Una didattica per il XXI secolo o il degrado della scuola?
di Guido Baldi
Sulla «Stampa» del 19 dicembre 2017 è uscito un articolo di Andrea Gavosto, intitolato Un insegnamento più europeo passa per il lavoro di gruppo, che tocca vari aspetti della scuola di oggi. Vale la pena di esaminare e discutere le posizioni del direttore della Fondazione Agnelli, che alla scuola dedica spesso la sua attenzione sul quotidiano, per chiarire alcune questioni di centrale rilevanza e discuterne altre.
Il numero di allievi per classe
La prima osservazione dell’articolo è che l’Italia è uno dei paesi dell’OCSE con meno allievi per docente. Espressa in questa forma l’affermazione apre al lettore il quadro ideale e invidiabile di classi con un piccolo numero di allievi, in cui è bello lavorare: ma in realtà, come tutti sanno (o almeno dovrebbero sapere) le cosa stanno proprio all’opposto. Ciò che Gavosto non dice, e non può non sapere, è che il fatto che in Italia ci siano meno allievi per docente è un puro fatto statistico, qualcosa di simile ai polli di Trilussa. Deriva dal fatto che la scuola italiana esige un maggior numero di insegnanti perché ha un ventaglio molto più ampio di discipline, tutte obbligatorie all’interno di un determinato indirizzo, senza possibilità di opzioni: quindi questi insegnanti, anche se sono tanti rispetto al numero complessivo nazionale degli studenti, si trovano egualmente con classi molto numerose.
La legge che poneva il limite di 25 allievi per classe, che per anni ha funzionato, offrendo le condizioni per una didattica decente, almeno per il rapporto docente-studenti, è stata ormai superata e le classi sono tornate regolarmente sopra i trenta componenti, e spesso ben oltre. E questo per pure ragioni economiche, perché con le risorse scarse concesse dalla crisi di questi anni si è scelto di tagliare nel campo dell’istruzione, con pesanti ricadute negative sulla sua qualità: proprio mentre si proclamava che investire nella scuola era uno dei modi essenziali per rilanciare la crescita.
Ora è ovvio che una didattica decente dinanzi a 35 ragazzi o più è molto difficile, e in certi casi di classi problematiche è praticamente impossibile: chi fa la professione di insegnante lo sa bene, e dovrebbero saperlo tutti, ma evidentemente chi dirige l’istruzione pubblica se lo sa non se ne cura affatto. Nelle classi troppo affollate non si può instaurare un proficuo rapporto personale con ogni allievo, né di conseguenza si riesce a commisurare l’insegnamento alle esigenze peculiari del singolo. Non resta che una didattica standardizzata, la classica lezione ex cathedra a trentacinque teste chine di ragazzi che prendono appunti zitti zitti (nella migliore delle ipotesi), lezione che potrebbe benissimo essere sostituita da una registrazione in dvd. Poi le verifiche dell’apprendimento si conducono con i quiz a crocette, perché colloqui orali con tanta gente richiederebbero troppo tempo, e il gioco è fatto.
Non si tiene conto né di chi è più lento nell’apprendere e ha bisogno di particolari cure, che così resta indietro, né di chi ha più facilità e potrebbe proseguire a maggiore velocità, che si trova frustrato a segnare il passo.
In tal modo si rischia di perdere allievi che opportunamente seguiti potrebbero raggiungere un profitto soddisfacente, e non si valorizzano le possibilità di altri. Oggi poi che è problematico motivare allo studio giovani distratti da infinite altre attività, con una didattica standardizzata non si riesce a soddisfare i loro interessi, che magari sono più vivi in un campo rispetto a un altro, mentre opportunamente stimolati tutti gli allievi potrebbero arrivare a una partecipazione più intensa e a risultati migliori.
