Un mito persistente: il superuomo
di Gigi Livio
Rapida premessa. A causa della lettura a schermo, che tende a abolire le sfumature della scrittura, mi sembra opportuno segnalare all’eventuale lettore le precise intenzioni di Gramsci nello scrivere questa pagina. Egli infatti non intende svolgere un discorso estetico né, tanto meno, di storia e critica della filosofia, ma affrontare un problema di carattere antropologico che include anche l’indagine su ciò che dalla letteratura e dalla filosofia “alte” trapassa in quella bassa o di consumo.
Il meccanismo descritto da Gramsci si può applicare tale e quale al plot di molte fiction, come oggi con molta approssimazione si dice, e soprattutto, anche se non solo, a quelle statunitensi.
Il motivo da cui scaturisce questo desiderio, tutto moderno nel senso analizzato da Gramsci, di primeggiare sugli altri è molto chiaramente illustrato nel brano che riportiamo là dove si esemplifica questa spinta psicologica con la
“fortuna particolarmente grande in chi è proprio e irrimediabilmente pecora” a proposito del motto, celebre ancora oggi ma diffusissimo nell’epoca fascista, “meglio un giorno da leoni che cento da pecora”.
Ovviamente, a questo punto, è impossibile evitare il rimando a d’Annunzio e al dannunzianesimo. Al proposito è certamente da sottolineare il forte divario in questo caso tra il pensiero del maestro e quello dei suoi seguaci. Il fatto è che anche il peggior nemico di d’Annunzio non può negare alle sue opere non solo un’alta dignità stilistica, anche se non a tutte e non sempre, ma anche un certo spirito critico parziale e discutibile, beninteso, nei confronti della sua stessa concezione superumana. Tutto ciò nei suoi seguaci o non trapassa o lo troviamo appena accennato e, comunque, come soprammesso, non scaturito dal cuore stesso dell’opera. Della schiera dei dannunziani fanno parte i soggettisti, i registi, gli attori e le attrici di quel cinema italiano che è l’antesignano della fabbrica dei sogni hollywoodiana e cui già Pirandello, nel 1915, portò una critica spietata e demolitrice nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Questi sogni, indotti diciamo così, diventano subito un’arma vincente dell’industria culturale; ma per raggiungere la massima efficacia nel vellicare fino in fondo l’immaginazione di chi era irrimediabilmente pecora. Questi film dovevano esaltare e volgarizzare quanto più è possibile il superomismo dei dannunziani cercando di variare in tutti i modi possibili le trame basate su questo mitologema.
Non ci deve certo stupire il fatto che oggi l’industria culturale statunitense sfrutti fino in fondo lo stesso meccanismo:
in un mondo in cui troppi dicono che è cambiato tutto, il pensatore dialettico si accorge per certo che molte cose sono rimaste come erano,
limitandosi a perdere quel minimo di dignità formale che allora si presentava ancora come scopo, se pure ormai secondario, e che oggi è diventato un semplice mezzo.
Si potrebbe fare un esempio, quello di The Blacklist dove il protagonista, recitato da James Spader, è un superdelinquente che decide improvvisamente, e senza apparenti motivazioni, di passare dalla parte della giustizia.
Intelligente e astuto egli è un “vincitore” che fa sempre scacco matto. Significativo, dal punto di vista della superomizzazione del personaggio è come ci viene presentato fin dalle prime scene quando, per prenderlo in custodia, un numero di poliziotti assolutamente spropositato lo attende nel luogo dove ha deciso di costituirsi. Viene poi rinchiuso in una cella super tecnologica costruita apposta per lui, naturalmente, dalla quale uscirà per poi diventare uno strano e particolare consulente della polizia che risolverà i casi più difficili, magari approfittandone per eliminare, di quando in quando, qualche suo nemico personale. E così capiamo forse perché si è costituito. L’impianto narrativo segue le strutture dumasiane, e in genere, dei personaggi superomistici della letteratura romanzesca d’avventura.
