Nel giorno dell’ottantesimo anno dalla morte di Luigi Pirandello (10 dicembre 1936)

L'asino vola
10 min readDec 8, 2016

di Gigi Livio

Pubblico qui un frammento di un lungo saggio che sto da tempo scrivendo sul romanzo Serafino Gubbio operatore di Pirandello pubblicato la prima volta, col titolo di Si gira…, nel 1915. Questo libro, solitamente rubricato dalla critica come romanzo sul cinema, a me pare essere altra cosa non escludendo affatto, ma anzi comprendendo questa tematica fondamentale, e cioè una sofferta analisi dei guasti dovuti alla modernità, intesa e realizzata come è stata appunto intesa e realizzata, che colpiscono la vita e l’arte. Il fatto che il cinema, forma d’arte legata alla macchina, costituisca uno dei temi centrali della narrazione rafforza questa mia ipotesi poiché macchina e modernità sono elementi strettamente legati.

Il frammento che il lettore potrà vedere nelle pagine che seguono è legato al motivo della dignità così come è concepita nel nostro mondo. Perché il romanzo di Pirandello è, ancora a mio parere, estremamente attuale e questo singolo tema, da me qui artatamente isolato, risulta scavato dall’autore, e realizzato in modo molto alto sul piano formale, così profondamente da risultare ancora utile oggi a comprendere cosa si nasconda sotto un termine tanto usato quanto distorto dall’ideologia nel suo profondo significato.

[Ho abolito tutti i rimandi per rendere più fluida la lettura.]

La tormentata modernità di Pirandello. Tentativo di analizzare Si gira…

Capitolo primo.

8. L’avvertimento del contrario: il caso di Cavalena.

[…]

Iniziamo dalla descrizione serafiniana della signora Nene, la moglie di Cavalena, appunto, dove la prima cosa che non può non balzare agli occhi è il fatto che questo ‘ritratto’ non contiene alcuna sfumatura poiché il sentimento del contrario scaturirà soltanto in seguito:

Dio, che faccia la signora Nene! Faccia di vecchia bambola scolorita. Un casco compatto di capelli già quasi tutti grigi le opprime la fronte bassa e dura, in cui le sopracciglia giunte, corte, ispide e dritte, sembrano una sbarra fortemente segnata a dar carattere di stupida tenacia agli occhi chiari e lucenti d’una rigidezza di vetro.

Ovviamente questo è solo l’incipit della descrizione che Serafino traccia nei suoi quaderni della donna, icasticamente definita, poche righe sopra, “moglie feroce”; ma questo inizio è comunque atto a significare la ferocia della descrizione, che di poco segue a quell’affermazione, perché proprio la descrizione di una bestia feroce è sottesa molto evidentemente a particolari quali “la fronte bassa e dura” e “le sopracciglia giunte, corte, ispide e dritte” che “sembrano una sbarra fortemente segnata a dar carattere di stupida tenacia”, con quel che segue, dove non tanto più c’entra la ferocia beluina quanto la messa in ridicolo, da parte di Serafino, di una donna così terribilmente dispotica (“feroce”) che arrossisce improvvisamente ma “a chiazze, che subito scompaiono” e sul volto mostra “certi strani formicolii nervosi”: e qui chiaramente si legge una certa ripugnanza per una donna che, pur essendo in menopausa, come mostrano i segni evidenti da Serafino registrati, è così assurdamente gelosa. Infatti il marito, tra le ‘scuse’ che accampa di fronte agli “assalti selvaggi” –e qui torna la sottolineatura della bestialità della signora Nene- della moglie, ‘scuse’ che “più sciocche, più ingenue, più puerili non si potrebbero immaginare” c’è proprio quella dell’età: “- Nene, per carità, ho compiuto quarantacinque anni…” che è un’età, per quegli anni, ormai senile come, sempre per quell’epoca, una donna in menopausa risulta, oltre che vecchia, anche ridicola.