L’assunzione del personale docente
Gavosto ricorda che sino alla fine degli anni Novanta gli insegnanti erano selezionati attraverso un concorso nazionale, e la pratica è stata ripresa solo nel 2012. Fa poi notare che nel lungo intervallo le assunzioni sono avvenute unicamente attraverso graduatorie a scorrimento, in cui il criterio essenziale era l’anzianità di servizio. I docenti, inoltre, provengono da percorsi di formazione variegati, in cui contano soprattutto le conoscenze disciplinari, pochissimo le capacità didattiche: per cui il meccanismo è inadeguato a garantire la qualità.
Sono osservazioni ineccepibili. Ma c’è da aggiungere che il non bandire concorsi per anni ha dato origine a una massa impressionante di insegnanti precari, il cui assorbimento ha creato e continua a creare gravi problemi. Il primo effetto è che questa massa da smaltire ha impedito l’ingresso nella scuola di forze fresche, i giovani nel frattempo usciti dalle università, che sono andati a incrementare il numero dei disoccupati o dei “cervelli in fuga” all’estero. Ora poi l’immissione in ruolo di un certo numero di precari ormai in servizio da anni, istituita dalla cosiddetta “Buona Scuola” (bell’esempio della figura retorica dell’antifrasi, da usare a lezione), ha costretto a spostarsi da un capo all’altro della penisola i nuovi “assunti a tempo indeterminato”, come oggi si dice, magari a oltre 50 anni di età, con famiglia, e con i disagi e i pesi economici facilmente immaginabili.
Ma l’essenziale da osservare è che una massa di precari costa allo Stato molto meno che un egual numero di docenti di ruolo, perché un precario resta sempre allo stipendio iniziale (peraltro piuttosto modesto), non ha progressioni di carriera, e in molti casi non è nemmeno pagato nei mesi estivi.
Quindi mantenere tanti precari nella scuola risponde evidentemente a un bruto calcolo economico, che non tiene minimamente conto della qualità del servizio che essa dovrebbe fornire.
Perché il precario non è stabile sul suo posto, sta un anno qui, un anno là, col risultato che viene compromessa la continuità didattica, che è una condizione imprescindibile per il buon funzionamento di una classe. Il cambio continuo di insegnanti, magari all’interno dello stesso anno, con relativo cambio di metodi di insegnamento e di criteri di valutazione, disorienta inevitabilmente gli allievi, con ricadute a volte gravemente negative sulla loro formazione. Il danno quindi, oltre che sui docenti, si riversa anche sui fruitori del servizio della scuola.
Inoltre l’immissione in ruolo senza concorso non consente una verifica seria ed efficace delle competenze e della capacità didattiche, e anche questo si riversa negativamente sulla qualità dell’insegnamento (trovare sistemi efficaci di verifica è un altro nodo essenziale, ma esigerebbe lunghi discorsi). Dinanzi a questo sistematico processo di dequalificazione della scuola viene da pensare che non nasca solo da incapacità, inefficienza, poca intelligenza, indifferenza, ma che vi sia un disegno preciso e premeditato.
Cui prodest che la scuola sforni giovani sempre più ignoranti, privi di strumenti per leggere la realtà, carenti di spirito critico? Lascio la risposta al lettore.
Retribuzione e orario di lavoro degli insegnanti
Gavosto rileva che gli insegnanti italiani sono retribuiti meno della media di quelli dei paesi avanzati, ma d’altro canto il loro orario di lavoro è più breve, solo 18 ore di insegnamento frontale. È un vecchio luogo comune che gli insegnanti in Italia abbiano un orario di lavoro troppo leggero, e lo si sente sempre ripetere con acrimonia da un’opinione comune che della scuola in genere non sa nulla. Si è quindi presi dallo sconforto a udirlo anche proferire da quello che dovrebbe essere un “esperto” nel campo. Che negli altri paesi gli insegnanti abbiano orari di lezione più pesanti (ma non sempre e non dovunque) è un fatto, ma semmai ridonda a favore della scuola italiana.
