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Un caso di conformismo e banalità della critica.

L'asino vola
6 min readJun 9, 2016

di Gigi Livio

È con piacere che partecipo ai nostri lettori questa recensione-stroncatura che l’amico (e collega) Marco De Marinis ha steso mosso da una, non solo comprensibile ma del tutto condivisibile irritazione, per le approssimazioni, la filologia dilettantesca, i giudizi buttati giù senza cognizione di causa, eccetera del libro, già dal titolo molto indisponente che coniuga snobismo tutto da salotto romano con tanto di, non si sa se conscio o inconscio, rimando alla constatazione che oggi tutto è merce compreso e a incominciare dal libro stesso in questione.

Quando iniziai a frequentare gli spettacoli di quel teatro che non aveva ancora avuto una precisa denominazione, se non quella generica di “avanguardia”, feci mio, me ne accorsi soltanto a posteriori, il ben noto motto pirandelliano:

“la vita o si vive o si scrive”

e decisi di vivermelo il grande piacere estetico che quei magnifici teatranti mi davano; e, a parte poche cose, scrissi d’altro. De Marinis, al contrario, scrisse molto su questo teatro; e cose di molta importanza, anche perché è un infaticabile lettore e spettatore mentre io, seguendo la linea di principio di cui ho detto, ho sempre scelto di vedere soltanto ciò che mi piaceva e di lasciar perdere il resto. Per questo, per la stima che ho in De Marinis come studioso, non mi occuperò del libro perché la sua analisi è per me non solo corretta ma anche esaustiva e accentrerò la mia attenzione sul capitolo scritto da Donatella Orecchia.

Ora l’Orecchia, è cosa nota nel nostro ristrettissimo ambito, è stata tempo fa una mia allieva; e questo ovviamente mi spinge a ragionare se pur brevemente su ciò che ha scritto con l’intento di trarne almeno una conclusione che riguarda il libro tutto, visto che la stessa fa parte di un comitato di “coordinamento scientifico”, come viene pompaticamente esposto a p. 16 (noto solo di passata che questo volume, che ha nel titolo “Made in Italy”, si fregia anche di un “Project manager”) ed è quindi anch’ella responsabile di tutta l’impostazione “scientifica” dell’opera.

Come autrice l’Orecchia firma il capitolo L’attore e le “tradizioni” del Nuovo Teatro. Su ciò che scrive ci sarebbero molte cose da dire ma non voglio farla lunga, anche perché tengo che le nostre lettrici e lettori si dedichino proficuamente alla lettura del microsaggio di De Marinis. E, pertanto, mi fermerò su un solo punto: la struttura base del capitolo. L’autrice prende in considerazioni gli attori che ritiene meglio rappresentino il suo assunto: Carmelo Bene, Leo De Berardinis e Perla Peragallo, Carlo Cecchi, Carlo Quartucci e Carla Tatò, Antonio Neiwiller. Balza subito agli occhi un’assenza clamorosa, quella di Rino Sudano. È ovvio che ciascuno possa fare le scelte che ritiene più opportune, ma è altrettanto ovvio che le scelte debbano essere discusse, tanto più se sotto certe esclusioni si ha il sospetto che si nasconda ben altro che un giudizio critico.

Un passo indietro. Nel 2002 si svolse a Torino un convegno dedicato a Rino Sudano durante il quale, oltre a me, tenne una relazione proprio l’Orecchia; questi interventi vennero poi pubblicati sull’“Asino di B.” (“L’asino di Buduo”, ovviamente, per la periclitante filologia della Valentini), la rivista che avevo fondato nel 1997 e su cui i miei allievi di allora poterono pubblicare i loro primi saggi critici. Il mio scritto si intitolava Le cause di una rimozione. Il teatro di Rino Sudano e iniziava proprio dicendo che, in un mondo come questo, il teatro “etico” di Sudano non aveva alcuna possibilità di essere accettato come anche la critica che con questo tipo di poetica teatrale coincideva. Nulla di ‘profetico’, naturalmente: il mondo è quello che è e le donne e gli uomini di 14 anni dopo non sono affatto cambiati, sono solo peggiorati: era troppo facile profetizzare questo nel 2002 come è facile prevedere oggi che, se non interviene un non prevedibile risorgimento del pensiero critico, le cose continueranno a peggiorare. Individuavo poi le cause di questa rimozione nel rigore di quel teatro etico, nel non esser mai sceso a compromessi artistici di Sudano e nel suo voler insistere a mettere davanti agli spettatori, che regolarmente lo abbandonavano, uno specchio in cui si riflettesse la loro vigliaccheria e la loro impotenza, quest’ultima non nel senso di essere tali, lo siamo tutti in una società come questa, ma in quello di accettare supinamente di esserlo senza nemmeno volere esserne consapevoli.