Questo mitologema non è ovviamente soltanto alla base della concezione di The blacklist. Anche House of Cards è basato su un meccanismo del genere e anche lì l’eroe, come il Reddington di The blacklist, subisce molte vicissitudini ma le sue capacità superumane gli permettono di raggiungere sempre, alla fine, lo scopo. Non conosco i finali dei due telefilm di cui sto parlando ma si può immaginare che non saranno favorevoli ai due protagonisti se non altro per il moralismo che sottostà a questo tipo di produzione. La differenza con l’analoga struttura dei romanzi e dei drammi dannunziani, in cui il super uomo fallisce sempre per esplicita colpa o della società borghese, che non sa più apprezzare l’arte e la bellezza, è questa: nei telefilm in questione la sconfitta (eventuale e da me soltanto immaginata) sarebbe invece dovuta al destino cinico e baro, che è altra cosa come mi sembra evidente.
Curioso è l’accostamento che si può fare tra telefilm di questo genere, tutti di matrice hollywoodiana o più in generale statunitense, e alcuni altri che vengono programmati in questo periodo su Sky, prodotti invece in Francia o in Inghilterra.
La cultura francese, che non è certo estranea a personaggi di tipo superomistico (vedi appunto ciò che dice Gramsci, con molta cautela, di Balzac e, decisamente con minor cautela, di Dumas, oltre all’accenno estremamente garbato a Stendhal) usa però, normalmente, una certa ironia, struttura retorica totalmente ignota ai telefilm statunitensi e anche se, per malo e smodato uso l’ironia oggi non salva più nessuno, rimane comunque un sintomo di una sorta di distacco che attori, registi e soggettisti prendono nei confronti dei loro personaggi dotati di poteri non del tutto comuni, cosa che appare evidente in due telefilm che
provengono da quella cultura Profilage (Profiling) e Cherif: nel primo, infatti, Odile Vuillemin riesce ad incarnare una poliziotta-psicologa dotata di notevole intelligenza con una recitazione tutta sopra le righe al limite del grottesco.
Per non farla troppo lunga mi limiterò a citare due serie televisive inglesi che invece ci presentano un’investigatrice e un investigatore molto particolari: la prima, che si intitola Vera, come la protagonista,
ci presenta una Brenda Blethyn, notevolmente imbruttita e non più giovane, che alla fine risolve ugualmente i casi ma giungendo alla soluzione con difficoltà e non con particolare spolvero. In DCI Banks, poi, il protagonista, Stephen Tompkinson, si comporta più o meno come la collega, nella recitazione e nella finzione, Vera. Si tratta, insomma, di persone più o meno normali che, nella vita, fanno gli investigatori. Che questa non sia una risposta concorrenziale allo strapotere della fabbrica dei sogni hollywoodiana? Ma qui, a voler andare a fondo per cercare di rispondere a questa interrogazione, si aprirebbe il discorso sul “realismo” e sulla possibilità o meno che questo si possa realizzare all’interno di una struttura industriale.
Discorso da affrontare altra volta, se altra volta avrà a esserci, ovviamente.
Origine popolaresca del «superuomo».
Ogni volta che ci si imbatte in qualche ammiratore del Nietzsche, è opportuno domandarsi e ricercare le sue concezioni «superumane», contro la morale convenzionale, ecc. ecc., siano di pretta origine nicciana, siano cioè il prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della «alta cultura», oppure abbiano origini molto più modeste, siano, per esempio, connesse con la letteratura d’appendice. ( E lo stesso Nietzsche non sarà stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d’appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il cosiddetto romanzo «giallo»). In ogni modo pare si possa affermare che molta sedicente «superumanità» nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zaratustra ma il conte di Montecristo di A. Dumas. Il tipo più compiutamente rappresentato dal Dumas in Montecristo trova, in altri romanzi dello stesso autore, numerose repliche: esso è da identificare, per esempio, nell’ Athos dei Tre Moschettieri, in Giuseppe Balsamo e forse anche in altri personaggi.
