immagine di copertina della rubrica di Michele Serra: l’Amaca.

Su Michele Serra, bullismo e populismo

L'asino vola
6 min readMay 28, 2018

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di Guido Baldi

1. Bullismo e classi sociali

Michele Serra, nell’Amaca del 20 aprile 2018, dell’episodio di bullismo contro un professore a Lucca ha dato un’interpretazione sociologica, sostenendo che in simili gesti violenti si manifesta la rabbia di giovani di ceti subalterni, che frequentano istituti tecnici e professionali, dove «il tasso di aggressività e indisciplina» è maggiore rispetto ai licei, «frequentati solo da figli di quelli che hanno fatto il liceo».

Certamente la spiegazione può valere per una parte dei fenomeni di bullismo nei confronti dei professori, ma non è generalizzabile. Innanzitutto non è detto che quel tipo di scuole sia frequentato solo da ragazzi di ceti inferiori: molti provengono da famiglie di piccola e media borghesia, sono figli di impiegati, commercianti, artigiani e così via. D’altro lato è noto che nei licei non si trovano solo i figli della borghesia “bene”, salvo casi particolari di certi istituti storicamente di prestigio: si tenga conto della miriade di licei classici e scientifici che in tutta la penisola sorgono in aree periferiche, e si pensi alla serie di altri licei che la vulgata in modo alquanto sprezzante definisce “deboli”, il linguistico, l’artistico, il coreutico, quello delle scienze umane, dello sport, dove la popolazione socialmente non è poi molto dissimile da quella degli istituti tecnici. In secondo luogo le statistiche dicono che gli atti di bullismo nei licei sono più numerosi che negli istituti tecnico-professionali. D’altro canto non mancano fenomeni eclatanti proprio in scuole frequentate dai privilegiati. È esemplare il caso del prestigioso liceo Virgilio di Roma, venuto in primo piano nelle cronache e ampiamente trattato da Giovanni Floris nel suo recente libro Ultimo banco: la scuola intera, professori come studenti, a quanto pare è in balia di una sorta di mafia di bulli (come è stata definita dal corpo docente), provenienti da famiglie della migliore borghesia, che spadroneggiano con continue sopraffazioni e spacciano tranquillamente, con la benevola tolleranza dei genitori.

Quindi il bullismo nelle scuole non è solo causato da una subalternità di classe, che scarica nella violenza le sue frustrazioni; anzi, i bulli alto-borghesi sono più protervi e provocatori dei proletari e dei sottoproletari, perché favoriti nelle loro prevaricazioni dal privilegio e dalla sicumera che ne deriva, grazie anche all’impunità garantita dalle famiglie influenti. A una considerazione complessiva, si tratta di un fenomeno più generale, dalle radici più vaste e profonde, che, in misura estrema e violenta o più contenuta e dissimulata, coinvolge i giovani in quanto tali nei confronti della società e delle sue istituzioni: come si proponeva nell’articolo del mese precedente,

essi risentono dell’atmosfera di violenza che è costitutiva delle società del capitalismo avanzato e non sono più frenati da alcun principio di autorità,

messo in crisi proprio da quello sviluppo capitalistico, che non ne ha più bisogno perché possiede mezzi più potenti di controllo sociale, dai media alla pubblicità ai social networks, ai videogiochi, allo sport, alla stessa diffusione della droga.

2. “Popolo” e populismo

Ma degne di essere analizzate sono le reazioni all’Amaca di Serra. Il quale si aspettava di essere accusato di sociologismo di sinistra e di aver offerto alibi giustificativi ai violenti, invece, nella solita cagnara dei giornali e dei social networks, si è visto rivolgere l’imputazione di bieco classismo, tipico «di quelli dell’estabishment contro quelli del popolo», per aver messo in rilievo gli aspetti negativi dei ceti popolari, nei loro comportamenti e nel loro livello culturale. La risposta da lui data a queste accuse è interessante, e merita attenzione proprio sullo sfondo della situazione politica e sociale di oggi.

Innanzitutto, sottolinea, è diventato «contro il popolo» ciò che, a chi da una vita è di sinistra,

«è sempre sembrato il più potente argomento a favore del popolo: denunciarne la subalternità economica e culturale, dire il prezzo che paga, il popolo, alla sua mancanza di mezzi materiali (i quattrini) e immateriali (la conoscenza, l’educazione)».

A tal proposito Serra fa presente che se Engels pubblicasse oggi Le condizioni della classe operaia in Inghilterra sarebbe aggredito dai social perché lui, «borghese col culo al caldo», parla così male del popolo dei suburbi, e lo stesso accadrebbe a Marx se proponesse oggi le sue considerazioni sul sottoproletariato cosiddetto “straccione” (Lumpenproletariat).

