Moravia e il canone

L'asino vola
21 min readJun 10, 2019

di Gigi Livio

Dire che cosa sia il canone è apparentemente facile. Ecco, dunque: mutano i tempi, mutano i gusti e i lettori –limitiamoci, dato l’oggetto del discorso, al caso della letteratura- si volgono verso autori nuovi e diversi. Questa spiegazione, che pur contiene qualcosa di vero, risulta però semplicistica se si vuole approfondire. Nello stabilire un canone, infatti, giocano almeno due fattori strettamente intrecciati: da una parte un elemento strutturale e cioè gli interessi di tutte le forme del capitalismo in cui si articola l’industria culturale –case cinematografiche, imprese teatrali, editoria, eccetera- mentre, dall’altra, ed ecco il secondo elemento strettamente legato al primo, una questione, solo apparentemente difficile da analizzare, come è sempre nel caso degli effetti dell’ideologia e cioè il mutamento dei gusti che serve proprio a avallare quegli interessi.

Il gusto, infatti, non è qualcosa di neutro e non è affatto vero che dei gusti non si possa e debba discutere. In un suo passo Adorno scrive a tutte lettere: de gustibus est disputandum. E dunque, se noi astraiamo dai gusti che più direttamente riguardano la nostra parte animale -per esempio la gola, è chiaro infatti che sui gusti nel cibo e nelle bevande non est disputandum- e passiamo alla parte spirituale della persona là dove, tra molto altro, c’è anche un’idea di arte, constatiamo subito che non è difficile dar ragione a Adorno. E questo per un semplice motivo –e limitiamoci anche in questo caso all’età moderna e contemporanea-: l’industria culturale fa, per dirla in modo brutale, gli affari suoi e cioè quelli, poiché siamo in età capitalistica, del potere capitalistico di cui gli editori –sempre limitandoci al nostro caso-, nel campo della cultura e dell’arte, e fatte salve le piccole eccezioni, sono nient’altro che la longa manus. E pertanto il maggior interesse di questi è quello di mantenere e, quando possibile, rafforzare il consenso cercando di influenzare in tutti i modi le coscienze degli uomini alienati, alienati dal proprio lavoro, dalle proprie idee, dall’umano che hanno in sé e, appunto e infine, dalla propria coscienza e, dunque, da se stessi.

Quando Moravia muore, nel settembre del 1990, l’arte moderna è ormai decisamente entrata in un periodo di crisi: nel 1980 è uscito, e ha trionfato in tutto il mondo occidentale, Il nome della rosa di Eco cui l’autore aggiungerà, nella riedizione di tre anni dopo, le Postille a “Il nome della rosa”, vero e proprio manifesto se non dell’arte almeno della letteratura postmoderna, dove Eco conduce un’assai abile e sottile abiura alla sua partecipazione al gruppo 63 e, di conseguenza, all’avanguardia, cercando di giustificare come qualcosa di simile a un’adesione ai tempi mutati quello che qualcuno, sospettoso, potrebbe invece giudicare un tradimento e cioè un cedimento ai dettami dell’industria della cultura. E, per ottenere questo scopo, il filosofo-semiologo, ora anche narratore, si rifà proprio a quel momento della nostra storia in cui l’avanguardia italiana era usa fare il punto sulla situazione, sullo stato dell’arte, nei ben noti convegni palermitani e, in particolare, si richiama a quello del 1965 dedicato al Romanzo sperimentale e cita il discorso che aveva fatto dove, tra l’altro, si dice che l’

“avanguardia stava diventando tradizione, ciò che era dissonante qualche anno prima diventava miele per le orecchie (o per gli occhi)”.

E tirava le conclusioni del suo argomentare così scrivendo:

l’“impressione che avevamo (chi? lui e Barilli, forse, a giudicare dal contesto) provato la sera prima assistendo a un curioso collage cinematografico di Baruchello e Grifi, Verifica incerta, una storia fatta con spezzoni di storie, anzi di situazioni standard, di topoi, del cinema commerciale”

per poi chiudere definitivamente il suo discorso con una notazione su come il pubblico avesse

“reagito con maggior piacere […] nei punti in cui, sino a pochi anni fa, avrebbe reagito dando segni di scandalo, e cioè dove le conseguenze logiche e temporali dell’azione tradizionale venivano eluse e le sue attese apparivano violentemente frustrate”.

