Riflessioni in margine all’articolo di Gigi Livio

L'asino vola

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di Guido Baldi

1. la funzione civile del testo scolastico

L’articolo di Gigi Livio inquadra il problema del libro scolastico in modo rigoroso e offre numerosi spunti di riflessione. Voglio qui raccoglierne alcuni.

Pubblicare un libro di testo per la scuola è un’operazione di altissima valenza culturale e politica (binomio da considerare inscindibile). Si tratta di uno strumento che va nelle mani di migliaia (in certi casi milioni) di giovani, quindi il suo uso è un momento essenziale della loro formazione come individui e come cittadini. È questo il fine che deve proporsi chi si accinge a scrivere un testo scolastico: formare persone dotate di spirito critico, cioè che sappiano pensare autonomamente in qualunque campo, riescano a opporre la loro libertà di giudizio contro tutti i condizionamenti esterni e a liberarsi di quelli introiettati, siano in grado di leggere la realtà, come bene indica Livio, al di là del velame delle mistificazioni da cui viene occultata dai mezzi di comunicazione di massa e dagli infiniti altri messaggi con cui l’organizzazione attuale della società ci bombarda, e che vengono assorbiti dall’opinione comune in cui siamo immersi.

È un compito delicato e difficile, ma imprescindibile, se si vuole lottare contro la formazione di collettività di hollow men, per dirla con Eliot, di automi eterodiretti. Questo obiettivo coincide con quello della scuola in generale. Certo i giovani devono anche assimilare i contenuti delle discipline, e impossessarsi di un solido bagaglio culturale in vari campi, condizione necessaria perché una persona sia all’altezza di essere tale: ma quel bagaglio resta un peso inerte, un cumulo di nozioni sterili, se non concorre a raggiungere il fine di formare l’individuo critico.

L’intellettuale (docente universitario o di scuola secondaria o anche esterno all’ambito dell’istruzione) che si prefigge un simile compito attraverso un testo scolastico deve necessariamente fare ricorso a una casa editrice perché quel messaggio a cui tiene, quello strumento che vuole fornire, prenda corpo in un’opera, libro di carta o in formato digitale. E le case editrici sono imprese che agiscono entro il mercato capitalistico, con fini di profitto, essenzialmente, pena il fallimento economico (il che non esclude che possano anche avere, in misura più o meno rilevante, finalità culturali). Di conseguenza anche l’intellettuale-autore di un libro scolastico dovrà sottoporsi alle leggi della produzione capitalistica: produce anch’egli un valore di scambio, una merce che deve essere venduta sul mercato, e con successo.

Si instaura così un complesso rapporto fra ragioni culturali e ragioni di mercato. Se l’autore cinicamente mira solo a fare soldi, non entra in conflitto con le esigenze commerciali della casa editrice: si piega docilmente, senza remore e magari senza sensi di colpa, a fornire i prodotti richiesti, che corrispondono a ciò che vuole il mercato (o almeno a ciò che la casa editrice pensa che il mercato voglia). Ma se l’intellettuale ha come primaria esigenza quella di fornire un prodotto culturale che rispecchi i suoi principi fondamentali, sia estetici sia civili e politici, i conflitti sono inevitabili. Allora, se le esigenze commerciali sono assolutamente incompatibili con quei principi, si arriva alla rottura, e quindi l’esito per l’intellettuale sarà il silenzio, l’impossibilità di adempiere al compito civile che si era prefisso. Oppure si giunge a un compromesso, che da un lato tenga conto delle richieste del mercato, dall’altro salvi l’essenziale dei principi; compromesso tanto più facile e collocato a livelli alti quanto più la casa editrice è sensibile alle ragioni culturali (e non è detto che il buon prodotto culturale non sia poi vincente sul piano commerciale).

Qui scatta quel «nella misura del possibile» di cui parla Benjamin a proposto di Brecht. In tal caso non è solo l’editore che si serve dell’intellettuale, in quanto «lavoratore produttivo», per il suo profitto, ma è l’intellettuale che si serve dell’impresa capitalistica per i suoi fini, per far giungere il messaggio che gli preme a un numero di destinatari il più vasto possibile e per fornire ad essi lo strumento didattico e culturale che ritiene utile, con tutte le sue ricadute civili. In tal modo le sue idee non sono solo affidate ai suoi scritti scientifici ed accademici, che arrivano a venticinque lettori (se è fortunato), ma sono trasmesse a migliaia e migliaia di fruitori (e sia pure in forme semplificate e divulgative, che però non tradiscano la sostanza): che è un risultato da non disprezzare, sul piano culturale come politico.