Non può non venire in mente, a questo punto, il notissimo esempio proposto da Pirandello nella seconda edizione dell’Umorismo per evidenziare la differenza tra l’“avvertimento del contrario” e “il sentimento del contrario” dove l’autore descrive “una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili” che fa ridere perché si avverte “che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere”. Ma poi subentra la riflessione suggerendo “che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei”; a questo punto interviene il sentimento del contrario che gela il riso sulla bocca di chi la sta osservando.

Ho richiamato questo notissimo passo dell’Umorismo soltanto per mettere in evidenza come, di fronte a una descrizione che ha certo molto a che fare con quella della moglie di Cavalena, scatti in Pirandello quel sentimento di compassione, cui ho sopra accennato, mentre nel caso della “signora Nene” tutto ciò non avviene e la pietas di Serafino viene meno. È questo un indice ben chiaro della differenza di visione del mondo e dei sentimenti umani che l’autore stabilisce tra sé e il suo personaggio. Questo sentimento di “comprensione” –è lo stesso Pirandello a definirlo così, sempre nell’Umorismo, quando portando a esempio di umorismo la machiavelliana novella di Belfagor” scrive che l’autore “adopera la tolleranza che comprende e assolve […] coll’ironia dell’uomo superiore alle passioni [che] dice: -ti tollero, non perché ti approvi, ma perché ti comprendo”- è tutto per Cavalena, e non per la moglie, come è evidente da ciò che segue all’impietosa descrizione:

Polacco m’ha detto che, assalita dalle furie della gelosia, perde ogni ritegno di pudore; e innanzi a tutti, senza badar più neanche alla figliuola che sta a sentire, a guardare, sculaccia nude (nude, come in quelle furie le balenano innanzi agli occhi) le pretese colpe del marito: colpe inverosimili. Certo, in questo laido svergognamento, la signorina Luisetta non può non vedere ridicolo il padre, che pure, come si nota dagli sguardi che gli rivolge, deve farle tanta pietà! Ridicolo, per il modo con cui, denudato, sculacciato, il pover’uomo cerca di tirar sù da ogni parte, per ricoprirsi frettolosamente alla meglio, la sua dignità ridotta a brani.

Questa metafora del denudamento e dello sculacciamento non riferito a un bambino ma a un uomo ormai ‘vecchio’ che, ridicolo nel ridicolo, protesta la sua innocenza facendo notare alla moglie furiosa che è “stato ufficiale” e che “quand’uno è stato ufficiale e dà la sua parola d’onore…”, mettendo così in evidenza anche il ridicolo della ‘dignità’, sarebbe certamente assai utile a chi intendesse psicanalizzare un autore sulla base dei suoi testi. Ma poiché ritengo invece esegeticamente corretto rimanere alla lettera del dettato dell’autore -pur non negando legittimità a quelle interpretazioni che però, sempre a mio modo di vedere le cose dell’arte, non servono a illuminare ciò che veramente interessa alla critica e cioè i nuclei profondi di pensiero sottesi alla scrittura- noterò che quel “nude”, ripetuto in parentesi, serve efficacemente alla metafora dello ‘sculacciamento’: proprio come potrebbe fare con un bambino, la moglie furiosa abbassa i pantaloni del marito davanti persino alla figlia e lo sculaccia là dove si sculaccia, appunto, e dove l’etimo del termine indica con decisa chiarezza. L’effetto comico, l’avvertimento del contrario, è perfettamente ottenuto dall’autore che però, e qui scatta il sentimento del contrario, definisce Cavalena “pover’uomo” mentre, la metafora diventa ora carica di significati non facili da esplorare, “cerca di tirar su da ogni parte, per ricoprirsi frettolosamente alla meglio, la sua dignità ridotta a brani” là dove, dunque, la dignità è metaforizzata da un paio di pantaloni, e per di più ridotti a brani e cioè stracciati.

Il vero significato della dignità.