In quello stesso torno di tempo anch’io ho assistito, all’Unione culturale di Torino, a una proiezione di Verifica incerta e le mie impressioni sono state diverse e addirittura opposte a quelle di Eco e ricordo bene che diverse persone se ne andarono durante la proiezione. Ora io non so di fronte a quale pubblico venne proiettato il film a Palermo ma so bene che indagare il tipo di pubblico è fondamentale per comprenderne le reazioni. È cosa che era molto presente al grande attore otto-novecentesco. Farò un esempio: la Duse, sempre attenta a organizzare la sua fama insieme ai suoi guadagni, strettamente legati l’una agli altri come è ovvio, nel 1891 aveva in repertorio due novità: La moglie ideale di Praga e Casa di bambola di Ibsen. Accorta come sempre, inscenò la prima a Torino e la seconda, immediatamente dopo, a Milano conscia com’era che il pubblico torinese del tempo avrebbe ben accolto la moderata audacia della commedia praghiana in cui una moglie, già “ideale”, lo diviene sempre più quando l’amante la abbandona mentre si sarebbe ribellato di fronte alla crudezza dell’opera di Ibsen. E, come sempre, o almeno spesso prima del periodo dannunziano, l’attrice ebbe ragione.

Le reazioni del pubblico palermitano di quel 1965, pertanto, non fanno testo. Ma, ovviamente, c’è ben altro da notare e da contrapporre a questa affermazione di Eco che, come vedremo tra poco, gli permette di trarre una ben precisa conclusione. Perché se ora passiamo al teatro vediamo come l’anno precedente Carmelo Bene avesse inscenato la sua prima Salomè che, ovviamente, destò scandalo per molti motivi e, non ultimo, per la frantumazione e la nullificazione della trama wildiana. Pochi anni dopo, sempre per esemplificare schematicamente e per campioni, Leo De Berardinis e Perla Peragallo aprirono la fase del loro teatro intitolata “Il teatro di Marigliano” con un ‘O Zappatore (1971) che venne accolto niente affatto tranquillamente dal pubblico per la sua forza dissacratoria nei confronti dei miti consolatori della sceneggiata napoletana.

Ma che dire poi, ancora oggi, del fatto che La casa di Jack di Lars von Trier, su cui ho già pubblicato alcuni appunti, viene disertato dal pubblico ‘normale’ dei cinematografi malgrado la fama di film osée che l’ha preceduto? Ancora oggi, dunque, qualsiasi opera che intenda contraddire l’ideologia corrente dell’arte del nostro tempo, e che quindi non possa che essere rubricata come d’avanguardia, perché il nucleo duro dell’avanguardia è proprio costituito da questa opposizione, viene rifiutata e niente affatto accettata dal pubblico “con maggior piacere” come vorrebbe Eco. Che, da parte sua, conclude il ragionamento esemplarmente pro domo sua:

La stessa dicotomia tra ordine e disordine, tra opera di consumo e opera di provocazione, pur non perdendo di validità, andrà riesaminata forse in un’altra prospettiva: cioè, credo che sarà possibile trovare elementi di rottura e contestazione in opere che apparentemente si prestano ad un facile consumo, ed accorgersi al contrario che certe opere, che appaiono, come provocatorie e fanno ancora saltare sulla sedia il pubblico, non contestano nulla.

Proprio pro domo sua: Il nome della rosa, quindici anni prima, è lì, già bello e servito su un piatto d’argento. Ovviamente con molta sottigliezza, se non proprio con garbo.

Mi sono dilungato, anche se spero in modo controllato, su questo scritto di Eco perché mi pare esemplare di certo pensiero postmoderno sull’arte e cioè di quell’aspetto che insieme registra e promuove –com’è il caso della Condizione postmoderna di Lyotard, 1979- il mutamento della sensibilità nei confronti del mondo, della cultura e dell’arte. Infatti è certamente da tenere presente che il cambio di paradigma del pensiero agente che avviene nel mondo occidentale negli anni settanta/ottanta, e che perdura tutt’ora, provoca nell’arte un ventaglio di posizioni varie e variate di cui sarebbe sbagliato non tenere conto. Da questo punto di vista mi sembra importante un’osservazione di Annalisa Sacchi che trovo nel suo recente Il posto del re:

[…] a differenza dell’epoca modernista, è oggi impossibile guardare alla scena dell’arte teatrale senza registrare la radicale differenziazione che la abita, la polverizzazione in una galassia plurale di voci di quanto nel modernismo confluiva in un canale comune e sotto la rubrica di un “movimento” o ismo. Viene cioè completamente meno la nozione di un universo collettivo, capace di muovere adesioni o scomuniche: non esiste più il programma di un Naturalismo, di un Simbolismo, di un Costruttivismo… Se questo, da una parte, autorizza l’artista a dichiararsi libero di intraprendere una via radicalmente personale nella costellazione plurale delle possibilità (sovrapponendole, intrecciandole, facendole entrare in collisione), è d’altro canto assai più arduo, per l’analisi che s’appunta sui fenomeni dell’oggi, evidenziare alcune direttrici di senso che non risultino occasionali.

Se questo è un richiamo alla necessità di un ben preciso rigore critico, che la studiosa fa prima di tutto a se stessa al momento di intraprendere l’analisi dei testi spettacolari che costituiscono l’oggetto della sua esegesi, è pur vero però che questa attenzione a una critica fondata su basi rigorose può essere estesa a qualsiasi indagatore di cose della contemporaneità. Non senza notare, però, che è di postmoderno che stiamo parlando e che, pertanto, lo studioso deve avere ben presente il fatto che avventurarsi nell’indagine di fenomeni artistici dei nostri giorni non può prescindere da una precisa coscienza della realtà delle cose e contemporaneamente sapere che l’altra faccia della medaglia è costituita da ciò che così chiaramente, e anche brutalmente –ma la verità è spesso di necessità brutale-, viene messa in luce da Jameson nel suo Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, che è del 1984 e cioè di un anno dopo le Postille di Eco:

Ora è il momento di ricordare al lettore il fatto evidente che tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo: in questo senso, come per l’intera storia di classe, l’altra faccia della cultura è sangue, morte, tortura e orrore.

Il gioco delle date non è certamente, infatti non lo è mai, casuale: più o meno nello stesso anno in cui Eco invita alla riscoperta della “piacevolezza”, e altri teorici italici a lasciarsi andare agli eventi e non porsi tanti problemi rifiutando il conflitto e lo scontro che porterebbero soltanto a nuovi totalitarismi culturali oltreché politici, che è poi la stessa cosa come ben si vede, lo studioso statunitense svela con durezza il fondo vero delle cose. Ed è proprio, invece, mettendo in conflitto e facendo scontrare le due ideologie che si può giungere a una visione quanto più possibile reale dei fatti artistici.

E allora, e dunque, senza ulteriori indugi, si potrà mettere a frutto il monito di Annalisa Sacchi e cercare di distinguere tra una poetica e un’altra, tra un’opera e un’altra. E se si possono riscontrare visioni dell’arte profonde e serie che affrontano le varie problematiche tipiche di questi anni, come mostrano all’esegesi attenta della studiosa appena citata i suoi oggetti di indagine, bisognerà però rendersi conto che altre posizioni sono assai più superficiali anche se affondano la loro ragione d’essere nella realtà sottostante a tutto ciò che succede oggi che è, in fondo, come sempre nell’epoca capitalistica, ma più di sempre nient’altro che la cruda realtà del mercato.

E questo è il caso, a mio modo di vedere, dell’estetica-poetica di Eco, appunto, priva com’è di qualsiasi valore euristico e speculativo che non sia quello dell’adeguamento dell’arte ai tempi, allo spirito del tempo che richiede ora, a differenza di pochi anni prima, di velare, di rendere piacevole e “digestivo” ciò che prima era deputato a svelare e a far risultare indigesto questo svelamento al punto da provocare un rifiuto di quell’arte da parte del lettore, dello spettatore, eccetera e cioè del “fruitore” che non intende più essere spinto a mettere in crisi i propri gusti e, infine, la propria tranquillità di vivere senza traumi ma pretende, anzi, di venire sollecitato a goderseli, quei gusti, senza che gli venga continuamente messa sotto gli occhi la verità che consiste poi nel mostrargli la realtà profonda di quei “suoi” gusti che suoi non sono affatto ma sono invece quelli dell’industria culturale inoculati in lui con artifici sottili per renderlo un consumatore soddisfatto e sereno dei propri prodotti. Altra cosa è invece, come tutti dovrebbero vedere, vivere l’attuale situazione –che possiamo ancora definire postmoderna mettendo da parte le elucubrazioni di chi vorrebbe che quell’epoca fosse finita e cerca anche etichette diverse, e abbastanza ridicole, per definire un nuovo che non esiste perché non può esistere finché rimarranno immutate le basi profonde della società attuale- con strazio e con il desiderio di capire il come e il perché di questo strazio il che, come ben si vede, è ancora una volta l’opposto del “piacevole”, cito sempre dalle Postille, echiano.

