Un aspetto della rivoluzione in Rojava: l’eliminazione dello stato.
Pubblichiamo un articolo di Davide Grasso, scritto nel 2016 nella Siria del nord mentre combatteva con le Ypg. Questo scritto è già stato pubblicato, nella primavera dello scorso anno, in Infoaut. Org e ora lo riproponiamo nell’intento di richiamare l’attenzione dei nostri lettori su uno dei punti più problematici e più delicati di ciò che sta avvenendo nel mondo. L’articolo precedente di Davide Grasso da noi messo in rete intendeva, infatti, aprire una riflessione su ciò che sta succedendo nello scacchiere di guerra mediorientale e sul tipo di informazione che noi abbiamo su questo evento. Quest’ultimo scritto prende invece in considerazione ciò che veramente avviene in Rojava dal punto di vista politico e sociale e della cultura che sta alla base di determinate scelte.
Nel testo compaiono parentesi quadre: abbiamo chiesto a Davide Grasso di chiarire, per noi italiani che appunto ne sappiamo tanto poco, sigle e località in modo che il lettore, a partire da noi, riesca a meglio comprendere ciò di cui si sta parlando.
(a.s. e g.l.)
La rivoluzione ha eliminato lo stato?
di Davide Grasso
Quando le manifestazioni di piazza diedero luogo alla formazione di gruppi armati, in Siria, nel 2011, il governo di Damasco intervenne con una dura repressione militare, mentre Stati Uniti, Turchia, Qatar e Arabia Saudita fecero confluire verso le opposizioni un grande quantitativo di denaro e armi, sperando in un rapido crollo del potere di Assad. Ne conseguì il caos in tutto il paese, e il gruppo Jabat Al-Nusra (Al-Qaeda in Siria) tentò di occupare alcune città del nord, ad esempio Serekaniye, al confine con la Turchia. Si formarono allora le unità di protezione popolare (Ypg) tra la maggioritaria popolazione curda di quell’area, che riuscirono a cacciare i salafiti [Al-Nusra] dopo duri scontri. Tuttavia, le armi delle Ypg furono allora rivolte contro i soldati di Damasco. Era il luglio 2012. “Quella fu una rivoluzione, una rivoluzione vera” racconta Novin, ragazza di 24 anni originaria di Hassake [importante città del Rojava]. La versione edulcorata, secondo cui il governo siriano “consegnò” pacificamente il Rojava ai curdi per occuparsi degli islamisti nell’occidente e nel sud del paese, non trova riscontri tra chi ha vissuto gli eventi:
“Furono combattimenti sanguinosi, e alla fine il governo si dovette ritirare”.
Perché questa ostilità dei curdi nei confronti di Assad? Decenni di discriminazioni e persecuzioni politiche da parte del partito Baath [partito nazionalista arabo], oltre che di colonizzazione araba dei territori curdi, hanno svolto un ruolo. Ancora oggi moltissimi abitanti del Rojava, pur essendo nati in Siria, non hanno né il passaporto, né la cittadinanza siriana, per il solo fatto di essere curdi: cittadini di serie B come i palestinesi in Israele, tanto cari — per ragioni strumentali, a quanto pare — al governo siriano.
“Parlare curdo era proibito — racconta Raperin, 18 anni — e nelle scuole si apprendeva soltanto la lingua, la storia e la cultura araba. La nostra colonizzazione non era soltanto territoriale, era molto più profonda”.
Poi, nel 2003, gli Stati Uniti invasero l’Iraq, e il Kurdistan iracheno, nel 2004, fu a un passo dall’autonomia: in quei mesi una squadra araba fu ospitata allo stadio di Qamishlo, in Rojava, nel campionato di calcio siriano, e dagli spalti ospiti iniziarono a provenire cori in favore di Saddam Hussein e contro i curdi.
“Gli scontri che seguirono lasciarono decine di morti sul terreno, soprattutto perché la polizia siriana intervenne a senso unico contro i curdi” ricorda Shiar, di Amude [piccola città del Rojava].
Quando le Ypg, otto anni dopo, rivolsero le armi contro la poesia siriana, quelle stesse divise, nel caos del 2012, avevano bene in mente quegli eventi. Quando il territorio fu liberato quasi completamente dalle truppe governative, il Pyd (partito di unione democratica ispirato alle idee di Abdullah Ocalan) si fece promotore di un incontro tra tutte le principali organizzazioni politiche, sociali e religiose curde, arabe, assire, armene ed ezìde [minoranza religiosa] della regione, che trovarono un accordo per la costituzione di un consiglio esecutivo per ogni cantone del Rojava, che esercitasse le funzioni di governo del territorio.
L’influenza del Pyd permise che ad ogni alto consigliere fosse affiancato un o una collega uomo o donna, in modo che entrambi i generi fossero rappresentati, per ogni carica, al 50%.
