Michelangelo Antonioni oggi

L'asino vola
8 min readMar 29, 2019

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di Nicola Ranieri

Leopardi nel 1827 — quasi trecento anni dopo il De revolutionibus orbium coelestium — con il suo Copernico intendeva portare alle estreme conseguenze la rivoluzione copernicana. Suo bersaglio polemico era chi pensava e viveva come se la terra e l’uomo fossero ancora il centro di un universo creato a posta per noi.

Si potrebbe dire altrettanto per chi, nella seconda metà del Novecento, continuava a pensare come se le rivoluzioni scientifiche, artistiche, filosofiche, tecnologiche e psicologiche, verificatesi durante la prima metà del secolo scorso ma pure sul finire dell’Ottocento, non fossero mai avvenute. Quelle rivoluzioni hanno scardinato per sempre tutte le idee precedenti.

Bastano alcuni esempi per capirne la portata epocale.

L’oggetto fisico (non più sostanzialistico) finisce per essere una costruzione matematica. Tant’è che la materialità delle cose sembra dissolversi in equazioni.

L’osservatore, non solo risulta inscindibile dall’osservato e dagli strumenti di osservazione, ma, insieme a questi, perturba l’osservazione e viene a sua volta modificato a tal punto che la filosofica scissione fra soggetto e oggetto vien meno.

Il tempo e lo spazio perdono la loro assolutezza. Rispetto alla quale, in precedenza, i moti locali erano considerati relativi.

L’esperimento sempre più lo si compie in condizioni artificiali organizzate dallo sperimentatore, secondo procedure e logiche attinenti al quadro teorico entro cui esse nascono e si sviluppano proprio al fine di verificare la teoria stessa.

In arte, sempre meno la forma tende alla figurazione tradizionale, divenendo invece egemoni il segno, l’astratto o l’informe, il materico, il gesto fisico-psichico dell’artista, quasi in un furore distruttivo della forma e con l’intento di tornare alla massa-energia potenziale, in attesa di nuove aggregazioni.

E tutto ciò mentre la psicologia della forma sembra affermare quasi il contrario: che l’atto percettivo è già una messa in forma.

Noi percepiamo le cose strutturandole: le formiamo in base ad attese percettive o anche a pre-giudizi, pre-visioni, abitudini, modelli. In base al nostro modo di guardare, di ascoltare, al nostro punto di vista o alla nostra conoscenza di sfondo, direbbe Karl Popper.

Simili cambiamenti — e altri ancora — Antonioni ha assimilato in modo creativo nel suo cinema.

«Contrariamente a ciò che in genere si crede, l’artista non è mai in anticipo rispetto ai suoi tempi. Ѐ la maggioranza della gente a essere sempre in grande ritardo».

Questa riflessione lapidaria di Edgar Varèse conferma quanto sosteneva Leopardi sulla arretratezza dei molti rispetto al proprio tempo.

Michelangelo Antonioni non ha anticipato i tempi. Ha solo fatto i conti sino in fondo con il suo secolo, mentre veniva sviluppando un suo originalissimo percorso artistico e intellettuale. E la critica era spesso inadeguata a comprenderlo.

«Scienza, tecnica, obiettivo, punto di vista stavano alla base della sua ricerca cinematografica. Dove tecnica e obiettivo sono gli strumenti per l’espressione di un punto di vista, nel contesto scientifico del mondo moderno».

Concordo pienamente con questa impostazione di Giorgio De Vincenti. Aggiungo tuttavia che il riferimento di Antonioni alla scienza (come d’altro canto alla pittura moderna e all’arte contemporanea) è sempre mediato e non diretto. Non rappresenta, infatti, una teoria o un suo particolare aspetto, come (a esempio) fa Kubrick in 2001: Odissea nello spazio, quando, attraverso il ritorno a casa dell’astronauta David (che ha viaggiato quasi alla velocità della luce) e l’incontro con l’altro se stesso vecchissimo sul letto di morte, filma e illustra l’einsteiniano paradosso dei gemelli.

