nelle arti sonore e in quelle visive. E però, spesso molti registi se ne dimenticano o non lo sanno proprio. Perfino alcuni musicisti conoscono certamente benissimo e rispettano le pause, ma non sentono il silenzio.

Anche per questo, ben prima di essere un grande maestro di fama mondiale, Michelangelo Antonioni era famoso per la “stranezza” dei suoi silenzi — nel cinema e nella vita.

Ha scritto, quasi all’inizio della sua carriera, e un po’ alla maniera di Pavese:

«Il mio mestiere è fare il regista ma anche quello di vivere. Dirigendo un film non posso dimenticare tutto questo. Le mie esperienze, le opinioni, gli errori — quello che c’è di più personale — coleranno mio malgrado nel film, se sono sincero».

Nel film, il vedere e il vivere si fondono inscindibilmente. Eppure, una volta realizzato, poco importa quel che l’autore dice di sé e dell’opera, sebbene in essa ci sia e rimanga indelebile la sua impronta, l’immenso lavoro di un che, junghianamente, per individuarsi si mette in forma nell’opera. Sicché egli è sempre autobiografico — in quanto i personaggi sono i suoi alter ego. Ma non lo è mai, o non del tutto, per via del fatto che tra i personaggi e lui c’è di mezzo il film, il modo di formarlo.

Un autore non fa che cercarsi nei suoi film.

Se è tale, non può che sinceramente cercarsi, e cercare la verità nelle sue opere; che perciò son quasi un’unica opera. Infatti, ciascuna comincia dove la precedente finiva.

Ognuna di esse, se non è menzognera — cioè frutto della smisurata possibilità che il cinema ha di mentire –, può essere un modo per tentar di conoscere se stesso e il proprio tempo, oscillante tra il “nuovo” che avanza e il “vecchio” che ancora resiste.

Un film sulla alienazione può essere anche una maniera di combatterla. Così come un altro sulla incomunicabilità serve a comunicarla. A esprimerla, purché dietro ai personaggi venga messo un fondo reale che dia solidità all’opera. Antonioni lo dice espressamente, a proposito di un film non realizzato ossia di quelle “esili figure” che sono Le allegre ragazze del ’24. Infatti il rapporto tra personaggi e paesaggio è di fondamentale importanza.

Talmente importante che una storia vien fuori dai momenti vuoti, osservando un ambiente che poi sarà il contorno o il concreto che pone un freno al girare a vuoto della fantasia o al cinema astratto. Il cinema è astratto, ma va posto in situazioni reali.

Dal buio — soprattutto ne L’eclisse –, dal fermarsi anche dei sentimenti origina una sensazione, prima ancora dell’idea, che intuitivamente definisce già il film.

All’origine di un’opera c’è sempre un concreto elemento esterno. Da cui scaturisce non un concetto, una tesi da dimostrare o da spiegare. Ma un’idea. Una sorta di associazione anomala, inusuale, che all’improvviso si accende come un fiat lux.

Avere un’idea cinematografica vuol dire già vederla e sentirla — come d’altronde si vede un’idea pittorica o si sente un’idea musicale.

Vederla e sentirla nel senso della messa in forma allo stato nascente. Perciò non c’è poi chissà quale differenza tra contenuto e forma. Tra il che cosa si vede e il come lo si vede. Wittgenstein direbbe: bisogna imparare ogni volta che il come e il che cosa sono un intreccio inestricabile. Nell’idea, il contenuto e la forma di una storia nascono simultaneamente. L’inestricabilità del che cosa e del come non riguarda solo l’arte. Anche nell’esperienza comune vediamo sempre il come: la forma delle cose, la loro immagine messa in forma — pure quando semplicemente le percepiamo. Percepire è dare forma, formare, secondo attese o pre-giudizi percettivi.

Ciò vale a maggior ragione per chi per professione dà forma con un linguaggio tutto suo, secondo il proprio sentire poetico, la sua visione del mondo, la cognizione che ne ha o — come direbbe Popper — la sua “conoscenza di sfondo”.

