Locandina del film dei fratelli Taviani

Sulla traducibilità di Beppe Fenoglio.

Una questione privata dei fratelli Taviani

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di Franco Prono

I confronti che sono stati elaborati per tanti anni tra i film e i romanzi da cui talvolta sono tratti — o a cui si ispirano — oggi non innescano più, giustamente, discussioni sulla “fedeltà” o “infedeltà” della trasposizione cinematografica di un’opera letteraria. Si tratta, infatti, di un falso problema. Sappiamo che quando si traduce un testo scritto da una lingua ad un’altra, il testo originario viene necessariamente “tradito”, modificato, perché deve essere adattato a strutture linguistiche e sintattiche ignote al suo autore. La traduzione è quasi impossibile quando riguarda la poesia perché non si possono mantenere inalterati il suo ritmo e il suo stile. Qualcuno afferma che soltanto un poeta è in grado di tradurre l’opera di un altro poeta, ed effettivamente Pasolini ha tradotto in maniera splendida le tragedie di Sofocle, dandone però una versione personale, necessariamente diversa da quella originale.

Nel campo del cinema si attua la traduzione da un linguaggio che utilizza parole ad un linguaggio che utilizza immagini e suoni: sono evidenti le profonde e inconciliabili differenze tra le strutture drammaturgiche, i codici linguistici, le caratteristiche espressive dei due mezzi. L’approssimazione e l’ “infedeltà” operate dai cineasti sono inevitabili perché essi operano nell’ambito di precise esigenze comunicative: ogni prodotto audiovisivo mette in risalto soprattutto gli aspetti tematici e i processi fabulatori che contiene, esalta la successione cronologica degli eventi e la loro concatenazione causale. Spesso i romanzi sono molto lunghi ed hanno numerosi personaggi, per cui se si vuole crearne una versione cinematografica di non più di due ore bisogna eliminare molti eventi, episodi e personaggi. Un romanziere può utilizzare lo spazio di varie pagine per descrivere una persona, un luogo, un paesaggio, mentre un’inquadratura cinematografica offre immediatamente un’idea precisa di quella persona, di quel luogo, di quel paesaggio. Inoltre — ed è questo il nodo fondamentale — chi scrive può utilizzare nel suo discorso dei concetti astratti, mentre chi realizza un film incontra molte gravi difficoltà a farlo. Sullo schermo appare l’immagine di una persona felice o sofferente, non può apparire l’idea astratta di felicità o di sofferenza.

Non mancano tentativi — talvolta graditi dal pubblico — di “trascrivere” in immagini e suoni un romanzo così com’è. Un esempio sono alcuni dei numerosi film ispirati a romanzi di Agata Christie (che sembrano prestarsi bene a questo tipo di operazione): spesso vengono girati nei luoghi previsti dalla scrittrice, utilizzano i dialoghi del romanzo senza significative modifiche e contano su una grande accuratezza formale e su ottimi attori per garantire il successo al botteghino. Ma la forma “patinata” e accattivante non riesce a nascondere la scialba banalità di fondo e l’assenza di invenzioni a livello di messinscena cinematografica. Hanno invece una chiara e corretta concezione della messinscena cinematografica quei registi e sceneggiatori i quali prendono lo spunto per il loro lavoro da un romanzo, da un racconto, da un articolo di giornale, da un epistolario o da un altro testo letterario, per elaborare una loro opera audiovisiva del tutto autonoma. Chi sceglie un romanzo come punto di partenza per fare un film evidentemente intende esaltare le potenzialità espressive del romanzo stesso, e per riuscirci è obbligato ad allontanarsene per “tradurlo” con sostanziale “fedeltà”. Se vuole offrire allo spettatore lo “spirito” dell’opera letteraria di partenza, se cioè vuole rispettare in pieno la costellazione di senso e la “visione poetica” di quella, deve mutare tempi, ritmi e spazi della narrazione, trasformare la struttura drammaturgica ed elaborare i materiali audiovisivi in modo autonomamente generativo. Deve reinventare il rapporto con il pubblico individuando quegli “elementi sostitutivi che possano far scattare nello spettatore reazioni perlomeno omologhe a quelle del lettore.