La scienza e l’arte novecentesche agiscono in maniera produttiva entro lo sguardo personalissimo di Antonioni, intento a indagare — mediante gli strumenti cinematografici — i grandi cambiamenti nel paesaggio storico-sociale e negli umani comportamenti; intento, soprattutto, a portare alle estreme conseguenze sia i mutamenti comportamentali sia il continuo rinnovarsi degli orizzonti scientifici e artistici. Con entrambi si misura, ambientando i suoi film là dove in quel momento vi era il clima sociale e culturale più avanzato. Con esso interagiva con occhio attento e critico, al passo con i tempi, ma non per inseguire le mode bensì per demistificarle con la profonda riflessione sugli altrui comportamenti e sui propri.

Perciò è attuale oggi. Non per aver anticipato i tempi. Ma perché, quello che il suo cinema portava alle estreme conseguenze, oggi è giunto — di fatto — alle estreme conseguenze. A tal proposito sembrano quasi “profetiche” le sue parole su Zabriskie Point.

«Il finale — diceva — può apparire delirante. Ma il delirio di oggi potrebbe essere la verità di domani».

Lui indagava, negli anni del boom economico, la cosiddetta malattia dei sentimenti poiché li vedeva diventare una sorta di pubbliche relazioni.

Intanto andava man mano problematizzando la visione, il vedere stesso e i professionisti del vedere: il fotografo, il reporter, il regista. Scorgeva con discernimento quel che era sotto gli occhi di tutti, ma che quasi nessuno vedeva in profondità: ossia la enorme possibilità del cinema di mentire.

Appunto per questo era sincero, ancor più rigoroso con se stesso e la propria arte, praticandola con la matura consapevolezza delle più moderne concezioni del tempo, dello spaziotempo, dell’indissolubile rapporto fra osservatore, strumento, osservato; della relatività sia galileiana sia einsteiniana. Non a caso Roland Barthes lo definisce un “viaggiatore einsteiniano” e Lorenzo Cuccu parla del suo “connaturato relativismo”.

Antonioni a tal punto ha assimilato la concezione relativistica da essere estremamente consapevole di quello che Einstein amava ripetere: che della relatività è sbagliato solo il nome, se con esso si intende uno sconfinare nel soggettivismo senza riferimento alcuno.

Relatività significa, invece, relativo a un riferimento dato. Che per Galilei e Newton sono il tempo e lo spazio assoluti, e per Einstein è la velocità della luce: una velocità assunta come costante fisica universale, indipendente dal sistema di riferimento. Proprio per questo i diversi sistemi sono relativi rispetto ad essa come riferimento dato, ovvero con una precisa velocità limite.

Del resto, nemmeno il principio di indeterminazione di Heisenberg autorizza l’indeterminismo, perché anche l’indeterminazione ha bisogno di venir determinata, sia pure in termini probabilistici.

Il “connaturato relativismo” di Antonioni, appunto perché rifiuta sia il relativismo sia l’indeterminismo senza fondamenti, può agire entro una visione problematizzata, estraniata, capace di vedere se stessa con una lucidità talmente estrema da smantellare ogni acquietarsi in una immagine definitiva, poiché ve ne è sempre un’altra e un’altra ancora fino a quella immagine della realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai.

Si tratta di una inesauribile ricerca, condotta secondo un principio — fare di un pieno un vuoto — non del tutto diverso da quello scientifico.

In ciò consiste il metodo, ma anche lo stile di Antonioni. Che, oltrepassando ogni immagine che si chiuda in una indubitabile certezza, analizza — nel vuoto — i cambiamenti, i sentimenti, i comportamenti e la loro inadeguatezza rispetto al continuo mutare. Li analizza in un vuoto non già esistenziale ma sperimentale. Quello del laboratorio. Ove non vi sia il disturbo del rumore, e l’esperimento possa compiersi.

L’esperimento però, mentre in scienza dà la ripetibile conferma sperimentale di una teoria, in arte mostra — non dimostra — ciò che l’artista vede e sente in modo irrepetibile.

Fare di un pieno un vuoto. Questa cifra profonda dell’arte di Antonioni trova le sue radici in quel metodo galileiano che, per indagarli, difalca i fenomeni dal loro stato ordinario fino a vederli come eccezioni, rispetto alla regola del loro comportamento nel vuoto. Vuoto in cui, tolti dal pieno, difalcati, sottratti, tagliati dall’amalgama che impedisce di isolarli, essi divengono antinaturalisticamente visibili nel loro reagire e interagire, in condizioni artificiali organizzate dallo sperimentatore.