Un regista — nel mestiere e nella vita — non fa che guardare. Questo è un vantaggio e al contempo un pericolo. Consente una fusione completa tra vita e lavoro. Tra realtà (o irrealtà) e cinema. Ma costituisce anche una grande illusione, quale è stata quella che ha caratterizzato una parte non piccola del Neorealismo: il ritenere di poter penetrare i fatti fotografandoli, con l’illusione del reportage. E ciò è tanto più illusorio se si pensa che anche la nostra percezione, tutt’altro che coglierla in “flagrante”, è una messa in forma della cosiddetta realtà. La quale altro non è che la percezione o l’immagine che ne abbiamo. Per questo, sotto un’immagine ve n’è un’altra e un’altra ancora, all’infinito. Ossia, sotto una nostra immagine di ciò che ci sembra reale, ve n’è un’altra più fedele a quella realtà che sempre ci sfugge e sempre cerchiamo. Perciò di continuo scomponiamo qualsiasi immagine che abbiamo della realtà.

Anche la scienza fisica — e non essa soltanto — procede per scomposizione di scomposizioni all’infinito.

Pure nei sentimenti non facciamo che interrogarci sulle immagini che abbiamo degli altri, e di noi in rapporto a loro. Li cerchiamo attraverso un’immagine, che cede il passo sempre a un’altra.

Soprattutto quando una storia finisce, essa continua ad agire in assenza più di quanto non abbia agito in presenza.

Novalis direbbe: «ogni assenza è una presenza», che ingenera un infinito cercare chi non c’è.

Aldo cerca Irma, ne Il grido, perché Irma lo ha lasciato.

Ne L’avventura, l’assenza di Anna agisce entro la storia di Claudia e Sandro. Il quale, per Anna (prima che lei sparisse per sempre), era un’assenza soprattutto quando lui cercava di mostrarsi presente accingendosi a fare l’amore con lei.

Ne la notte, Lidia vede Milano e la festa nella villa dei Gherardini sotto il segno di un’assenza — la morte di Tommaso, che amava — e di una presenza assente — Giovanni, il marito che lei non ama più. Ѐ quell’assenza che unisce (secondo Joyce) i vivi e i morti.

Antonioni dice di essersi interessato fin dall’inizio più dei sentimenti che del fascismo, della guerra o dei problemi sociali, pur non essendo a questi indifferente. Anzi vi partecipò profondamente, sebbene in modo abbastanza solitario.

Il motivo di questo interesse per i sentimenti forse è da ricercare in una sua esperienza sentimentale finita in maniera inesplicabile.

Di questa fine era inutile chiedere ad altri. Poteva chiedere solo a se stesso il perché.

Uno smisurato perché è la cifra di tutti i suoi film, che iniziano quasi sempre con la fine inesplicabile di un amore.

Ma dall’interrogarsi senza posa mai vien fuori una risposta definitiva, bensì una sorta di “giallo alla rovescia”. O per meglio dire una interrogazione, esistenziale e ontologica, inesauribile; un bisogno di trascendere ogni acquietante risposta, poiché vi è sempre una ulteriore domanda, una nuova immagine o una nuova interpretazione della realtà.

Di una realtà fatta di paesaggio e delle sue trasformazioni, inscindibili dai sentimenti. Di una realtà impossibile da cogliere con il reportage o con il fotografismo neorealistico o neoveristico. Ma solo attraverso l’immagine che ne abbiamo. La quale, nel mentre sembra cogliere il reale, lo trasforma dandogli, appunto, forma nel film.

Proprio per questo egli dice: «Cominciando a capire il mondo attraverso l’immagine, capivo l’immagine, la sua forza e il suo mistero».

Si tratta di una vera e propria dichiarazione di poetica, ma pure di metodo e di linguaggio fra di essi distinti quanto interdipendenti. E già presenti con chiarezza fin dal 1939 nelle foto scattate per un film (ancora da fare) sul Po.