Tutte queste considerazioni sono sproporzionate come premessa ad un breve discorso sul modesto film che i fratelli Taviani hanno “tratto” da Una questione privata di Beppe Fenoglio. Gli autori hanno dichiarato che, mettendo in scena quello che, secondo loro, è il più bel romanzo italiano del Novecento, non hanno apportato nessuna modifica sostanziale, né a livello narrativo, né a livello tematico. Rivendicano, insomma, l’assoluta “fedeltà” al testo letterario. Pur ribadendo che non è questo il problema, e che se avessero operato profonde modifiche strutturali non avrebbero automaticamente “tradito” lo “spirito” del romanzo, occorre rilevare che il film è sostanzialmente “altro” rispetto al libro sia perché i cambiamenti apportati alla narrazione sono molto pesanti, sia perché la poetica e l’ideologia dei Taviani non ha nulla a che fare con quella di Fenoglio (e allora viene da chiedersi: “Perché hanno scelto come soggetto del loro film proprio Una questione privata?”).

Protagonista del film è Milton, il guerriero “pazzo d’amore” per una donna, ma manca completamente il contesto della guerra partigiana. Giustamente Italo Calvino individuò l’importanza di Una questione privata di Fenoglio nel fatto che è il primo romanzo sulla Resistenza, la «Resistenza “vera”». Nel libro ci sono la guerra e tutte le contraddizioni della guerra; vari personaggi raccontano episodi di rastrellamenti, scontri a fuoco, esecuzioni, e da questi racconti emergono i motivi per cui tanti giovani hanno lasciato gli agi domestici e si sono trasferiti in montagna per combattere contro il fascismo, cercando di sopravvivere in mezzo al fango e al gelo, in costante pericolo di vita. Nel film dei Taviani tutto questo non c’è. Nel film vediamo che il protagonista e i suoi compagni combattono, ma perché lo fanno? Non viene detto.

Nel romanzo si racconta la fucilazione di un ragazzo quattordicenne: l’ufficiale che comanda il plotone di esecuzione è dispiaciuto di dover assolvere questo incarico in quanto utilizza da qualche tempo il ragazzo come uno “schiavo” per i lavori più disparati, ma i soldati del plotone si dimostrano insofferenti delle lungaggini e delle perplessità dell’ufficiale ed hanno fretta di sbrigare il loro incarico. Nel film i ragazzi sono due, un po’ più grandi di età, mentre il capo del plotone di esecuzione è un “fascista buono” che tentenna quando deve dare l’ordine di fare fuoco perché sa che i condannati sono bravi ragazzi suoi compaesani. C’è evidentemente l’intento dei Taviani di cercare di attenuare la “condanna” del fascismo sancita dal giudizio della Storia, perché secondo loro molti dei militi in camicia nera non erano affatto “cattivi” ma eseguivano degli ordini.

Così si difendevano anche i capi del nazismo al processo di Norimberga.

Non si tratta di “infedeltà” dei Taviani nei confronti di Fenoglio, ma della cosciente volontà di stravolgere lo spirito, il significato, le ragioni intime, l’ideologia del romanzo fenogliano. Da un lato il film non dice nulla sulle ragioni, sulle motivazioni dei partigiani, e dall’altro tende a rivalutare i fascisti: mi sembra quindi molto scorretto utilizzare Una questione privata per esprimere idee molto diverse da quelle del suo autore.

La vicenda narrata nel romanzo si svolge tra Alba e Canelli, tra nebbia, freddo e pioggia continua. Milton scivola più volte nel fango, ad un certo punto è addirittura irriconoscibile per la quantità di terra che lo ricopre (tanto da prefigurare la morte e il seppellimento). Più volte l’autore insiste sulla sofferenza del protagonista a causa del freddo e dell’umidità. Il clima inclemente e il paesaggio sembrano assumere quasi l’importanza di veri e propri personaggi, sono coprotagonisti opprimenti e minacciosi.