E qui Pirandello, smascheratore e svelatore di ciò che sta sotto all’ideologia borghese, intende far capire fino in fondo come la pensa il suo personaggio, la cui visione morale in questo passo sembrerebbe proprio coincidere con la sua, su cosa ci sia sotto questa dignità, registrando nei suoi quaderni quelle frasi di Cavalena, riportate più sopra, a sottolineare il ridicolo di quel sentimento, quello della dignità, che è un modo di sentire sociale.

Questo punto, messo così decisamente in evidenza dall’autore, merita un momento di riflessione più disteso. Adorno, nel Gergo dell’autenticità, che ha come sottotitolo assai significativo Sull’ideologia tedesca, affronta il problema proprio nelle ultime pagine del suo studio, teso a dimostrare l’idealismo sotteso al pensiero di Heidegger, dove tira i fili del suo discorso e afferma recisamente: “Anche la dignità è di natura idealista”. E, argomentando questa affermazione, tra l’altro, scrive:

Con la categoria della dignità la società borghese fece propria una categoria feudale, che essa offre a posteriori per legittimare il suo ordine gerarchico. Essa ha sempre avuto la tendenza all’impostura, com’è messo in luce dalle arie che si danno i delegati d’animo conformista in occasioni solenni.

Ora, pur non volendo mettere in stretta relazione queste parole scritte da un filosofo che porta alla luce, mezzo secolo dopo la pubblicazione del romanzo di cui ci stiamo occupando, la falsa coscienza e la mistificazione certamente da qualcuno premeditata e da altri, come il nostro Cavalena, non premeditata ma subita, non possono non colpire certe, per così dire, assonanze tra il discorso adorniano e quello pirandelliano. La dignità, così come è intesa dalla società borghese, serve, ci dice Adorno, a legittimare il suo ordine gerarchico. Ecco Cavalena, uomo totalmente sottomesso a una donna, al punto da essere sculacciato nudo, se pure in metafora, in pubblico, che cerca, attraverso il richiamo alla sua dignità, quella di ‘capo famiglia’, di riprendersi, o comunque difendere, la sua collocazione gerarchica nel mondo. L’autore, sottintendendo in modo deciso il fatto che non ci riesca e che anzi reagendo così si renda maggiormente ridicolo in questo suo aggrapparsi disperatamente a una dignità ormai logora e stracciata e dunque del tutto compromessa non solo ideologicamente ma anche praticamente, realizza in questo punto del suo romanzo uno dei vertici della sua poetica umoristica svelando, con raccapriccio e com-prensione, nel senso preciso di “prendere in sé”, insieme, come sia ridicolo l’uomo del suo tempo quando si aggrappa a qualcosa che è divenuto ormai del tutto falso, la dignità borgese appunto, per cercare di consistere ancora come persona nell’epoca della frantumazione della coscienza del soggetto che può solo aspirare non certo a un’autenticità perduta per sempre ma alla coscienza di questa frantumazione; coscienza che Pirandello, in questo romanzo e, in genere in tutto il suo periodo “grottesco”, ha ben vigile se ha saputo inventare simili personaggi mostrando così, attraverso l’arte, l’altra faccia della realtà dei suoi come dei nostri tempi.

Per Pirandello, dunque, la falsa coscienza produce di necessità una falsa dignità. Ma, a questo punto, l’autore insinua un dubbio sulla sua condanna di quel sentimento, un dubbio che potremmo definire dialettico. Serafino, interpretando le reazioni della figlia dei Cavalena, Luisetta, definisce ciò cui la giovane sta assistendo come un “laido svergognamento”. Subito dopo compaiono due parole tematiche nel pensiero di Pirandello: “ridicolo” e “pietà”. Ovviamente Luisetta è favorita nell’avvertire il sentimento del contrario conoscendo bene quale tipo di vita sia costretto a vivere il padre che non può non vedere come “ridicolo” anche se, “dagli sguardi che gli rivolge”, mostra con tutta evidenza il sentimento di “pietà” nei suoi confronti da cui è pervasa; sentimento di pietà che l’autore enfatizza sottolineandolo con un punto esclamativo. La narrazione continua, come abbiamo visto, insistendo sul pedale del ridicolo, ma non senza che quelle poche righe -introdotte dall’osservazione condensata nei termini di “laido svergognamento”- in cui Serafino descrive l’atteggiamento della figlia nei confronti del padre, aprano uno spiraglio a una visione più articolata del problema perché se è certamente vero che la dignità è, oggi, falsa è pure altrettanto vero che questa ‘falsità’ nasce da una matrice per nulla falsa ma, al contrario, vera in quanto profondamente umana e in qualche modo questa matrice nobile trasmigra e dunque traluce nella falsità della sua versione ideologica.

Nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico Marx, partendo da un presupposto fortemente etico, non può non affermare che “l’imperativo categorico è quello di rovesciare tutte le condizioni in cui l’uomo è un essere degradato, asservito, abbandonato, spregevole”. È chiaro come qui l’imperativo categorico derivi la sua forza da un imperativo etico che ha proprio all’interno del proprio concepimento, l’intenzione, rovesciando tutte le condizioni, di ridare all’uomo una dignità che, se mai l’ha avuta -ma certamente è più facile che l’abbia avuta un tempo anziché l’abbia ora- il capitalismo gli ha oggi tolto del tutto: è da questa matrice che scaturiscono i concetti di alienazione e reificazione. Pirandello, che con tutta probabilità non ha mai letto Marx e che non è mai stato socialista, è però dotato di un sufficiente sentimento di contraddizione nei confronti dell’ipocrita senso comune borghese da riuscire a immettere il pensiero critico utile a cogliere il senso profondo delle cose analizzate nella sua narrazione; come in questo caso, appunto.

Torniamo ancora al “laido svergognamento” non senza notare come i due termini registrino, appunto, una sottolineatura etica molto forte: lo “svergognamento” è “laido”, infatti, perché sottrae a Cavalena, che risponderà secondo il senso comune perché anche lui di quella vergogna fa parte, ogni possibilità di consistere, come persona, in quale sia modo, ma è proprio grazie a quella spinta etica, che traluce qui, a opera del diarista, quel residuo di dignità vera di cui si diceva, e cioè l’affermazione aspra e risentita che nessuna persona, tanto più se incolpevole, dovrebbe essere così messa alla berlina da un’altra persona. Infatti il pensiero e la prassi borghese non possono eliminare del tutto, malgrado i potenti eserciti dell’industria culturale schierati sul campo per ottenere questo risultato, quel residuo di umanità vera, che è l’opposto della finta umanità sciorinata dall’ideologia, perché la prima conosce una storia molto più lunga di quella borghese e perché affonda le sue radici in una storia abissalmente lontana. La permanenza di questo residuo viene colto nell’epoca nostra dagli animi sensibili all’orrore da cui siamo avvolti che si risolve, sul piano formale, anche in bassezza estetica, qual è quello di Pirandello che, in quest’opera, dota i suoi personaggi di quello spunto di contraddizione che permette al lettore la possibilità di esercitare lo spirito critico sull’assenza dell’umano nel mondo moderno. Sempre meglio, dunque, si capisce l’ostracismo che subì Pirandello in questo periodo da parte degli innumeri critici conformisti: al motto futurista, ma anche dannunziano, fiat ars — pereat mundus egli contrappone un “sia un mondo migliore anche a costo della morte dell’arte” che però, con le sue opere, non morirà ma imboccherà un’altra strada, quella appunto che stiamo cercando di indagare e che consiste nello scrivere un romanzo dissonante con l’arte ‘ufficiale’ del tempo sia nella struttura, dove la narrazione non scorre fluida ma procede a balzi come sclerotizzata dall’impossibilità di un’armonia ormai perduta, e recuperabile solo o con una menzogna o in quel “mondo migliore” auspicato come tendenza ma impossibile anche soltanto da intravedere, sia nello stile, ineluttabilmente connesso alla struttura e ai concetti che questa veicola, così spezzato e quasi, a momenti, singhiozzante che, mimando, in modo particolarissimo, il parlato ne denuncia la vuotezza e, in fondo, l’inutilità.

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