Tutto questo ci porta a dire che Antonioni è un maestro. Un grande autore, che dall’inizio alla fine in sé reca una straordinaria coerenza estetica, poetica ed etica nonché filosofica e scientifica, frutto di un profondo sentire e di una sincera ricerca di verità. Che è ciò che accomuna da sempre i grandi — artisti, scienziati o filosofi che siano. Antonioni, sino alla fine dei suoi giorni, si rammaricava sinceramente di non essere un grande del Novecento. Invece, certamente lo è.

Intanto ha influenzato e influenza generazioni di cineasti. Tantissimi vedono e sentono sotto il segno del suo cinema, anche se un maestro resta comunque inimitabile, in qualsiasi campo. Al massimo la sua impronta può suggerire, a quelli disposti a riceverla, la ricerca di una propria via originale, che sta nel profondo del carattere — o della vocazione o del destino — di ognuno. Se gli riesce di conoscerlo vivendo ed esprimendo una propria poetica.

Ma chiediamoci.

Che cos’è mai la poetica, se non il modo originalissimo di porre il proprio sguardo sul mondo esterno e interiore?

Quale più bruciante sconfitta potrebbe mai esperire l’artista, se non quella della ignoranza di sé, ovvero della menzogna con se stesso?

Perciò, se l’artista è sincero, vuol dire che è autobiografico.

E tuttavia — per strano che possa sembrare — se l’artista è tale, quanto più resta sincero con la propria poetica tanto più l’opera sua si fa universale, ossia lontanissima dall’autobiografismo. Perché, non sopportando qualsiasi conoscenza parziale e volendo perciò andare sino in fondo alla propria anima che (come direbbe Eraclito) confini non ha, egli attinge a profondità così inusitate da toccare ciò che, non solo in lui ma in generale, vi è in ognuno.

E può giungere a una tale verità poetica facendo i conti con il destino, ovvero con il proprio carattere che lo spinge verso una inesausta ricerca.

Ricerca che compie avventurandosi, solitario, lontano dal mondo e in mezzo al mondo. Ѐ questa la precondizione per «Fare di un pieno un vuoto».

La precondizione e della poesia e della scienza. Svuotare una situazione, un contesto da rumori frastornanti e dalla congerie indistinta di immagini, per sentire suoni, rumori e vedere immagini che nascano da un’idea.

Per vedere e sentire alla luce di un’idea bisogna essere (come direbbe Godard) un regista cieco o un musicista sordo. Ossia, non schiavo della superficialità delle immagini e dei suoni. Ma capace di creare immagini e suoni a partire da un’idea, nel vuoto e nel silenzio. Al fine di cercare la inesauribile verità. Non di una realtà ultramondana, ma terrena. Fatta di cose, di uomini, di paesaggio che di continuo muta in una commistione inestricabile di passato e presente; in una osmosi perenne tra individuale e sociale. Rovesciando, però, il metodo secondo cui bisognerebbe partire dal contesto economico-sociale, per spiegare l’agire individuale. Invece — pur nella consapevolezza di quanto il contesto storico determini (benché non meccanicisticamente) le umane esistenze — è il sentire e il vedere degli individui, dei personaggi, a dare un volto al paesaggio e a trasformarlo in protagonista. Ogni film di Antonioni ha una città, un luogo, dei luoghi, resi visibili e udibili nel vuoto creato e a partire da chi in profondità li sente e li vede, mentre vi si muove in cerca di sé, sotto il segno di una assenza. Di una storia finita in modo inesplicabile e che spinge sempre ulteriormente a cercare.

Niente vien dato come fatto, di per sé, oggettivo. Tutto implica la presenza di un osservatore. Il quale risulta talmente implicato in ciò che osserva da non dominarlo mai compiutamente, e dall’esterno. In ciò consiste il profondo legame antonioniano anche con la Teoria della relatività e la Meccanica quantistica — la quale, peraltro, quasi nulla ha di “meccanico”.

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