La mistificazione intellettuale è che populisti del genere si spacciano per essere di sinistra:

«Non dire mai che il popolo “sta sotto”, non dire che è messo male, non dire che ha meno e che sa di meno, non dire che ieri era carne da cannone e oggi è carne da pubblicità […], perché vuol dire che lo consideri inferiore».

La storia della sinistra è stata segnata dalla promozione culturale dei ceti inferiori, come arma irrinunciabile della lotta di classe e della loro emancipazione. Oggi invece, con il trionfo della Tv spazzatura, la cultura è

«un orpello da disprezzare, valorizzando in antitesi la voce grossa, i modi rozzi, il “parlare semplice” come altrettante “virtù popolari”.

È il populismo: forse la cosa più antipopolare, dunque più di destra, mai inventata sulla faccia della terra».

Non si può che essere d’accordo. Una vera posizione di sinistra consiste nell’aver ben chiara l’idea dei limiti non solo materiali ma anche culturali dei ceti subalterni: che è la condizione necessaria per un lavoro politico che porti a un riscatto. Se invece si celebrano come “virtù popolari” proprio quei limiti, non si fa che cooperare a riprodurli indefinitamente, cioè a riprodurre le condizioni di subalternità e di sfruttamento. E questo è appunto il populismo, che è intrinsecamente, inevitabilmente reazionario in quanto ribadisce la datità dell’esistente e impedisce ogni processo di riscatto sociale.

Ma vale anche la pena di riflettere sul concetto e sul termine “popolo”, di cui oggi tanto ci si riempie la bocca. Occorre dire chiaramente che il “popolo” non esiste: è un concetto nebuloso e indeterminato, che si mostra inconsistente a una scepsi un po’ rigorosa, e in quanto tale è mistificante e pericoloso. A una considerazione scientifica della struttura sociale risultano solo le classi, nelle loro varie articolazioni e nei loro rapporti: ai due estremi le due classi antagonistiche, la borghesia detentrice dei mezzi di produzione e il proletariato dei salariati (che oggi è diminuito quantitativamente e purtroppo ha perso molto della sua possibilità di incidere, per le trasformazioni della produzione, l’automazione crescente, il trionfo delle multinazionali che spadroneggiano senza trovare contrasto da parte della politica); in mezzo c’è la massa dei ceti medi e piccolo borghesi, e poi il sottoproletariato degli emarginati, di cui ormai una parte è costituita dagli immigrati non integrati nel sistema produttivo.

Quando i populisti parlano di “popolo” hanno invece in mente una massa indifferenziata, amorfa, che esiste solo nella loro testa, e della cui “volontà” e delle cui esigenze si proclamano gli interpreti solo per il loro tornaconto politico.

Al mito del “popolo” si unisce quello della “democrazia diretta”, che oggi sarebbe consentita dalla rete. Il mito della democrazia diretta, insofferente delle mediazioni politiche e della democrazia rappresentativa, è pericoloso, perché fa leva non sulla razionalità ma sull’emotività della massa, che è sempre facilmente manipolabile, specie da abili demagoghi che sappiano appunto giocare sulle sue emozioni e i suoi furori. In realtà, poi, il “popolo” che si esprime attraverso la rete è solo un’infima minoranza della massa autentica della popolazione italiana o anche solo dei potenziali elettori del movimento populista, mentre i suoi responsi vengono spacciati come l’autentica “volontà popolare”. Inoltre tale pretesa volontà è sistematicamente chiamata solo a ratificare la volontà del leader, che decide senza alcuna investitura democratica e senza effettiva possibilità di controllo dal basso. È, mutatais mutandis, il rapporto tra il Capo e le folle oceaniche adunate nelle piazze che, ai tempi del fascismo, rappresentavano il “popolo italiano” , ed erano mobilitate per acclamare le iniziative del Duce.

Nel suo saggio sul «fascismo eterno», o «Ur-Fascismo», Umberto Eco sin dal 1995 prevedeva gli sviluppi attuali del populismo:

Per l’Ur-Fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il “popolo” è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la “volontà comune”. Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega i cittadini non agiscono, sono solo chiamati, pars pro toto, a giocare il ruolo del popolo. Il popolo è così solo una finzione teatrale. Per avere un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo più bisogno di Piazza Venezia o dello stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata come “la voce del popolo”.

A ragione del suo populismo qualitativo, l’Ur-Fascismo deve opporsi ai “putridi” governi parlamentari. […] Ogni qual volta un politico getta dubbi sulla legittimità del parlamento perché non rappresenta più la “voce del popolo”, possiamo sentire l’odore di Ur-Fascismo.

Ed è un odore che oggi, con il trionfo dei partiti populisti, in Italia come in Europa, aspiriamo a piene nari, mentre abbiamo nelle orecchie l’eco dei Vaffa.

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scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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