Quello che l’opinione pubblica ignora, o non vuol sapere, è che le ore in classe sono solo la punta dell’iceberg, come si suol dire, del lavoro dell’insegnante. A parte le infinite (e spesso inutili) riunioni e la compilazione di egualmente inutili scartoffie burocratiche, a parte la preparazione di prove varie e la loro gravosa correzione, che richiede un numero infinito di ore, il lavoro del professore è anche, e soprattutto, studiare. L’opinione pubblica che ignora questo aspetto pensa evidentemente che una volta conseguito il suo bravo pezzo di carta il docente sappia tutto ciò che deve sapere e possa non aprire più un libro per il resto dei sui giorni. Invece il professore degno di questo nome deve studiare tutta la vita, per arrivare a dominare in modo adeguato il campo vastissimo della propria disciplina (si pensi solo, ad esempio, alla miriade infinita degli autori della letteratura italiana, e alla massa di studi critici che si è accumulata su di essi), e poi per tenersi aggiornato sugli orientamenti critici e culturali più recenti, sulle metodologie, nonché sulle discipline concomitanti: non è solo un’impostazione interdisciplinare a richiederlo, ma anche l’insegnamento della propria singola materia lo esige. Ad esempio chi insegna letteratura italiana può ignorare gli sviluppi degli studi classici, della linguistica, della filosofia, della storiografia, della storia dell’arte, della pedagogia, delle scienze umane, dell’epistemologia? E studiare esige un tempo enorme, ore e ore al giorno. Non è un impegno a latere, opzionale, una specie di hobby lasciato alla discrezione e alla buona volontà del singolo, è una parte integrante, imprescindibile, del lavoro dell’insegnante, senza la quale nel giro di pochi anni dopo la laurea egli si ridurrebbe a una macchinetta che ripete sempre le stesse cose, sempre più vecchie e superate.
Il problema, quindi, non è aumentare l’orario di lezione dei professori, ma verificare che questo lavoro essenziale di studio venga svolto. In un mio volume dedicato alla didattica, La sfida della scuola. Crisi dell’umanesimo e tradizione del dialogo, ho avanzato in merito una ipotesi, che qui ripropongo: una verifica periodica, ogni due o tre anni, sulla lettura di un certo numero di libri fondamentali, da tenersi come discussione di fronte a una commissione di docenti universitari. E l’esito positivo di questa verifica dovrebbe essere richiesto per il passaggio a ulteriori classi di stipendio, o ad altre funzioni all’interno della scuola, che possano costituire una progressione di carriera.
La progressione di carriera dei docenti
Gavosto sottolinea che per i docenti non esiste progressione di carriera, ma si hanno solo scatti di anzianità, non sussiste differenza retributiva sulla base delle competenze e dell’impegno. È un discorso che si sente fare spesso, «I migliori insegnanti dovrebbero essere pagati di più». Ma avrei una sola obiezione, suggerendo di porsi dal punto di vista di chi fruisce del servizio: se si riconosce ufficialmente che ci sono insegnanti più bravi, pagandoli meglio, che cosa diranno le classi a cui toccano gli altri, quelli che il sistema stesso riconosce che sono meno bravi o non lo sono affatto? Avranno tutte le ragioni di protestare: «Perché proprio a noi? non abbiamo anche noi il diritto di avere un insegnamento di qualità?». A questa protesta che cosa si potrebbe rispondere? Dire cinicamente: «Pigliatevi rassegnatamente quello che passa il convento»?
L’aporia mette in evidenza un principio elementare da rispettare: il problema non è pagare meglio i più bravi, ma creare un corpo docente di qualità omogenea, nelle competenze come nell’impegno: e a questo fine occorrerebbe impiegare i metodi più opportuni di formazione, selezione, reclutamento, aggiornamento continuo e verifica dell’impegno e del lavoro svolto. Il che non vuol dire un corpo docente composto di cloni: l’importante è l’omogeneità del livello qualitativo, poi all’interno di esso ogni docente potrà sviluppare liberamente la propria personalità, i propri metodi, la propria prospettiva culturale, le proprie scelte, in nome della libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione.