2. Il rifiuto del testo scolastico

Quanto alle scelte di Eraldo Affinati, su cui si sofferma Livio, vorrei aggiungere alcune considerazioni. Un insegnante, dinanzi ad allievi particolarmente svantaggiati sul piano economico, sociale e culturale, può decidere di non usare libri di testo. Sorgono però alcune perplessità.

1 È in grado di impartire un insegnamento di livello pari a quello del libro? Altrimenti fornisce ai suoi allievi un servizio di qualità inferiore: e dare a chi è già svantaggiato un servizio di qualità inferiore non è proprio una scelta che vada in una direzione “progressista”.

2. Fa sentire una sola voce, propone una sola prospettiva, la propria: viene così a mancare il confronto con altre e diverse prospettive, che sarebbe garantito dalla presenza del libro di testo. Il confronto, e anche il conflitto fra visioni culturali diverse è invece sempre produttivo, anzi fondamentale per la crescita intellettuale e critica dei giovani.

3. Puntare, come fa Affinati, sulla lettura rapsodica di alcuni testi, soprattutto moderni, può certamente stimolare la curiosità e la partecipazione attiva, però fermarsi a quel punto comporta conseguenze gravi: innanzitutto priva gli allievi del diritto di formarsi un quadro storico organico e completo della letteratura (si parla della scuola superiore), senza cui i fenomeni letterari non possono essere compresi veramente; in secondo luogo anche la funzione di formazione civile e critica dei giovani attraverso l’insegnamento letterario non può essere espletata appieno, perché a tal fine la dimensione storica è irrinunciabile: specie in un momento come questo, in cui il postmoderno schiaccia tutto sul presente e impone l’idea che l’esistente sia l’unica forma di realtà possibile; non solo, scelte come quelle di Affinati impediscono agli allievi l’accesso ai grandi classici del passato italiano, privandoli di un’esperienza culturale vitale per la loro formazione, per la loro completezza come persone. Anche tutto questo, compiuto con ragazzi svantaggiati, non è un’operazione propriamente “progressista”: è come dire che l’inquadramento storico e la conoscenza dei grandi classici sono un lusso non alla loro portata, da cui è inevitabile che restino esclusi.

4. E questa considerazione serve di passaggio all’ultimo punto. Affinati sostiene che i testi scolastici «non sono adatti» a quel tipo di studenti. Si potrebbe rovesciare l’assunto:

sono quegli studenti che, nelle loro condizioni di partenza, «non sono adatti» ai libri: ma allora l’obiettivo dovrebbe essere proprio quello di renderli «adatti», di portarli a un livello tale che siano in grado di servirsene.

Non bisogna abbassare il livello dell’insegnamento, ma innalzare quello dei discenti. Altrimenti si riproducono semplicemente le loro condizioni di partenza: che è n’operazione, non c’è bisogno di dirlo, sostanzialmente reazionaria. Nella pratica didattica di Affinati si rivelano i limiti dell’impostazione di don Milani, di cui lo scrittore-insegnante è fervente ammiratore.

Considerazioni in parte analoghe valgono per l’iniziativa del book in progress, con la differenza che non si tratta di scelte personali di un singolo insegnante all’interno delle proprie classi, ma di un’operazione più vasta e organizzata, che ambisce a proporsi come modello di didattica alternativa e ad estendersi oltre i confini della scuola di origine, fornendo manuali autoprodotti che vengono venduti, sia pure a prezzi simbolici. Ora,

scrivere un manuale 1) comporta competenze di alto livello e un dominio sicuro della disciplina: non a caso i manuali più diffusi (parlo del settore letterario e umanistico in generale, che è il campo delle mie competenze) sono scritti da docenti universitari o che almeno hanno esperienze e competenze di quel livello; 2) richiede anni e anni di lavoro molto intenso e assorbente.