Moravia, e dall’intervista pubblicata nel numero scorso di questa rivista, risulta subito evidente, è tutt’altro tipo di scrittore. Ma per marcare la differenza con l’ultimo tempo in cui gli è toccato vivere sorge ancora un’altra questione. Che è poi questa: l’avanguardia intende, tra l’altro, ed è ciò che qui ci interessa, liquidare il romanzo psicologistico borghese per sostituirlo con una narrazione oggettiva dove semmai è presente la psicologia del profondo, vero tormento dell’uomo dai tempi di Eschilo ma ancor più straziante nella modernità. E, infatti, e sempre per procedere per esempi assai pregnanti, mentre il successivo Il nome della Rosa si può definire un giallo psicologico, al contrario i romanzi di Sanguineti seguono tutt’altra strada; e, dunque, e per portare un campione insieme evidente e esemplare, trascrivo qui poche righe della conclusione del primo capitolo, o “numero” diceva l’autore, del Giuoco dell’Oca che è del 1967:

Ma la bambina, intanto, giuoca lì con la palla, fuori. Arrivano i colpi della palla, dal corridoio. La sento che batte contro la parete della bara, la palla, che cade, che rimbalza. Poi sento la bambina che grida. Giro sempre tutta la faccia, guardo nella fessura. Vedo la bambina, la palla, i visitatori che passano. Vedo anche i giardini, là in fondo, con i viali alberati, con i padiglioni. Tocco la bambina di legno, con le dita, come si tocca una bambola. Poi tocco quella ragazza rosa di legno. Sento le sue lacrime, dure, come i nodi duri del legno, lì, che sporgono.

Mi sembra inutile sottolineare come questa trascrizione di un sogno si posi tutta su dati oggettivi dove il protagonista e gli altri personaggi, che sono “come ombre un po’ spesse, di cm. 5 circa”, mai mostrano i propri pensieri ma soltanto le proiezioni inconsce del sogno riportate dall’autore con lucida oggettività nel cercare la verità del reale attraverso l’onirico che altro non è che realtà trasposta su un diverso piano e dunque mascherata, come è freudianamente corretto, e pertanto una sorta di metafora se pure assai concreta. Per parte sua Moravia afferma:

“Quando non c’è la metafora [l’opera d’arte] non è realistica ed è irreale”.

E così, con questa prima citazione tratta dall’intervista, siamo ormai giunti al cuore della questione: infatti, tutto il dire di Moravia è incentrato sul problema del realismo, problema che è alla base di tantissima meditazione dell’estetica otto e novecentesca e di altrettante moltissime opere d’arte di quel periodo storico come certamente lo è il Giuoco sanguinetiano appena citato.

Per Moravia, dunque, il romanziere moderno non può essere che uno scrittore che riflette continuamente su ciò che sta scrivendo:

“Il realismo come tale, nel senso naturalistico, manca di una dimensione e questa dimensione, nell’arte moderna, viene da una specie di, come dire, dimensione critica”.

E qui l’autore degli Indifferenti, con il ben noto stile diretto e con la notevole capacità di schematizzare i problemi senza rinunciare alla complessità degli stessi, avvisa immediatamente chi leggerà le sue parole che il realismo di cui sta parlando nulla ha a che fare con quello di radice ottocentesca che confluirà nel naturalismo. E, infatti, specifica poco dopo:

“Nel teatro di Pirandello […] incontriamo la crisi del realismo e quindi sdoppiamento del teatro nel teatro. La crisi del realismo […] è la crisi del concetto di forma che è venuta con la crisi del personaggio”.