La coscienza di tutto ciò non comprendeva in nessun caso l’invito a abbandonare la lotta perché l’antagonismo nei confronti dell’ingiustizia, di qualsiasi genere e di qualsiasi grado, è essa stessa un valore perché ha in sé il pensiero che ciò che è stato non necessariamente sempre sarà. E al mio saggio, nel numero 8 dell’“Asino di B.” , seguiva quello di Donatella Orecchia, Rino Sudano: appunti intorno a “Mors II” e altro, dove l’autrice diceva di aver assistito per la prima volta a un gesto teatrale di Sudano, il 12 marzo 1991, e scriveva:

“Fu allora innanzitutto l’esperienza di una diversità [corsivo dell’autrice]: l’incontro con uno dei percorsi artistici che […] più radicalmente si opponeva al ‘teatro di rappresentazione’ […] in una tensione che dal campo estetico si apriva a un discorso più ampio di lotta verso una realtà culturale, e insieme ineluttabilmente politica ed economica, “altra” (non riformisticamente alternativa)” (p. 28).

Credo che il motivo della cancellazione della memoria di quel teatro che avviene in questo libro sia tutta qui, nella diversità del “teatro etico” che consisteva, e nella memoria ancora consiste, nell’essere “uno dei percorsi artistici che più radicalmente si opponeva al ‘teatro di rappresentazione’” e nella sua “lotta verso una realtà culturale, politica ed economica” correttamente definita “altra” e cioè “non riformisticamente alternativa”: ovviamente quest’ultima, che non è certamente “altra” perché è “omologa” al mondo in cui viviamo, ha vinto perché non avrebbe potuto non vincere: la società è questa e la sua ideologia, la sua falsa coscienza cioè, che comprende anche la valutazione artistica, è ovviamente, non è il caso di essere marxisti per capirlo, proprio la “sua”: figuriamoci cosa c’entra qui Sudano col suo “teatro etico”, rigorosissimo e che non prevede, in arte, il compromesso; ecco, appunto, non c’entra proprio nulla.

Rino Sudano

Ovviamente, parlando qui di esclusione di un certo tipo di teatro, non ho detto nulla sul suo valore artistico e sembrerebbe quasi che il teatro etico di Sudano fosse qualcosa di esclusivamente ‘politico’. Neanche per sogno perché Sudano che ebbe sempre come compagna d’arte Anna D’Offizi, non solo bravissima attrice adattissima a fare da controcanto alla lucida e fredda disperazione accusante del partner, ma anche la più bella voce femminile che mai io abbia ascoltato in teatro — era un attore eccezionale: egli, che dal caso aveva avuto tutto, bellezza, prestanza, bella voce, fascino, seppe, in palcoscenico, non solo rinunciare a tutto ciò ma usare queste doti al contrario, rovesciandole e, a suo delizioso modo, irriderle; e anche in questo, nel momento di fare arte, contraddiceva con molta violenza e molta grazia (nel suo caso non è affatto un ossimoro), il tipo di attore italiano, e non solo, che si pavoneggia mettendo in mostra le particolarità che deve al caso:

Sudano, attore in questo senso ‘leopardiano’ e di conseguenza lucidissimo, non solo conosceva la casualità della vita ma ne seppe anche fare arte.

Come si vede, anche da questi brevissimi, concentratissimi e ellittici cenni, la ragioni dell’esclusione risultano molto evidenti. E tanto basta.

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Written by L'asino vola

scritti molesti sullo spettacolo e la cultura nel tempo dell'emergenza

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