Così, quando si legge che uno è ammiratore del Balzac, occorre porsi in guardia: anche nel Balzac c’è molto del romanzo d’appendice. Vautrin è anch’egli, a suo modo, un superuomo, e il discorso che egli fa a Rastignac nel Papà Goriot ha molto di… nicciano in senso popolaresco; lo stesso deve dirsi di Rastignac e di Rubempré. […]
Che si abbia un certo pudore a giustificare mentalmente le proprie concezioni coi romanzi di Dumas e Balzac, si intende facilmente: perciò le si giustifica col Nietzsche e si ammira Balzac come scrittore d’arte e non come creatore di figure romanzesche del tipo appendice. Ma il nesso reale pare certo culturalmente.
Il tipo del «superuomo» è Montecristo, liberato di quel particolare alone di «fatalismo» che è proprio del basso romanticismo e che (è) ancor più calcato in Athos e in G. Balsamo. Montecristo portato nella politica è certo oltremodo pittoresco: la lotta contro i «nemici personali» del Montecristo, ecc.
Si può osservare come certi paesi siano rimasti provinciali e arretrati anche in questa sfera in confronto di altri; mentre già Sherlock Holmes è diventato anacronistico per molta Europa, in alcuni paesi si è ancora a Montecristo e a Fenimore Cooper (cfr «i selvaggi», «pizzo di ferro», ecc).
Cfr il libro di Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (Edizione della Cultura): accanto alla ricerca del Praz, sarebbe da fare quest’altra ricerca: del «superuomo» nella letteratura popolare e dei suoi influssi nella vita reale e nei costumi (la piccola borghesia e i piccoli intellettuali sono particolarmente influenzati da tali immagini romanzesche, che sono come il loro «oppio», il loro «paradiso artificiale» in contrasto con la meschinità e le strettezze della loro vita reale immediata): da ciò la fortuna di alcuni motti come: «è meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora», fortuna particolarmente grande in chi e proprio e irrimediabilmente pecora. Quante di «queste pecore» dicono: oh! avessi io il potere anche per un giorno solo ecc.; essere «giustizieri» implacabili è l’aspirazione di chi sente l’influsso di Montecristo. Adolfo Omodeo ha osservato che esiste una specie di «manomorta» culturale, costituita dalla letteratura religiosa, di cui nessuno pare voglia occuparsi, come se non avesse importanza e funzione nella vita nazionale e popolare. A parte l’epigramma della «manomorta» e la soddisfazione del clero che la sua speciale letteratura non sia sottoposta a un esame critico, esiste un’altra sezione della vita culturale nazionale e popolare di cui nessuno si occupa e si preoccupa criticamente ed è appunto la letteratura d’appendice propriamente detta e anche in senso largo (in questo senso vi rientra Victor Hugo e anche il Balzac). In Montecristo vi sono due capitoli dove esplicitamente si disserta del «superuomo» d’appendice: quello intitolato «Ideologia», quando Montecristo si incontra col procuratore Villefort e quello che descrive la colazione presso il visconte di Morcerf al primo viaggio di Montecristo a Parigi. E’ da vedere se in altri del Dumas esistono spunti «ideologici» del genere. Nei Tre moschettieri, Athos ha più dell’uomo fatale generico del basso romanticismo:in questo romanzo gli umori individualistici popolareschi sono piuttosto solleticati con l’attività avventurosa ed extralegale dei moschettieri come tali. In Giuseppe Balsamo, la potenza dell’individuo è legata a forze oscure di magia e all’appoggio della massoneria europea, quindi l’esempio è meno suggestivo per il lettore popolaresco. Nel Balzac le figure sono più concretamente artistiche, ma tuttavia rientrano nell’atmosfera del romanticismo popolaresco. Rastignac e Vautrin non sono certo da confondersi coi personaggi dumasiani e appunto perciò la loro influenza e più «confessabile». […] Da avvicinare al Balzac è lo Stendhal con la figura di Giuliano Sorel e altre del suo repertorio romanzesco.
A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. Gerratana, Quaderno 16, 1933–1934.