Egli, che fu molto attento alla forma sia nel senso di struttura che di stile, tornerò su questo argomento, può sottolineare quello che possiamo considerare il sostrato profondo di tutta l’arte moderna:

“[…] il vero argomento è in fondo il mezzo espressivo: come fare a rappresentare il reale”;

il corsivo è mio a sottolineare come anche in questo caso Moravia metta a fuoco con precisione quello che è un tormento costante dell’artista della modernità. La “crisi della rappresentazione realistica”, continua lo scrittore, è dovuta alla crisi del rapporto dell’uomo moderno con il reale come succede, egli chiarisce, nel suo romanzo La noia dove

“la crisi del rapporto con il reale è [espressa] sotto tre forme. Come pittore il protagonista non ha più rapporti con la materia; come individuo e uomo egli è un soggetto che non ha più rapporti con l’oggetto e come amante è un uomo che non ha più rapporti con la donna”.

Questa impostazione, che potremmo definire di poetica letterario-filosofica, precipita, in senso chimico, in uno stile scabro, acre e crudo che è probabilmente ciò che caratterizza il lavoro di Moravia e lo pone su un piano analogo a chi, nello stesso periodo, si propone lo stesso obiettivo nelle proprie opere quale che sia il loro genere e, ovviamente, il loro valore (Giacometti, Beckett…).

Ma voglio subito, prima di proseguire in questa bozza di analisi, citare un brano della Noia in cui il protagonista cede all’invito della madre, che lo vorrebbe persona ‘normale’, a dedicarsi a quelli che nemmeno cinquant’anni prima venivano ancora definiti, con tono ammiccante e un po’ canaille, gli “amori ancillari” e che ora svelano, sotto la penna crudele di Moravia, tutto il loro squallore di rapporti alienati tra persone alienate:

Rita [la cameriera della madre], intanto, era venuta a mettersi contro il letto […]. Stesi allora una mano, afferrai la mano che lei lasciava pendere lungo il fianco e tirai al modo che si tira la cavezza ad una bestia non tanto recalcitrante quanto timida; e sentii che tutta la persona veniva dietro a quella mano. Guidai la mano verso il centro del mio corpo e, appena fui sicuro che si era richiusa, la lasciai. Adesso Rita stava immobile, un po’ chinata in avanti, il braccio allungato sopra di me, un rossore acceso sotto i due cerchi neri degli occhiali. Poi disse, stranamente, con voce lenta e compiaciuta: “Che schifo;” e io mi meravigliai perché erano le medesime parole che avrei detto io stesso, se avessi voluto esprimere il sentimento misto di ripugnanza e di eccitazione che provavo in quel momento.

Trassi un sospiro profondo e domandai alla fine, senza guardarla, con voce bassa: “Perché sei venuta qui?”

Alzò le spalle e non disse niente; pareva incapace di parlare.

“Per togliermi la macchia? Ebbene va’ a toglierla, che aspetti?”

C’è un’osservazione di Sanguineti, nel suo libro moraviano la cui prima edizione è del 1962, di due anni successiva a quella della Noia, che mi sembra chiarisca esemplarmente uno degli elementi fondanti che fanno del romanzo un capolavoro:

“[…] la novità vera, nei confronti del Moravia che conosciamo, è offerta ormai dal fatto, che sesso e denaro non si pongono più sopra un medesimo piano, secondo l’eterna coppia classica di Freud e di Marx, ma che infine anche il sesso è riconosciuto come figura o, di volta in volta, strumento del denaro”.

Il sesso, cioè, è ormai diventato direttamente, e cioè senza alcuna mediazione, merce come ogni altra cosa nell’epoca del mercato onnivoro.

Nelle righe riportate, Sanguineti –già pienamente impegnato nella battaglia avanguardistica: il suo Laborintus, che segna, potremmo dire, il momento dell’accensione delle polveri, è del 1956 e il libro da cui ho citato, che respira a pieni polmoni in quell’atmosfera infuocata, precede di un anno la costituzione del Gruppo 63- si riferisce in modo specifico alla storia, che costituisce il nerbo della trama del romanzo, del protagonista con Cecilia, ma funziona però benissimo anche per indagare il senso profondo del brano da me riportato. Lì infatti il risultato realistico che l’indagine sanguinetiana sviscera è ottenuto da Moravia grazie a uno stile che è acre, appunto, perché infastidisce immediatamente l’orecchio del lettore, il suo gusto basato su un tempo lungo di finzioni estetistiche o anche soltanto velatamente estetizzanti, e questa acredine serve proprio a svelare l’inconsistenza spirituale e morale della madre del ricco borghese oltre a quella del figlio e, insieme, anche quella della cameriera costretta dalla sua condizione servile a sottomettersi. Non senza un’ombra di masochistico piacere, e qui si rivela la dialettica moraviana, se pure mista a ribrezzo per se stessa e per l’altro; e la tirannica madre dell’uomo cui ha appena procurato godimento è, ovviamente, compresa in questo disprezzo, termine tematico per Moravia che lo aveva già scelto come titolo di un suo romanzo precedente.