Ѐ questa la “nuova percezione” di cui parla il regista. Il quale, con il distacco e la esternità della camera, osserva. Sapendo, però, di essere un osservatore implicato nell’osservazione, insieme alla “camera” — lo strumento — che vede e perturba anche ciò che egli non vede.

Ma la “nuova percezione”, affinché sia tale, richiede una spiccata attitudine. Quella di creare il vuoto: le condizioni artificiali in situazioni reali.

Era proverbiale il silenzio di Antonioni (anche prima della sua malattia): una quasi innata propensione ad astrarsi dal disturbante rumore. Ma più che di un atteggiamento di freddo distacco psicologico, si trattava del carattere di un uomo capace di stare nel mondo e fuori dal mondo, con un occhio rivolto all’esterno e uno all’interno; o di rimanere, magari, a fissare a lungo le cose e persino un muro finché sembrava aprirsi — pare sia nata così l’idea de Il grido.

Si trattava della capacità di sentire — nel vuoto — i suoni e i rumori a partire dal silenzio (come nel famosissimo minuto di silenzio de L’eclisse). Di vedere la luce in relazione al buio, o la policromia e i rapporti tra i colori a partire dalla monocromia.

Silenzio, buio, luce monocromatica — quale è quella quantificabile di un laser il cui colore è di una precisa lunghezza d’onda — costituiscono il riferimento dato, a partire dal quale è possibile distinguere e far quindi interagire i vari elementi visivi e sonori, ciascuno nella sua singolarità e nella relazione con l’insieme, entro un vero e proprio esperimento visivo e sonoro. Del resto, il cinema — innanzitutto e dopotutto — è un audiovisivo.

Per questa spiccata capacità antonioniana di stare nel mondo e fuori dal mondo, ossia di creare condizioni di possibilità per vederlo e sentirlo mentre ne svuota la vistosa apparenza; appunto per questo, si può parlare di sospensione contemplativa. O di epifania. O anche di metafisica. Magari, in qualche modo, simile a quella della pittura di De Chirico. Infatti, pur nella fondamentale differenza tra il fissarsi del tempo nell’istante sospeso dell’immagine pittorica e la durata temporale nell’immagine filmica, nell’una e nell’altra vi circola quel senso di attesa misteriosa che lo stesso procedimento di sospensione proietta sul visibile pittorico e sul visibile e udibile filmici, allorquando gli elementi visivi e sonori vengono tolti dal flusso dell’azione o dall’amalgama indistinto del comune guardare-udire.

In tale “nuova percezione”, l’antinaturalismo fa reagire tra loro elementi nel vuoto, astratti e rescissi dal frastornante pieno, che tutto confonde e nasconde. Perciò si può parlare di immagine colta nella sua processualità, nel suo poietico farsi e divenire autoriflessivo.

Tanto riflessivo su se stesso da far esplodere pure tutte le possibili menzogne che il cinema offre, costruendole attraverso i suoi potenti mezzi in continua evoluzione. E capaci come sono di riprodurre e potenziare a dismisura il frastornante pieno dell’amalgama indistinto entro cui siamo immersi.

Fin dall’inizio Antonioni, sempre con estremo rigore e sincerità con se stesso, ha cercato di capire il mondo attraverso l’immagine. Riflettendo, quindi, sulla forza dell’immagine e sul suo mistero.

Lui stesso ha scritto:

«La realtà ci sfugge, mente di continuo. Quando crediamo di averla raggiunta, la situazione è già un’altra. Io diffido di ciò che vedo, di ciò che un’immagine ci mostra, perché “immagino” ciò che c’è al di là. E ciò che c’è dietro un’immagine non si sa».

Non si sa, perché, invece di essere qualcosa, essa diviene nella durata, nel tempo che tutto muta in modo incessante.

Cosicché, nel mistero dell’immagine vi è l’apparire del mondo, il suo enigma — come quello della luce bianca che tutti i colori contiene. Enigma che, mentre sembra svelarsi, si vela di nuovo. E ci spinge, perciò, verso un’altra immagine, in una continua ricerca di senso. Che non c’è — se pensiamo di intenderlo come essere, da afferrare stabilmente e possedere quasi fosse un avere.

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