Nel sessantesimo della morte di Bertolt Brecht

L'asino vola
10 min readNov 7, 2016

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di Gigi Livio

Sessant’anni fa, il 14 agosto del 1956, moriva Brecht. Oggi, di lui si parla pochissimo, almeno in Italia; in quel lontano 1956 lo “scrittore di drammi”, come amava definirsi, era invece celeberrimo qui da noi come in tutto il mondo. Ricordo che quando, dopo l’estate, ripresero le lezioni all’Università la sua morte era l’argomento principale dei conversari degli studenti che, come me, frequentavano allora la facoltà di Lettere e che amavano discutere d’arte e di cultura negli intervalli tra una lezione e l’altra. So benissimo che oggi non è più così e che nell’Università dei semestri tutto è diventato produttivistico, secondo una ben precisa logica del capitalismo ormai senza (quasi?) più freni, per cui l’arte e la cultura sono sparite dall’orizzonte degli studenti, ovviamente perché sono sparite da quelli di quasi tutti i loro docenti, e sono state sostituite dalla pura informazione mentre il concetto e la pratica della formazione, che non è utile di per sé a “produrre” maestranze per il mercato che siano anche prone allo stesso, è sparito dall’orizzonte della didattica. Per questo secondo aspetto, quello di istruire gli studenti a essere inginocchiati adoranti di fronte all’unico dio che oggi ancora esiste, concetto e pratica della formazione, e non c’è formazione possibile senza pensiero critico, sono addirittura controproducenti e pericolosi.

Restammo attoniti, allora, di fronte alla morte di Brecht: in quel momento in cui il teatro era ancora, almeno in parte, vivo e ricco di fermenti i drammi dello scrittore di Augusta e i suoi formidabili scritti teorici mostravano, gli uni e gli altri, un possibile mutamento del linguaggio della scena tradizionale (quello che oggi ha ripreso il suo decrepito posto in quasi tutta la produzione teatrale e che si rivolge a spettatori altrettanto decrepiti mentalmente e culturalmente) che di lì a poco sarebbe sfociato in quella che venne definita la neoavanguardia teatrale. Inoltre in quello stesso 1956, in gennaio, Brecht era venuto a Milano per assistere alla prima dell’Opera da tre soldi inscenata da Strehler al Piccolo, evento che aveva avuto una risonanza in tutta Italia e che era stato considerato come un vertice raggiunto dal regista già per altro molto lodato e apprezzato (non è il caso di discutere qui e ora se giustamente o no).

Oggi, Brecht sembra essere caduto, almeno in Italia, dalla memoria degli uomini attraverso un processo che va, in un primo tempo, dalla sua canonizzazione come “classico”, assai utile a rendere la sua opera inoffensiva, a un discredito invece totale in cui viene coinvolta l’avanguardia tutta e massime quella ispirata al marxismo di cui Brecht fu interprete eccezionale. Bollato come rozzo stalinista, egli che era invece un raffinatissimo dialettico, è dimenticato quasi del tutto e, addirittura, da molti esecrato.

[Apro una parentesi, e per di più quadra, per buttare lì, letteralmente, una questione che però, almeno per chi studia questi fenomeni, mi pare da sviluppare con calma in altro momento. Si tratterebbe di vedere quanto abbia giocato, e ancora giochi, sul discredito che ha avvolto l’opera brechtiana l’antipatia mostrata da Adorno nei suoi confronti. Adorno, la cui attualità (ne ho già parlato in queste pagine) è sempre viva, e oggi, almeno a me pare, più che mai, non amava lo scrittore di drammi: la sua, di Adorno, lotta per un’arte che proprio attraverso l’apparente distacco dalla realtà, e tanto più dalla propaganda, tipica del “realismo socialista” di cui allora tanto si discuteva, coinvolgeva nella condanna anche Brecht. Certo il filosofo francofortese era un sopraffino dialettico, e sapeva riconoscere l’altezza artistica dello scrittore di drammi; ma comunque abbastanza suo oppositore per giungere a dichiarare che in lui viveva ancora il positivismo. Ma, oggi, lontani da quelle polemiche e liquidato definitivamente quel realismo che realista non era affatto, forse bisognerebbe riprendere quella visione polemica dello scrittore di Augusta e cercare una mediazione fra l’estetica di Adorno e quella di Brecht, diffusa nei suoi scritti teorici, non certo per il gusto del mediare, oggi così di moda a evitare il conflitto, ma perché, in questo particolarissimo caso di uno scontro tra due menti eccezionali e che, ambedue, si richiamano al marxismo, forse si potrebbe arrivare a fruire di strumenti critici nuovi e diversi per analizzare fenomeni artistici del passato, sempre utili a comprendere il presente, e anche qualcosa del presente stesso. Per scendere un po’ sotto le stelle, dove stanno le elaborazioni estetiche di Adorno e di Brecht, ma non proprio per giungere alle stalle, e affidando quest’ultime alla cura degli stallieri oggi divenuti una vera moltitudine, si potrebbe forse capire meglio, per fare un esempio recentissimo, un film come quello di Ken Loach, I, Daniel Blake, che qualche problema non solo estetico, per fortuna e finalmente, lo pone.]