Ma non è tutto. Infatti, mi sembra interessante notare che l’unica volta, in questo momento della narrazione, in cui il romanziere accenna alla psicologia del protagonista all’interno di una scrittura soltanto referenziale, serva proprio a mettere in luce questa dialettica: si tratta cioè di un “sentimento misto di ripugnanza e eccitazione” condensato in quel “Che schifo” che è poi la cifra segreta, in quanto mai svelata, di ogni rapporto sessuale nell’epoca dell’alienazione totale della persona umana: qui nessuno si salva e il personaggio positivo, tipico dell’arte naturalistica, neanche s’intravvede mentre questa tabula rasa di ogni forma di sentimentalismo è restituita sulla pagina grazie a uno stile ancora una volta aspro e crudo che non prevede –perché non può prevederli giusta la poetica realistica dell’autore- fronzoli e abbellimenti di sorta.

Balza agli occhi, inoltre, in questa scena, un elemento ulteriore, decisamente utile all’esegeta e sempre legato, legatissimo, allo stile, cui posso qui soltanto accennare e non approfondire perché ci vorrebbe ben altro agio. Moravia è conosciuto come scrittore erotico, ed egli stesso indulse a questa definizione soprattutto nell’ultima parte della sua vita: ebbene qui e in molte altre parti di questo romanzo, invece, si rivela uno scrittore pornografico. Non si tratta di una distinzione così sottile come potrebbe sembrare a prima vista ma, al contrario, di una decisa opposizione che può essere sintetizzata quasi in una solo apparente formula: da una parte l’erotismo vela mentre dall’altra la pornografia svela. Nell’accezione che io qui propongo, e che non è certo solamente mia, quello erotico è un discorso che si basa su un’allusione tematica e pertanto continua e continuata mentre quello pornografico esclude ogni e qualsiasi metafora per restituire il reale nella sua assoluta e fredda oggettività, ancora una volta scabra, acre e cruda, e dunque stracciante il velo di quell’allusione di cui ho detto e così portando in superficie qualcosa che non si potrebbe svelare e illuminandolo di una luce impietosa.

Sgombriamo però il campo da un equivoco che potrebbe ingenerare il termine pornografia; infatti, il lemma etimologicamente significa “scrivere intorno, o della, prostituzione” e viene normalmente usato come rappresentazione di cose oscene, eccetera; ma se pensiamo al Benjamin baudelairiano che afferma la prostituta essere, nell’epoca di cui egli si sta occupando, la perfetta incarnazione della merce, siamo allora in grado di ampliare il significato del termine a designare, insieme a ciò che indica l’etimologia, anche tutto ciò che, rinunciando programmaticamente all’alludere velante, ci pone di fronte alle cose così come sono, nude e crude. Per portare un solo esempio, e sempre procedendo nel discorso in estrema sintesi: quando in Finale di partita Clov dice a Hamm: “Ci sono tante cose terribili” e Hamm risponde: “No, no, non ce ne sono più tante” ci si rende conto che seguendo il processo della pornografia e cioè, lo ripeto per chiarezza, presentando le cose per quello che sono senza alcun possibile abbellimento velante, queste due battute tematiche del testo beckettiano, possono essere definite, nella prospettiva che sto esaminando, pornografiche, atte cioè a svelare con estrema crudezza la miseria dell’animo dell’uomo nella contemporaneità in modo diretto, chiaro e netto, e, ancora una volta, crudo.

A questo punto penso sia chiaro che, in questa accezione, pornografia coincide con realismo; e il realismo della scena riportata è evidente proprio grazie alla crudezza dello stile che non a caso diventa crudeltà sadica vera e propria, come non potrebbe non essere se è vero, ed è certamente vero, che la grandezza filosofica di Sade sta proprio nell’aver saputo svelare fino in fondo, e fino all’iperbole, quale sia l’essenza reale del possesso sessuale, come di qualsiasi altra forma di possesso, nell’epoca della borghesia ormai alle soglie di divenire trionfante: questo sadismo si rivela apertis verbis, mentre prima è implicitamente ovvio, nella battuta finale in cui la scusa per cui la cameriera è andata nella camera del figlio della padrona, e cioè quella di togliere una macchia ai suoi pantaloni, si rivela come pura ipocrisia e svela ab imis il meccanismo che presiede alla brutale realtà dei rapporti sessuali tra padrone e servo. Dove il padrone, però, sente per i suoi atti lo stesso “schifo” pur essendo anche “eccitato” mentre il servo-prostituta è, insieme a lui, anche “compiaciuta”. E qui il sadismo mostra i suoi riflessi, solo apparentemente opposti e contrari, nel masochismo. Perché, se la donna si compiace, “stranamente” secondo Dino, il padrone, è lui la voce narrante, della sua riduzione a cosa, a puro strumento atto a procurare piacere, Dino, da parte sua, che ha appena messo in opera i suoi impulsi sadici esplicitandoli, è ora però avvolto in quello “schifo” che proprio l’oggetto, atto a soddisfare la sua eccitazione, ha portato alla luce cruda della verità: infatti il brano di narrazione che ho prima riportato si conclude, dopo la battuta sadica, così:

La vidi trasalire, come se l’avessi percossa in faccia, aprire con riluttanza le dita, una dopo l’altra, quindi uscire dal mio sguardo.

Certo però che questo “schifo” di se stesso, e della situazione in cui si trova non certo senza l’intervento della propria volontà, che prova Dino assume una certa sfumatura di autocompiacimento come se egli si crogiolasse nella sua impotenza morale. E, se compare qui una venatura moralistica, non dobbiamo certo stupirci: infatti, se torniamo al libro di Sanguineti, di cui dicevo prima, e facciamo nostra la sua conclusione esegetica e cioè quella per cui il significato profondo dell’arte di Moravia è costituito dal suo essere un “borghese onesto”, onesto fino al punto di non poter più accettare

“di conservare, in sé e negli altri, a qualunque prezzo, l’alienazione vitale che infine lo ha toccato nella carne”,

una vaga coloritura di moralismo nei sentimenti di Dino non può essere del tutto esclusa per quell’appartenenza di classe che, se pure onestamente contemplata, rimane comunque sempre all’interno di una visione del mondo che non prevede, perché non può prevedere, il crudo realismo nella sua forma più alta dove non c’è più spazio per il moralismo perché la desertificazione etica dell’uomo del nostro tempo non concede alcuna via di scampo. Ed è proprio dalla visione netta e senza consolazioni di sorta, e il moralismo è una di queste, del fondo, apparentemente senza fondo e immerso nell’oscurità, di quel pozzo di desolazione che può scaturire una tensione a risalirne le pareti scivolose e impervie; ma Moravia non è Beckett, o Joyce, il va sans dire

D’altro canto il piacere nella sottomissione della cameriera e quell’altro vago sentimento che si può definire di una sottile sensazione di piacere misto a vergogna che prova Dino, e che è anche questo un piacere di sottomissione poiché egli è andato contro i suoi principi etici e si è sottomesso, per così dire, ai propri impulsi cedendo al piacere del momento, costituiscono anch’essi un elemento del realismo. Infatti, lasciando stare le implicazioni psicanalitiche del sado-masochismo, che qui sono certamente presenti, dal punto di vista della visione realistica delle cose il testo di Moravia in qualche modo registra in metafora ciò che sta succedendo nella società italiana e mondiale di quegli anni, quelli del boom economico, e cioè il fatto che il capitalismo vuole le persone del tutto sottomesse al consumo ma anche contente di esserlo illudendole che ciò che stanno facendo sia una loro scelta. E questa persuasione più o meno occulta, a seconda dei casi, costituisce il compito primario dell’industria culturale. Inoltre, il fatto di avere sudditi contenti di esserlo, o che provano piacere a esserlo per rimanere alla metafora algolagnica, evita al capitale le catastrofi del recente passato, dove la sottomissione era ottenuta con la forza, che possono mettere in crisi le basi del capitalismo stesso.