Quanto alla progressione di carriera svincolata dalla pura anzianità di servizio, si potrebbero introdurre nella scuola altre figure professionali e lavori diversi dal puro insegnamento, a cui potrebbero rivolgersi gli insegnanti che ne avessero le competenze necessarie. Ad esempio valorizzando la figura dell’ispettore, con l’attribuzione di compiti di sistematica verifica del lavoro degli insegnanti e ampliando opportunamente la categoria; o ancora istituendo altre figure professionali all’interno del singolo istituto o di collegamento tra istituti diversi, incaricate di elaborare e organizzare iniziative di sperimentazione e di aggiornamento, progetti per l’utilizzo didattico delle tecnologie, per l’orientamento, per la lotta alla dispersione, o tante altre attività da individuare.
Aumenti di stipendio legati al puro e semplice aumento del carico di ore di lezione, indicato da Gavosto come necessario, sarebbero assolutamente da escludere, per non sottrarre tempo prezioso ed energie a quella parte essenziale del lavoro del docente che è costituita dallo studio e dall’aggiornamento, e quindi per non peggiorare la qualità del servizio prestato. Ma oltre a questo, che già sarebbe molto grave, accrescere il carico orario ai professori significherebbe ridurre i posti di lavoro disponibili, quindi sbarrare ulteriormente ai giovani l’accesso all’insegnamento e condannarli ancor più alla disoccupazione o all’emigrazione.
La rete, la trasmissione delle conoscenze e l’acquisizione del metodo
Gavosto pone poi una questione importante: che caratteristiche deve avere oggi un buon insegnante? L’articolista osserva che in Italia non sono mai stati definiti gli standard della professione dell’insegnamento. Ricorda in proposito l’immagine “romantica” delineata da un film di successo come L’attimo fuggente, un incantatore che entusiasma gli allievi e fa scattare la scintilla della conoscenza, un vero maestro. Però sostiene che questa idea di insegnante, sia pur «grande maesro», non è più adatta alla scuola del XXI secolo.
Oggi, a suo avviso, ciò che conta non è l’erudizione o il carisma individuale, «ma la capacità di lavorare in gruppo, pianificando le attività scolastiche al di là dei confini delle singole materie».
La disponibilità di informazioni in rete ha spostato l’«enfasi» (ma perché l’anglismo? Noi in italiano diremmo «l’accento») dalla trasmissione delle conoscenze allo sviluppo della competenza di ricercare, vagliare criticamente, connettere e applicare alla soluzione di uno specifico problema:
Nell’insegnamento contemporaneo non è più necessario svolgere tutto il programma di studio: paradossalmente, un gruppo di insegnanti potrebbe affrontare in tutto l’anno un solo argomento, ma fatto così approfonditamente da trasmettere agli studenti un metodo di studio utile per sempre.
In queste tesi vi sono vari punti che a nostro avviso devono essere respinti con forza. In primo luogo, che l’«erudizione» oggi nell’insegnamento non faccia più «la differenza» perché sono richieste altre abilità al docente, è un’affermazione inquietante. Tradotta, significa che un professore che ha la capacità di far lavorare gli allievi in gruppo, ricavando informazioni dalla rete, può anche essere un po’ ignorante: ma, è facile obiettare, come potrebbe un ignorante, o anche solo un individuo dotato di modesta cultura, insegnare quel metodo critico? Quindi quella avanzata da Gavosto mi sembra una prospettiva del tutto inaccettabile. Anche perché contribuirebbe a quella dequalificazione della scuola, a cui mirano tante tendenze dell’insegnamento contemporaneo: le conseguenze, come vede chiunque sia dotato del «ben de l’intelletto» (che è il Vero, secondo Dante), non potrebbero non essere disastrose per la vita civile di una nazione, che sarebbe sempre più composta di individui incapaci di porsi criticamente di fronte alla realtà e quindi manipolabili e manovrabili ad libitum dal potere.