Per ricordare Brecht in questa ricorrenza ho scelto un brano tratto dall’Acquisto dell’ottone, un’opera teorica che corre parallela all’elaborazione e alla realizzazione dei grandi drammi della maturità, L’anima buona del Sezuan, Vita di Galileo, Madre Courage e i suoi figli, eccetera. L’acquisto dell’ottone non fu mai finito e, dopo che lo scrittore morì a soli cinquantotto anni, venne pubblicata così com’era ed è, frammentaria. Mi pare interessante oggi, nell’epoca dell’“arte espansa”, riprendo il titolo di un interessante e recente libro di Mario Perniola, leggere ciò che Brecht scriveva a proposito di questo problema. Parole ancora vive? teoria con cui fare i conti? stimolo per comprendere e, avendo compreso, continuare a elaborare? La discussione, per chi volesse parteciparvi, è aperta.

IL FILOSOFO: Abbiamo parlato a lungo delle finalità per cui si può praticare l’arte, del come la si possa praticare e da cosa dipende il far dell’arte; e abbiamo fatto anche dell’arte durante queste quattro notti, ragion per cui possiamo arrischiare un paio di prudenti dichiarazioni di tipo astratto su questa particolare facoltà umana, sperando che esse non vengono applicate separatamente, di per sé stesse, in modo del tutto astratto. Si potrebbe dunque forse dire che arte e abilità di creare imitazioni della convivenza umana capaci di suscitare un certo modo di sentire, di pensare, di agire che l’esperienza o la visione diretta della realtà riprodotta non sono in grado di suscitare con la stessa forza. Dalla visione e dall’esperienza della realtà l’artista ha tratto un’immagine da guardare e da sperimentare che riproduce il suo modo di sentire e di pensare.

IL DRAMMATURGO: La nostra lingua ha un’espressione felice: l’artista “si produce”.
IL FILOSOFO: Davvero ottima, se la si intende nel senso che nell’artista “si produce” l’uomo. Che se l’uomo “si produce” fa dell’arte.
L’ATTORE: Ma questo non è sicuramente tutto ciò che l’arte può dare, perché non sarebbe abbastanza. Dove lasciamo i sogni del sognatore, la bellezza che racchiude in sé anche il terrore, la vita in tutti i suoi registri?

IL DRAMMATURGO: Già, dobbiamo venire a parlare del godimento. Tu che vedi consistere ogni filosofia nel rendere la vita più piacevole, sembri volere un’arte fatta in modo che proprio essa non dia più alcun godimento. Poni tanto in alto il fatto di mangiare un buon cibo, condanni coloro che nutrono il popolo di patate. Ma l’arte non deve aver nulla a che vedere col mangiare, il bere, l’amare.

IL FILOSOFO: Così, l’arte è una facoltà innata, peculiare del genere umano; non è soltanto morale velata, sapere abbellito, bensì una disciplina autonoma che rappresenta in modo contraddittorio tutte le discipline.
Definire l’arte “regno del bello”, significa cavarcela in modo troppo sommario. Gli artisti sviluppano abilità, questo è il punto di partenza. Il bello nelle cose d’arte è che sono fatte con abilità. Se si obietta che la semplice abilità non può produrre alcun oggetto artistico, con l’espressione “semplice” si ha in mente un’abilità unilaterale, vuota, concentrata su una sola “specialità” e mancante negli altri settori dell’arte: un’abilità, cioè, lacunosa sotto l’aspetto morale e scientifico. La bellezza esistente nella natura è una qualità che fornisce occasione ai sensi umani di mostrarsi abili. L’occhio “si produce”. Questo non è un fatto a sé stante, un fatto che finisce lì; non è un fatto che non sia stato preparato ad altri fatti — da processi sociali, da fatti di diverse e ulteriori produzione. Dove sarebbe l’immensità della grande montagna senza la strettura della valle, la forma disordinata della natura selvaggia senza la deformità preordinata della grande metropoli? L’occhio di chi non è sazio non si sazia mai. Anche il “più stupendo” e grandioso dei paesaggi suscita soltanto un torbido riflesso della propria bellezza nell’individuo esausto, o sbalestrato all’ improvviso dentro quel paesaggio, se gli viene posto dinanzi senza la possibilità di goderne; ed è l’impossibilità di quelle possibilità a intorbidargli la vista.
Spesso l’incolto ha l’impressione della bellezza quando i contrasti si acuiscono, quando l’acqua già azzurra diventa più azzurra, quando il giallo del grano diventa più giallo, quando il cielo serale diventa più rosso.

IL FILOSOFO: Dal punto di vista dell’arte, possiamo dire di aver percorso questa via: le riproduzioni della realtà che scatenano passioni ed emozioni di ogni sorta, noi abbiamo cercato di migliorarle senza alcun riguardo per quelle passioni e quelle emozioni, impostandole in modo tale che chi le osserva si è messo in grado di dominare attivamente la realtà riprodotta. Abbiamo scoperto che è una più esatta riproduzione della realtà suscita passioni ed emozioni — e queste possono servire a dominare la realtà.