Fotogramma tratto dal film dove si nota come il paesaggio non corrisponda a quello descritto da Fenoglio.

Ma il film non è stato girato tra i dolci declivi, i boschi, le vigne e le nebbie delle Langhe fenogliane, bensì nell’ambiente completamente diverso della Val Maira: un paesaggio aspro, brullo, costituito da distese erbose piene di una gran quantità di sassi e prive di fango. Paolo Taviani ha affermato che oggi non è possibile girare nelle Langhe un film ambientato durante la guerra perché da allora il paesaggio è stato molto modificato dall’uomo. Eppure pochi anni fa Guido Chiesa è riuscito a realizzare in quei luoghi il suo bel film Il partigiano Johnny; in ogni caso era senz’altro possibile trovare in Piemonte o in un’altra località del Norditalia delle locations simili alle Langhe. Modificando radicalmente l’ambientazione prevista dal romanzo, nel film scompare del tutto il ruolo fondamentale che Fenoglio ha attribuito al paesaggio. Scompaiono anche la fatica fisica e la sofferenza del protagonista oppresso dal freddo, dalla pioggia, dal fango. Viene modificata così la bellissima caratterizzazione del personaggio di Milton, che appare del tutto diverso rispetto al libro. Non mi sembra un cambiamento di poco conto.

Voglio citare un’altra variazione narrativa che cambia pesantemente il senso di tutta la vicenda: in una sequenza del film Milton passa accanto ai cadaveri di un gruppo di contadini uccisi dai fascisti. Vicino ad una donna morta c’è una bambina che evidentemente è viva perché si alza, entra in casa, si avvicina al lavello della cucina, riempie un bicchiere d’acqua, la beve, esce di casa e va a stendersi nuovamente accanto alla madre morta. Si tratta di un episodio che non c’è nel libro di Fenoglio. Perché i Taviani l’hanno messo nel film? Evidentemente perché pensavano che questa bella bambina avrebbe provocato la commozione negli spettatori. È uno dei modi più banali e scorretti per compiacere il pubblico e sollecitarne l’empatia.

E veniamo al bellissimo finale del romanzo. Fenoglio non dice chiaramente se Milton vive o muore sotto i colpi della milizia fascista che lo insegue. I proiettili sfrecciano intorno a lui, finché, privo di forze, cade a terra. Questo finale ha un forte rapporto con il paesaggio, con il fango che Milton dice di sentire dentro e fuori di sé. Non è importante se egli muore o no, in quanto è diventato parte del paesaggio naturale, è diventato un’entità quasi astratta, non ha più la consistenza fisica dell’eroe epico. Ma un finale inquietante, che mette il lettore di fronte alla possibilità della sconfitta e della morte non è accettabile nella logica del cinema di consumo che impone di offrire al pubblico storie consolatorie e tranquillizzanti; diversamente da Guido Chiesa, il quale aveva avuto il coraggio di concludere Il partigiano Johnny in sintonia con il testo di Fenoglio, i Taviani inventano un lieto fine, il vecchio happy end: gli spettatori possono andare a casa sereni perché l’eroe è sopravvissuto alla guerra.

È evidente che un film non potrà mai tradurre in immagini e suoni la potenza del linguaggio fenogliano, non potrà riprodurre con assoluto rigore il mondo poetico dell’autore, ma certamente

i Taviani hanno preso dal libro solamente gli elementi romanzeschi e avventurosi modificandoli in modo sostanziale, mentre hanno ignorato gli elementi epici.

Forse è inevitabile che i decenni che separano il romanzo dal film impongano un modo diverso di vedere le cose e di raccontare vicende legate alla storia del nostro Paese, ma mi pare che qui si debba tenere in considerazione non solo e non tanto il rapporto dei registi con un “vecchio” romanzo, quanto il loro rapporto con la loro stessa carriera, con gli ottimi film che hanno realizzato in passato.

Non si tratta di mettere in discussione la loro “fedeltà” a Fenoglio, ma la “fedeltà” a se stessi.

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L'asino vola
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Written by L'asino vola

scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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