Nel frattempo il Pyd coinvolse altre organizzazioni anche nella costituzione del Tev Dem (movimento della società democratica), che avrebbe dovuto operare nella società per supportare la popolazione nella creazione di forme di autogoverno economico, politico, sociale, militare.
Le forze che avevano costituito il consiglio esecutivo crearono nel gennaio 2014 il consiglio legislativo, in cui una cinquantina di organizzazioni esprimono rispettivamente un uomo e una donna in funzione di rappresentanti. La struttura della rivoluzione in Rojava è quindi a un tempo dissimile e analoga rispetto a quella delle rivoluzioni comuniste dell’Europa orientale. In quei paesi, in termini generali, il partito esercitava la funzione di motore rivoluzionario (o conservatore, a seconda delle fasi e dei punti di vista) e i governi (a loro volta, sostanzialmente, a partito unico) svolgevano l’ordinaria funzione esecutiva, in un rapporto concepito come dialettico tra stabilità e movimento. Nel sistema proposto da Ocalan nei suoi scritti dal carcere, che il Pyd ha concretizzato in Rojava, questa dialettica è conservata, ma il rapporto tra istituzioni esecutive/legislative e movimento rivoluzionario è diverso nella misura in cui il partito si ritrae (intenzionalmente) in una funzione organizzativa e di riproduzione della soggettività politica, lasciando a una pluralità di voci sociali la costruzione concreta della trasformazione, e non rinunciando alla propria suprema velleità di estinzione all’interno del movimento stesso.
I quadri del Pyd sono presenti tanto nel Tev Dem quanto altrove, benché il loro obiettivo sembri essere più riprodurre una soggettività sociale attiva, cui “affidare” il compito rivoluzionario in un continuo allargamento e in una continua autonomizzazione della base sociale coinvolta, che occupare semplicemente i luoghi chiave come organizzazione “separata”. Non a caso è difficile trovare “esponenti del Pyd” nelle istituzioni del Rojava, benché sia frequente che alcune persone siano semplicemente (e alquanto misteriosamente) indicate come “quadri” della rivoluzione. Questo modo di agire sembra essere dettato da una pacata, ma determinata consapevolezza della lezione storica offerta dai fallimenti politici del socialismo passato.
“Il loro lavoro è organizzare qualcosa, affinché quel qual cosa possa camminare da solo” spiega un compagno europeo a Qamishlo [importante centro urbano del Rojava]; “Vanno nella regione di Jarablus [città della Siria del nord], dove ancora domina lo stato islamico, e fanno convergere tutte le forze sociali dissenzienti in un congresso “clandestino”, che costituirà il nocciolo delle future istituzioni, quando muteranno i rapporti militari nell’area”.
È ciò che i partiti curdi analoghi al Pyd — Pkk, Pjak [Partito dei lavoratori del Kurdistan e Partito della vita libera del Kurdistan] — stanno facendo in Turchia e Iran, dove il Dtk e il Kodar, rispettivamente, sono realtà analoghe al Tev Dem siriano: luoghi dove la pratica organizzativa, politica e produttiva, può realizzarsi con tutte le realtà sociali che intendono agire in modo autonomo nei diversi stati.
Le istituzioni del Rojava, tuttavia, sono o prefigurano a loro volta uno stato?
Ad Amuda, capitale amministrativa provvisoria del cantone di Cizire, il tribunale cittadino non appare molto diverso da qualsiasi altro tribunale: nella sala accanto, il procuratore generale (che dipende dal consiglio esecutivo) sta interrogando un uomo con una sua collega, e nel cortile c’è la prigione (“una prigione a cinque stelle, ve lo assicuro, dove offriamo ottimi pasti”, dice uno dei giudici che si aggirano per lo stabile). I giudici non hanno toghe, e hanno un aspetto bonario e popolare, ma quando si parla di leggi e di condanne ci si rende conto che l’apparenza può ingannare. Sharine, la giudice che da più tempo svolge questo compito, spiega che il collegio giudicante è eletto da un consiglio popolare cittadino di 180 membri. Quando il collegio non ritiene che sia possibile emanare un verdetto dopo la prima seduta, il consiglio cittadino e le comuni di quartiere esprimono una giuria di quindici membri; se il caso è particolarmente grave, il giudizio di colpevolezza è espresso da cento membri scelti allo stesso modo tra il popolo, poi il procuratore stabilisce la pena.