IL DRAMMATURGO: Non fa più alcuna meraviglia che l’arte, volta ad un compito nuovo, vale a dire alla distruzione dei pregiudizi umani sulla convivenza sociale, dapprincipio andasse quasi in rovina. Ora noi vediamo che ciò avvenne perché l’arte si assunse il nuovo compito senza rinunziare ad un pregiudizio che riguardava essa stessa. Tutto il suo apparato serviva a conciliare gli uomini col destino; e questo apparato crollò quando nelle manifestazioni artistiche come destino dell’uomo improvvisamente emerse l’uomo. Insomma, l’arte volle assolvere il nuovo compito rimanendo quella di una volta; e fece tutto con esitazione, a metà, egoisticamente, con la coscienza sporca. Ma nulla le si addice meno di questo. Essa si ritrovò soltanto quando rinunziò a se stessa.

L’ATTORE: Capisco. Ciò che sembrava antiartistico erano soltanto le cose inadatte all’arte nuova, non all’arte in generale.

IL FILOSOFO: Perciò, alcuni ai quali l’arte nuova sembrava così debole, o meglio, così indebolita, e indebolita proprio dalle nuove finalità, senza che queste venissero conseguite in modo soddisfacente, coloro, dunque, ritornarono indietro pentiti e rinunziarono ai nuovi compiti.

L’ATTORE: Tutta questa idea delle definizioni praticabili ha, secondo me, qualcosa di freddo e di squallido. Non ne ricaveremo altro che problemi già risolti.

IL DRAMMATURGO: Anche insoluti, anche insoluti!

L’ATTORE: Sì, ma perché anch’essi siano risolti! Questo non è più la vita. Lo si potrà considerare un intrico di problemi risolti — o insoluti — , ma i problemi non sono la vita. A parte i problemi insolubili, che pure esistono, la vita ha anche aspetti non problematici! Non voglio giocare soltanto alle sciarade.

IL DRAMMATURGO: Lo capisco. Lui vuole qualcosa che “colpisca a fondo”. Il previsto mescolato con l’imprevisto, il comprensibile con l’incomprensibile. Vuole un misto di terrore e di applauso, di allegrezza e di rimpianto. Insomma: vuole fare dell’arte.

L’ATTORE: Odio tutte le chiacchiere sull’arte come serva della società. La società se ne sta là come una gran signora strapotente, l’arte non rientra in essa, le appartiene soltanto, è soltanto la sua cameriera. Che proprio dobbiamo essere tutti quanti dei servitori? Non potremmo essere tutti quanti dei Signori? L’arte non potrebbe essere una padrona? Facciamola finita con i servitori, anche con quelli dell’arte!

IL FILOSOFO: Bravo!

IL DRAMMATURGO: Che significa questo “bravo”? Con questo applauso incontrollato rovini tutto quello che hai detto. Basta che qualcuno si presenti a te come un oppresso e tu sei subito dalla sua parte.

IL FILOSOFO: Lo spero! Ma adesso capisco: lui si preoccupa che possiamo trasformarlo in un funzionario statale, in un maestro di cerimonie, in un predicatore del buon costume che lavora “con i mezzi dell’arte”. Tranquillizzati, non abbiamo questa intenzione. L’arte scenica può considerarsi soltanto una manifestazione umana elementare, fine a se stessa: a differenza dell’arte bellica che non è fine a se stessa. L’arte scenica fa parte delle forze sociali elementari, si fonda su una facoltà sociale immediata, su un piacere che gli uomini si prendono in società: è come il linguaggio, è un linguaggio a sé stante. Per rendere più duratura nella nostra memoria la proclamazione di questa verità, propongo di alzarci in piedi. (Tutti si alzano). E già che siamo in piedi, propongo che ne approfittiamo anche per andarcene fuori a pisciare.

L’ ATTORE: Ah, così rovini tutto. Protesto.

IL FILOSOFO: Ma come? Anch’io seguo un impulso, e lo inchino, e lo onoro. E al tempo stesso faccio sì che la solenne circostanza si concluda degnamente nella banalità.

Infine e a mo’ di del tutto provvisoria conclusione: Brecht filosofo? Cedo la parola a chi, di filosofia, ne sa più di me:

Si interrogava il metodo brechtiano per sapere qualcosa di più su come fare, o meglio su come continuare a fare filosofia oggi. Ora, che la filosofia sia un’opera della distanza, che sia stupore e problematizzazione dell’occhio, non è certo una novità dell’ultima ora. Che la postura filosofica sia quella di Keuner, quella dell’ospite estraneo, anche questo dopo 2000 anni di platonismo e di gnosticismi vari non è poi una scoperta da far tremare i polsi. Ma la “recitazione senza immedesimazione totale” di Brecht ci dice quale distanza e quale estremità siano date in dote al filosofo nuovo. Nuovo è il filosofo che ha fatto del divenire, del cambiamento, delle trasformazione, l’assoluto.

R. Ronchi, Brecht. Introduzione alla filosofia, 2013.

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