Un manuale non si improvvisa con un copia e incolla da internet: anche perché rischia di ridursi a un centone di scopiazzature, privo di originalità e di organicità. Operazione che rischia poi anche di collocarsi ai confini del plagio, quindi può arrivare ad assumere risvolti penali.

Il libro “fai da te”, lungi dal proporre un modello di didattica alternativa, può arrivare ad abbassare il livello degli studi: e dio sa se ce n’è bisogno oggi, quando tutto sembra cospirare alla dequalificazione dell’insegnamento, magari sotto l’etichetta della «buona scuola» (oh, il newspeak di Orwell!), oppure attraverso il progetto di togliere un anno alle superiori, un’idea da «barbari incolti», come l’ha definita Alberto Asor Rosa sulla «Repubblica» del 27 agosto.

3. Lo scrivere in “difficilese”

Certo un libro scolastico deve essere scritto in modo chiaro e comprensibile; deve quindi evitare una sintassi complicata, che inzeppi i periodi di molti concetti: a ogni concetto va assegnato un proprio periodo; deve evitare espressioni ridondanti, contorte e fumose, quando le stesse cose possono essere dette in modo diretto e lineare, e all’estremo opposto non deve adoperare espressioni troppo ellittiche e allusive; non deve indulgere a un lessico arduo ed eccessivamente specialistico. D’altro lato però deve evitare di appiattirsi al livello di una discorsività quotidiana e non deve usare un lessico troppo povero e banale: che è una tendenza purtroppo riscontrabile in alcuni manuali di letteratura usciti recentemente.

La giustificazione in genere addotta per scelte del genere è che il linguaggio dei giovani si è impoverito, e quindi è necessario adattarsi ad esso. Ma mi sembra una posizione sbagliata e autolesionista:

non bisogna mai abbassarsi al livello di partenza degli allievi (anche se è giocoforza tenerne conto), ma al contrario occorre mirare ad elevarlo, per quanto è possibile, a un livello superiore.

Altrimenti anche in questo caso si riproducono le loro condizioni di partenza, che, oltre a essere una sconfitta didattica, se gli allievi partono da una condizione svantaggiata è anche un’operazione reazionaria, come dicevo prima.

Quindi occorre, con scelte oculate e con la necessaria gradualità, abituare gli studenti a fare i conti con un lessico un po’ più ampio ed appropriato, magari aiutandoli con l’accoppiamento di un termine più sostenuto con un sinonimo più corrente, o mediante spiegazioni inserite nel testo stesso o in box a margine. Questo per il libro scritto, ma insostituibile è l’apporto del discorso diretto in classe dell’insegnante, che può usare termini un po’ meno correnti, facendo subito la verifica della loro comprensione e fornendo le necessarie spiegazioni. Il problema, quando si scrive un testo scolastico, è trovare il punto di equilibrio tra comprensibilità e ricchezza lessicale, senza darsi per sconfitti in partenza con il rinunciatario adattarsi al livello dei destinatari. È una battaglia che non si può non affrontare oggi, poiché è vero, e lo si constata ad ogni occasione, che è in atto un pauroso impoverimento della lingua, che coinvolge specialmente i giovani. Bisogna lottare con ogni mezzo e con tutte le forze, ciascuno nel proprio ambito, per evitare che una lingua così ricca come l’italiano di riduca a un pidgin italian, un equivalente dell’inglese imbastardito e impoverito dei popoli colonizzati. E la scuola, insieme ai libri di testo, ha un responsabilità decisiva a riguardo.

Quanto ai termini tecnici e specialistici, non bisogna esagerare, perché l’effetto di un eccesso è certamente terroristico (basta ricordare certi testi usciti all’epoca del dominio dello strutturalismo e della semiotica). Però alcuni termini tecnici sono indispensabili, e non è un’impresa impossibile farli imparare, sin dal biennio. In fondo si imparano senza discutere i termini tecnici della filosofia, della matematica, della fisica, delle scienze: gli allievi sono chiamati a usare trascendente e immanente, sinolo, noumeno, ipotenusa, seno e coseno, anidridi e biossidi, anzi sin dalle elementari si imparano termini come triangolo isoscele (spero che sia ancora così). Mi chiedo perché non debba valere anche per lo studio della letteratura.

I termini tecnici essenziali sono utili, perché richiamano subito un concetto, che altrimenti dovrebbe essere espresso con lunghe perifrasi.

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