Ma inquieta egualmente il fatto che si proponga tranquillamente l’uso delle informazioni ricavabili dalla rete come ausilio prezioso per il lavoro di una classe. In realtà, come è noto, in rete c’è di tutto, materiali validi insieme a cose immonde. Il rischio molto concreto è che i giovani, che in rete ci vivono e sono abituati a ingozzare tutto, non abbiano gli strumenti per vagliare e distinguere, e anche quando la usano per motivi di studio accettino acriticamente qualunque cosa vi trovino. Fornire gli strumenti per vagliare, correggendo quell’abitudine di utilizzo acritico ormai ben radicata, è difficilissimo, esige da parte del docente un lavoro abile, paziente, e soprattutto molto lungo, i cui risultati non sono affatto garantiti. Quindi il professore che induce i suoi studenti a utilizzare la rete per le loro ricerche può, contro ogni sua buona intenzione, contribuire a radicare in loro l’abitudine all’accettazione passiva di qualunque informazione: come se li portasse in una regione infestata da terribili malattie, senza fornire loro preventivamente gli opportuni vaccini. Di conseguenza l’ilare e irresponsabile ottimismo degli apologeti attuali dell’uso della rete per l’insegnamento va duramente stigmatizzato.
Ma ciò che ci pare più pericoloso e gravido di conseguenze negative, e quindi da respingere decisamente, è l’idea che un gruppo di insegnanti possa affrontare per tutto un anno un solo argomento. Anche ammesso che il giovane attraverso un simile lavoro acquisisse davvero un metodo poi applicabile per sempre (cosa che di per sé sarebbe auspicabile), nella sua formazione culturale resterebbero enormi, spaventose zone vuote e buie, che quasi certamente non colmerebbe mai più, nonostante il possesso del «metodo»: che resterebbe in tal caso un patrimonio puramente potenziale. Cioè il giovane uscirebbe dalla scuola spaventosamente ignorante. Bisogna avere il coraggio e l’onestà di chiamare le cose con il loro nome.
La scuola ha certo il compito di fornire un metodo, ma non può rinunciare a quello di trasmettere anche conoscenze,
conoscenze in atto, non solo potenziali, un quadro istituzionale delle varie discipline il più possibile completo, se non vuole venir meno alla sua funzione essenziale.
Facciamo un’ipotesi, una classe terminale che lavori tutto l’anno, in modo interdisciplinare, su un solo argomento, poniamo l’Italia nell’età giolittiana, approfondendolo mirabilmente nei suoi vari aspetti: letteratura, storia politica, sociale ed economica, storia della cultura e delle idee, filosofia, arte, musica, sviluppo scientifico e tecnologico. Ma i ragazzi usciranno dalla scuola senza saper nulla dell’Italia e dell’Europa della Restaurazione, dei moti risorgimentali, delle guerre di indipendenza, del periodo postunitario, degli sviluppi paralleli della Francia, dell’Inghilterra, della Germania, dell’impero asburgico e ottomano, degli Stati Uniti, del Giappone, e così via (è inutile elencare). Mi chiedo se ci sia davvero qualcuno che lo possa considerare un risultato accettabile.
Ho conosciuto giovani molto bravi che al liceo avevano lavorato in modo simile, in certe materie (non in tutte, fortunatamente), e deprecavano quasi rabbiosamente di avere quelle vaste lacune nella loro formazione, che scontavano pesantemente negli studi universitari: del famoso «metodo» acquisito in tal caso non sapevano che cosa farsi. E per contro mi è capitato, agli esami, di trovare altri giovani, che avendo pure essi lavorato in modo simile alle superiori, presentavano abissi incredibili di ignoranza, ma senza rendersene conto, e quindi restavano sorpresi dinanzi agli esiti fallimentari della prova. Quanto al possesso del metodo, è meglio sorvolare.