E per tirare i fili, se pure provvisoriamente, di questo breve ragionamento e tornando all’assunto del titolo sembra ora piuttosto evidente il motivo per cui le opere di Moravia sono, in questo nostro tempo, uscite dal canone. Poiché qui convergono lo spirito del tempo per ciò che riguarda l’arte e gli interessi specifici, e pertanto economici, dell’industria culturale. Infatti, l’arte è sempre stata concepita, da quando esiste il grande mercato borghese, come un bene di consumo da cui il borghese pretende svago e divertimento; semmai cambia il modo di concepire il concetto dell’uno e dell’altro, ma cambia all’interno dello stesso paradigma. E per chiarire questo punto basta pensare al fatto che il borghese di metà ottocento si svagava e divertiva fruendo in teatro del mito della prostituta redenta dall’amore, sto accennando a tante opere tutte riassumibili nell’emblematica Signora dalle camelie, mitologema che contiene ancora comunque, nella sua bassezza artistico-concettuale, un nodo problematico e cioè quello costituito dalla prostituzione, che, l’ho già sottolineato, riduce l’essere umano a merce. Accennato così al problema non certo in modo crudo, ché sarebbe realismo o comunque qualcosa di non molto lontano da questo, Dumas fils e compagni si trovano costretti a risolvere l’inquietudine che il problema suscita aggrappandosi a un’eccezione poiché il riscatto da questa sua condizione di merce la donna l’ottiene soltanto grazie all’amore salvifico -che, per essere tale, deve anche essere totale e dunque proprio eccezionale. Ma l’eccezionalità non è un articolo comprabile sul mercato poiché rappresenta uno scarto dalla norma, norma che, da quando esiste la società capitalistico-borghese, è nient’altro che il prodotto del mercato. Oggi, al contrario di ciò che succedeva a quell’epoca omologa ma non certo identica alla nostra, il fruitore delle opere rubricate dall’industria culturale come artistiche esige invece che ogni problematicità, per quanto possa risultare alla fine consolatoria ma rientrante pur sempre nell’eccezione, venga espunta dal proprio divertimento che deve essere “sereno” e tranquillo e pertanto non prevedere scarto dalla norma alcuno, e che sia tale da rafforzarlo nelle proprie convinzioni, e nei gusti estetici da queste derivate, che sono poi quelli della maggioranza oggi divenuta la quasi totalità delle persone.

Qualsiasi elemento non familiare ai suoi occhi e alle sue orecchie viene percepito dunque come disturbante e, quindi, rifiutato; e l’industria editoriale, o cinematografica, o teatrale, eccetera, non solo si adegua ma si sforza di promuovere il familiare, e il realismo, che ne è l’opposto, e cioè appunto ciò che non è familiare ai suoi sensi e alla sua visione della vita, viene espunto, rifiutato, messo da parte; in una parola esce dal canone.

Questo breve discorso sarebbe, se pure in fondo solo per accenni, concluso non fosse che, per la forza stessa delle parole, le ultime che ho scritto portano con sé un’ipotesi incentrata sulla psicologia del profondo del borghese tipico del nostro tempo. Infatti, se teniamo conto che “familiare” in tedesco si scrive Heimlich e “non familiare” Unheimlich e cioè “perturbante” e, più articolatamente, “tutto ciò che dovrebbe restare… segreto, nascosto” come si esprime Schelling, schedato da Freud nel suo scavo dei vocabolari che apre il saggio intitolato, appunto, Il perturbante e che il realismo, operando una specie di ritorno del rimosso, perturba nello svelare ciò che dovrebbe stare nascosto e segreto con l’effetto di disturbare i tranquilli sogni consolatori del buon borghesuccio, ci rendiamo subito conto che questo spettatore, lettore, eccetera arreso al conformismo non ha alcun motivo per accettare ciò che lo (per)turba visto che l’industria culturale fa di tutto, al contrario, per renderlo omologo a questa società e, appunto e come ho già scritto, tranquillo consumatore dei suoi prodotti e pure contento. Oggi non c’è più campo per il realismo che tende all’allegoria, e cioè a quell’artificio retorico che Benjamin ritrova nelle opere del dramma barocco tedesco che egli indaga avendo però lo sguardo rivolto ai giorni nostri, grazie a cui quei testi avrebbero la funzione non tanto “di esplicitare le cose quanto quella di denudarle”:

oggi più nessun denudamento è accettato e, al contrario, le cose, la realtà, debbono essere agghindate in vestiti armonici e infiocchettati dall’ideologia cui spetta il compito di tutto coprire e rimuovere ciò che comunque continua a ‘perturbare’ l’uomo rendendo così meno inquietante anche l’estrema miseria e, in fine, la morte.

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L'asino vola
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Written by L'asino vola

scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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