Il corpo giuridico, spiega Sharine, resta in parte quello della tradizione, che nelle società musulmane non ha mai smesso di esercitare la sua autorità attraverso notabili, conoscitori della legge coranica e sheik (personalità locali prominenti), in parte quello dettato dai lavori recenti del consiglio legislativo del Rojava, in parte quello sedimentato negli anni dallo stato siriano: necessariamente, sul piano giuridico, la rivoluzione procede per decreti e riforme, modifica per interventi specifici l’eredità giuridica della regione. Ciò che i giudici del Rojava tengono a chiarire, però, sono due cose. In primo luogo, nel nuovo sistema la tradizione è rispettata (anzitutto per ragioni di consenso popolare) ma anche sfidata. Ad esempio sono vietate tanto la poligamia quanto il matrimonio contratto con minori, e se il delitto d’onore per adulterio era, prima della rivoluzione, considerato una sorta di legittima difesa, adesso l’adulterio, di entrambi i sessi, comporta, sì, sei mesi di prigione (nota bene: sostituiscono la morte), ma il delitto d’onore è punito con un minimo di cinque anni, e la donna che uccide il proprio aggressore non è considerata colpevole (inoltre, per ogni caso giudiziario che riguardi una donna, la casa delle donne della comune di quartiere in cui abita l’interessata, scrive una lettera al giudice esprimendo un punto di vista completamente femminile sul caso di cui si discute).
In secondo luogo — ed è un elemento su cui tutti qui, come in Bakur [Kurdistan del nord, oggi interno ai confini della Turchia], insistono — la differenza fondamentale con i sistemi giudiziari occidentali è che soltanto una media di un terzo delle controversie sociali arriva al tribunale. Tutte le altre vengono risolte dalle comuni — assemblee di quartiere — attraverso accordi tra le parti e punizioni di lieve entità. Esiste un sistema sussidiario per cui i tribunali non funzionano, come nei sistemi giudiziari europei, a pieno regime per tutti i casi, secondo l’idea (peraltro disattesa) che ogni evento debba essere catalogato secondo un codice, civile o penale, ossia secondo un criterio generale e neutrale: l’auspicio della società rivoluzionaria, almeno in Rojava, è che non si debba affatto ricorrere a un giudice né a una giuria popolare, e tantomeno chiamare a raccolta centinaia di persone per valutare se una persona è colpevole, e chiedere al procuratore per quanto tempo dovrà stare in prigione. Nelle comuni, spiegano al tribunale, le persone si conoscono da vicino, hanno confidenza e conoscono le personalità e gli antefatti e — assicura Kaukeb, giovane giudice donna — trovano nella stragrande maggioranza dei casi una soluzione.
Ciò che appare fondamentale comprendere, a ben vedere, è che lo sguardo sulle istituzioni che più ricalcano il modello liberale toquevilliano (esecutivo, legislativo, giudiziario) o quello socialista, sia pur rivisto (dialettica movimento/istituzioni) non esaurisce che una minima parte della vita politica e istituzionale del Rojava: le comuni, che qui abbiamo menzionato in coda, costituiscono in realtà il vertice del sistema: promuovono proposte e soluzioni che hanno per i consigli cittadini e cantonali un valore ben superiore a quello di un semplice suggerimento; Ghalia, della casa del popolo di Amude, spiega che una singola comune può ottenere la rimozione di un qualsiasi funzionario, anche ai massimi livelli. Oltre a risolvere le controversie con i “comitati di soluzione” eletti presso le case del popolo, le comuni avviano attività economiche cooperative, selezionano volontari per la difesa dei quartieri (le Hpc, “forze di difesa sociale”), propongono leggi per il cantone al consiglio legislativo. È così che si estingue lo stato, chiediamo a Ghalia?
“Le comuni sono pensate ‘contro’ i consigli superiori: ne limitano il potere ed esercitano a loro volta un potere dal basso, che è predominante rispetto a quello dall’alto: questa è la differenza con il sistema statale”.
Il movimento curdo sfida lo stato sul piano del concetto, prima ancora che della storia: la nozione di stato qui appare immaginata in relazione a un modo di organizzare le istituzioni, più che all’esistenza stessa delle istituzioni; e soprattutto a un modo di pensarne la funzione. (Il movimento del Rojava propone una visione che, lungi dal dover essere accolta acriticamente o liquidata con saccenza, può essere utile a coloro che articolano una critica dello stato, per tornare a chiedersi che cosa sia, a ben vedere e in ultima analisi, lo stato). Le comuni e le case del popolo cittadine, ad esempio, hanno anche un’importante funzione burocratica: delle ragazze passano a chiedere il permesso per uscire dal Rojava (perché ci vuole un permesso…), sebbene esso dovrà essere controtimbrato da consiglio cittadino e consiglio cantonale; e un altro ragazzo chiede l’esenzione dal servizio militare, introdotto di recente dal consiglio legislativo, per motivi di studio, e dovrà seguire un analogo iter.
Questa funzione burocratica non ricorda ampiamente, ancora una volta, il funzionamento di uno stato? Un compagno presente alla casa del popolo offre una risposta di diverso tenore:
“Qui la gente ha cose pratiche da risolvere e a cui pensare, vive nella povertà e nella guerra, e non gliene frega nulla delle questioni di lana caprina: vuole che i problemi sociali e della vita di tutti i giorni siano risolti”.
Ghalia, da dietro il velo a fiori che le copre il capo, e con il suo sguardo da vecchia mamma comprensiva, aggiunge con calma: